Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein".
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)
Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine.
In Libano una guerra giusta, i soldati israeliani non sono morti invano le parole di Abaraham B. Yehoshua
Testata: Corriere della Sera Data: 10 agosto 2007 Pagina: 35 Autore: Lorenzo Cremonesi Titolo: «Caro Grossman, tuo figlio Uri non morì invano»
Dal CORRIERE della SERA del 10 agosto 2007:
GERUSALEMME — Ad Avraham Yehoshua la definizione di «pacifista» proprio non va giù. Un conto è cercare il compromesso, o come dice lui «una pace giusta», con i palestinesi, o più in generale tra Israele e il mondo arabo. E un altro è essere ad ogni costo contro la guerra, imbelli e disarmati a qualsiasi prezzo. «I pacifisti italiani, come del resto gran parte della sinistra europea, sbagliano di grosso quando pretendono di reclutare me, o David Grossman e Amos Oz, tra le loro file. E per loro la morte del figlio di David, Uri, il 12 agosto 2006, per ironia della sorte proprio durante le ultime ore della guerra in Libano, immediatamente dopo che noi avevamo reso pubblico il nostro appello al governo Olmert perché accettasse il cessate il fuoco proposto dall'Onu e accolto dal premier libanese Fouad Siniora, è sempre apparsa come una riprova della nostra condanna senza appello di quel conflitto. Ma è falso. Falso e fuorviante. Perché noi non eravamo affatto contrari all'attacco contro il Libano, dopo che l'Hezbollah, all'alba del 12 luglio, aveva ucciso otto dei nostri soldati e ne aveva rapiti altri due mentre pattugliavano la frontiera internazionale. Semplicemente ritenevamo che fosse giunto il momento di deporre le armi e trattare». È una lunga riflessione, a un anno dalla guerra, quella che fa con il Corriere il celebre scrittore israeliano. Yehoshua ne parla per telefono da Oxford, dove sta completando un nuovo romanzo. Come spesso avviene con lui, inizia dicendo che può concedere «solo cinque minuti». Ma poi la passione e il suo modo molto israeliano di argomentare, diretto, sconcertante per l'incedere dissacratorio, privato e politico allo stesso tempo, gli portano via quasi un'ora. Sulla morte di Uri, poco più che ventenne bruciato vivo nel suo carro armato, Yehoshua ha memorie molto vive. La prima telefonata a casa Grossman, i funerali, il caos delle visite di cordoglio. E non solo il dramma di David, il dolore ancora acutissimo della moglie Mikhal, la fine di quel ragazzo che «per la celebrità del padre è assurto rapidamente a simbolo di tutti i nostri soldati caduti in battaglia». Ma anche le confidenze tra colleghi-intellettuali di un Paese così piccolo, dove in certi ambienti ci si conosce tutti molto intimamente da anni e anni. «A un certo punto David mi confessò di essere paralizzato dal male. "Non posso più scrivere. Tutto mi sembra vacuo, che sarà di me?", ripeteva. Io gli dissi che almeno su questo poteva stare tranquillo. Noi scrittori in qualche modo siamo protetti dal dolore. Scrivere è una grande terapia, ci difende. Ci sono i caratteri alla Flaubert, che tendeva a costruire una barriera tra la sua opera e le tragedie private. E invece quelli come Dostoevskij, che si ispirò alla morte del padre per scrivere I fratelli Karamazov, L'idiota o Delitto e castigo. Seho ben capito, proprio in questi giorni David sta terminando un romanzo che gli è costato quattro anni di lavoro. Per lui è una vittoria». Ma, a 71 anni d'età, Yehoshua possiede ormai il carisma, l'esperienza e l'autorità, per guardare dall'alto alle vicende del suo Paese, compresi i lutti. «Non ho paura a dire, e l'ho ribadito con franchezza anche a Grossman, che i nostri soldati, incluso suo figlio, non sono morti invano. Quella in Libano l'anno scorso è stata una guerra sacrosanta, pienamente legittima. Nulla a che vedere con l'invasione voluta nel 1982 dall'allora ministro della Difesa Ariel Sharon. In quel periodo io ero assolutamente contrario. E penso lo fosse anche Grossman, sebbene ancora giovanissimo e praticamente sconosciuto. Concordavo in tutto con le