Armi all'Arabia saudita i rischi della scelta americana
Testata: L'Opinione Data: 10 agosto 2007 Pagina: 0 Autore: Maurizio Bonanni Titolo: «Washington e Riyad, un passo indietro»
Da L'OPINIONE del 10 agosto 2007:
“Indietro nel futuro”! Questo sembra l’unico slogan che si addice all’attuale politica americana di riarmo degli Stati arabi “moderati” del Golfo, Arabia Saudita in testa, alla quale Bush ha promesso di vendere 20 miliardi di dollari (in 10 anni) di armamenti ultra-moderni, fiore all’occhiello dell’industria militare “made in Usa”. In fondo, è economicamente molto più vantaggioso, indubbiamente, esportare armi, anziché “democrazia”, visto che per mantenerla in Irak gli americani sono stati costretti già a sborsare (inutilmente?) centinaia di miliardi di dollari, senza parlare dell’infinita scia di sangue di vittime americane ed irakene, a seguito di una catena inarrestabile di attentati suicidi. Ce lo vogliamo dire: “ma sono pazzi questi americani”? A sentire alcuni esponenti filo-israeliani, pare proprio di sì.
Tecnicamente, l’Amministrazione Bush ha in animo di rafforzare gli stati maggiori sauditi con: 1) sistemi di difesa antimissile e di allerta rapida; 2) navi ed altri dispositivi marittimi, per rafforzare la capacità operativa della flotta saudita dislocata sul lato Est; 3) armi ed equipaggiamenti, per far fronte ad attacchi con armi non convenzionali –terrorismo incluso - e per la protezione delle infrastrutture (petrolifere, in particolare!); 4) armi utili per contrastare la proliferazione degli armamenti (non meglio specificato!). Nicholas Burns, sottosegretario agli affari politici, tranquillizza tutti, dicendo che, nemmeno per sogno, l’obiettivo condiviso con i sauditi e gli altri petrostati della regione (Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar e gli Emirati Uniti), anch’essi destinatari di nuove forniture di armi tecnicamente avanzate, è quello di tenere a bada l’Iran. Sarà. Ma intanto Israele fa notare che le migliaia di “Joint Direct Attack Munition” (JDAM), ovvero di un kit a basso costo per la guida automatica, in grado di convertire le attuali bombe “stupide” in ordigni “intelligenti”, capaci di colpire i bersagli con grande precisione, non sono propriamente spunti “tranquillizzanti” per Tel Aviv! Molti si interrogano su questa politica del gambero, di un ritorno all’antico dell’Amministrazione Usa. Ci sono alcuni problemini collaterali da risolvere, prima di dichiarare che questa strategia di riarmo possa funzionare. Vediamone alcuni.
Il primo, ad esempio, è rappresentato dal fatto che, malgrado le apparenze, il Governo irakeno, guidato dallo sciita Maliki, è considerato come un “nemico” da Riyad, con la bella prospettiva che, in caso di conflitto, a rimetterci di brutto siano proprio gli irakeni visto che, per loro, l’America non prevede alcuna fornitura di armi avanzate. Un po’ perché (giustamente) non c’è da fidarsi, visto che mancano all’appello centinaia di migliaia di kalanshinkov, gentilmente forniti ed acquistati dagli Usa per le esigenze del neo-ricostituito esercito irakeno, e che si sospetta siano finiti nell’armamentario dei ribelli. Un po’ perché, detto francamente, nessuno sa che cosa potrebbe accadere dopo il ritiro inevitabile delle truppe americane. In caso di (più che probabile) guerra civile, chi riesce a mettere le mani sugli arsenali tecnologicamente evoluti avrà, obiettivamente, il coltello dalla parte del manico. E, poi, francamente, le forniture sono un’arma a doppio taglio, in quanto spingono l’Iran a rivolgersi ai produttori di armi russi e cinesi ed alimentano pericolosamente la propaganda qaedista, che punta a destabilizzare proprio i “regimi-fantoccio” arabi, solidali con l’Occidente.
Ma che ci guadagna l’America (e Noi!) nel fare questo grosso favore ad una delle monarchie più chiuse e fondamentaliste del mondo? Per ora soltanto qualche promessa, come quella di valutare se aprire una legazione o un’ambasciata saudita a Baghdad, o di prendere parte ad una conferenza di pace che veda allo stesso tavolo Israele e gli Stati arabi moderati della regione. Il secondo dei problemi è prettamente politico. Da dati ufficiali, infatti, risulta che il 45% degli attentatori suicidi che hanno portato morte e devastazione in Irak (facendo qualcosa come 2.000 vittime!) sono “cittadini sauditi”. Come se Riyad stesse lottando contro il terrorismo interno semplicemente “esportando all’estero” i terroristi di casa sua! Non sarebbe stato meglio chiedere in cambio, politicamente, a Ryad di silenziare i suoi imam (molti pagati dallo stato saudita!) che emanano fatwe per garantire l’appoggio agli insorti sanniti irakeni, da parte dei fedeli musulmani sauditi?
Dulcis in fundo: chi ha mai dimenticato che i nove-undicesimi del commando che colpì le torri gemelle avevano passaporto saudita? Ma non sarebbe stato meglio tagliare le unghie ai petrosceicchi, affinché, in cambio di aiuti occidentali, mantenessero bassi i prezzi del greggio ed aprissero ai diritti umani? Si pensi alla mancanza di reciprocità, dal punto di vista religioso, in quanto nell’Arabia Saudita è proibito costruito chiese cristiane. Allora, perché non ci facciamo un po’ furbi, facendoci magari pagare la protezione dell’ombrello nucleare Nato-Usa, da estendere ai loro preziosissimi giacimenti petroliferi?
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