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Il Foglio Rassegna Stampa
10.07.2007 Parlano gli ebrei di Hebron
che il governo israeliano vuole evacuare

Testata: Il Foglio
Data: 10 luglio 2007
Pagina: 3
Autore: la redazione
Titolo: «A Hebron i coloni sono pronti a restare anche senza Israele»
Dal FOGLIO del 10 agosto 2007:

Hebron. C’è soltanto un tavolo, in mezzo alla stanza principale del container dove si sono appena trasferiti gli Yahalom, marito e moglie e quattro figli. Nella camera da letto i materassi sono per terra. L’esercito israeliano li ha sgomberati pochi giorni fa da alcuni locali occupati abusivamente nel vecchio mercato di Hebron, la zona della città della Cisgiordania abitata da circa 400 settlers. Nuove ordinanze d’evacuazione sono state emesse ieri. Dal 1997, anno degli Accordi di Hebron, la città è divisa in due settori. La zona H1, in cui vivono circa 120 mila palestinesi, è amministrata dall’Autorità nazionale palestinese. L’area H2, in cui vivono 30 mila palestinesi e circa 600 settlers, è controllata dagli israeliani. Qui, fino alla fine degli anni Venti, viveva, assieme agli arabi, la comunità ebraica autoctona e qui, nel 1929, ha avuto luogo un terribile massacro. La popolazione araba attaccò gli ebrei, uccidendo 67 persone, uomini, donne e bambini. Le case furono assalite, la sinagoga dissacrata. I sopravvissuti lasciarono la città. Per Shlomo Avineri, professore di Scienze politiche all’Università ebraica di Gerusalemme, quello del ’29 è stato un massacro terribile anche per la sua valenza simbolica: la comunità ebraica, infatti, da secoli viveva nella zona. Alcune famiglie tornarono due anni dopo, ma l’Amministrazione britannica decise di allontanarle da Hebron in seguito a nuovi scontri durante la rivolta araba del 1936-39. Quasi trent’anni dopo, alcuni ebrei, guidati dal rabbino Moshe Levinger, decisero di stabilirsi a Hebron. Non erano discendenti delle famiglie del ’29. Israele aveva appena conquistato la Cisgiordania con la guerra dei Sei giorni del 1967. “Dio ci ha servito Hebron su un piatto d’argento”, ha detto al telefono con il Foglio la moglie di Levinger, Myriam. Shelly Karzen, 47 anni, è arrivata a Hebron 23 anni fa dagli Stati Uniti, con suo marito. Racconta che i Levinger affittarono alcune stanze in un albergo della città. Poi, il governo israeliano propose loro di stanziarsi nel campo militare a pochi chilometri. Nacque così l’insediamento di Kyriat Arba. Da lì, nel 1979, alcune famiglie tornarono a Hebron, occupando Beit Hadassah, un ospedale costruito attorno al 1870, sia per ebrei sia per arabi, abbandonato dopo il ’29. Da allora, i settlers sono presenti nel quartiere del mercato, dove una volta abitava la vecchia comunità ebraica. Hebron è la seconda città santa per il giudaismo, dopo Gerusalemme, ma è sacra anche per musulmani e cristiani. Qui sono sepolti i patriarchi e le matriarche: Abramo, Isacco,Giacobbe, Sara, Rebecca e Lea. Sul sito delle tombe, nel VI secolo, fu eretta una basilica bizantina; dopo la conquista araba del VII secolo una moschea, convertita in chiesa con l’arrivo dei crociati e ancora in moschea dai mamelucchi. Oggi, le aree di preghiera sono separate. Shelly ha cinque figli. La casa in cui vive, a pochi metri da Beit Hadassah, trasformata in museo, è ristrutturata. Veste come le donne ultraortodosse: il capo coperto da un foulard, maniche lunghe, gonna fino ai piedi, calza un paio di Crocs. Si occupa di traduzioni. Ha scelto Hebron perché è qui che ci sono i suoi antenati, dice. “Siamo tornati a casa”. Per anni ha vissuto in un container di 20 metri quadrati: soltanto di recente il governo ha permesso ai settlers di costruire strutture permanenti o ristrutturare le antiche proprietà ebraiche. La questione è oggetto di contenzioso. Secondo la legge israeliana, nessuno può comprare o vendere nei Territori occupati senza l’assenso del ministero della Difesa, mai arrivato. I settlers però, organizzati in comunità, sostengono di avere ricevuto il permesso dalle famiglie del ’29. Non è d’accordo Hagit Meshorer. Sua nonna, Zemira Mani, aveva 16 anni il giorno del massacro e viveva a Hebron. La famiglia è sefardita. In casa allora si usava l’arabo. La nonna fu salvata, come altri membri della comunità, dai vicini palestinesi. Non è mai tornata a Hebron, non ha mai più parlato arabo. Un’altra nipote, Noit Geva, ha girato un documentario nel 2000 sulla base di una lettera spedita dalla nonna a un quotidiano dopo la strage. Le due discendenti dicono di non voler essere associate ai nuovi abitanti del mercato, tra loro c’è un divario. I settlers sono molto ideologizzati, fortemente religiosi, spesso esponenti di una destra estremista, controversi in Israele. I rapporti con la popolazione araba sono molto tesi. Le vie del vecchio suk semivuoto di Hebron, parte palestinese, su cui si affacciano le finestre delle case dei settlers, sono riparate da una rete per evitare il lancio di oggetti. Nel 1980, sei ebrei che tornavano dalle tombe dei patriarchi furono assassinati. Nel 1994, un settler entrò in moschea durante la preghiera e con un M16 uccise 29 persone. Dopo questi fatti, l’Anp e il governo israeliano stabilirono la creazione della Temporary International Presence in Hebron, una missione d’osservazione. I soldati di Tsahal, presenti nell’enclave per assicurare la protezione dei civili, sono considerati dai settlers rappresentanti di un potere che ha evacuato gli ebrei dalla Striscia di Gaza. “Siamo molto idealisti – dice Shelly – Non ho paura, credo in Dio. La mia vita è normale, vado a trovare i nonni, cucino, scrivo”. Non crede nella possibilità di un ritiro israeliano dalla Cisgiordania. Non crede di poter vivere sotto l’Anp. “Ci ucciderebbero dopo un quarto d’ora”. La soluzione, dice, in caso di disimpegno dell’Idf, sarebbe “una specie d’armata ebraica, un meccanismo di battaglia capace di assicurarci sicurezza”. Al contrario di Hagit e Noit, Shlomo Slonym, 79 anni, è contento che i settlers siano nel vecchio mercato. E’ un reduce del ’29. Vive a Raanana. Naom Arnon, portavoce della comunità, è a Hebron da 33 anni. “Israele vive un processo di distruzione, danno il potere ai terroristi”, dice riferendosi al ritiro da Gaza e alla recente presa di potere nella Striscia del gruppo islamista Hamas. Definisce “pazzia” la politica del governo Olmert. In caso di disimpegno dalla Cisgiordania, “rimarremo, ma sappiamo che è impossibile per noi vivere sotto l’Anp”.

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