denunce del movimento "Pace Adesso". La politica di Sharon fu letteralmente criminale, come lo è stata più tardi nei territori occupati. Non è così per il 2006. Dovevamo difenderci. Sei anni prima ci eravamo finalmente ritirati sul confine internazionale. L'aggressione dell'Hezbollah fu totalmente ingiustificata e necessitava di una risposta violenta, decisa, radicale da parte nostra». Tutto, tranne che il discorso di un «pacifista». Yehoshua crede fermamente nella necessità di possedere un esercito pronto e ben addestrato. Non è un militarista. «Preferisco il caos della democrazia ebraica e dei media assolutamente aperti, che non i silenzi imposti dalla censura», chiarisce. Ma non esclude affatto la possibilità di dover ricorrere alla guerra «in casi estremi». «Ci sono conflitti giusti e ingiusti. Non c'è pacifismo che tenga di fronte al nazismo. Così come non è possibile non pensare ad una risposta armata contro la minaccia di Al Qaeda e del fondamentalismo islamico. Sebbene non sia io uno di quelli che mettono sullo stesso piano Osama Bin Laden, Hitler, Hezbollah o Hamas. Tutt'altro, sono fenomeni diversi. Non sono neppure d'accordo con chi afferma che l'Hezbollah sia terrorista. Si tratta di un gruppo di guerriglieri che vorrebbe eliminarci. E noi abbiamo il dovere di combatterlo». Che dire allora del fatto che in Israele oggi questo conflitto sia percepito da larga parte dell'opinione pubblica come una sconfitta? «Tutte invenzioni, spesso amplificate dal piagnisteo dei soldati, dalle lamentele dei comitati dei genitori, dalla realtà per cui in una società aperta e democratica come la nostra, l'anno scorso, ancora mentre si combatteva, era permesso criticare il primo ministro, quello della Difesa e il capo di Stato Maggiore senza censure». Qui a parlare è il vecchio soldato israeliano. Yehoshua racconta, non senza un filo di fierezza militare, di essere stato da giovane nelle unità d'élite dei paracadutisti, di avere partecipato ai blitz contro la Siria, la Giordania e l'Egitto negli anni Cinquanta. «Quando nella guerra del 1956 fui spedito con il mio battaglione nel cuore del Sinai, per settimane e settimane non ebbi alcun contatto con la mia famiglia. Altro che pizze dai ristoranti di Haifa! I nostri addestramenti duravano mesi. L'anno scorso avveniva invece che durante i combattimenti a Bint Jebel i soldati chiamassero la mamma o la fidanzatina con il cellulare, lamentando la mancanza di cibo, il freddo, la notte e la scarsità delle munizioni. Queste alzavano la cornetta e lo dicevano ai giornalisti. Un secondo dopo radio e televisione accusavano il governo e gli alti comandi di essere inadeguati, impreparati o peggio ancora. È vero che questo conflitto ha rivelato gravi deficienze, per esempio la carenza di bunker in Galilea. Ma è anche vero che nessuno dall'altra parte denunciava le perdite reali dell'Hezbollah, il fatto che nel Sud del Libano cresceva il malcontento tra gli stessi sciiti. La verità è che oggi Hassan Nasrallah resta nascosto, i suoi uomini sono controllati dall'Unifil e le sue capacità offensive appaiono quasi nulle». Su questo punto Yehoshua ci tiene a giocare la carta delle sue continue visite in Italia e della popolarità di scrittore straniero tra i più tradotti e venduti nel nostro Paese. «Lo dico ad alta voce: grazie al governo Prodi, che ha scelto di mandare tremila soldati in Libano. I francesi nicchiavano, volevano restare al comando dell'Unifil senza davvero impegnarsi. L'Italia invece si è comportata alla grande ed è servita da esempio per tutta la comunità internazionale. Sarei felice se ci fosse anche un contingente italiano a Gaza e in Cisgiordania». E le prove della sconfitta dell'Hezbollah? «Tante. Basti ricordare la più recente. Due mesi fa un gruppo di estremisti palestinesi ha tirato un paio di razzi dal Libano sulla Galilea. Pochi minuti dopo Nasrallah è corso ad annunciare ai quattro venti che non c'entrava per nulla. Un anno fa avrebbe fatto carte false pur di esaltare la sua capacità offensiva».
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