Le vacanze di israeliani e palestinesi un reportage di Francesca Paci
Testata: La Stampa Data: 09 agosto 2007 Pagina: 17 Autore: Francesca Paci Titolo: «Cielo intasato, mare blindato»
Da La STAMPA del 9 agosto 2007, le corrispondenze di Francesca Paci sulle vacanze degli israeliani e dei palestinesi:
«Appena posso volo via. Amo la mia terra e resterò sempre qui, ma appena posso volo via: Israele è una prigione, bene accessoriata, lussuosa, niente a che vedere con Gaza e la Cisgiordania, ma pur sempre una prigione». Ilana Hayut attende il turno al check-in della compagnia aerea El Al, la fila scorre ma lei ha decine di persone davanti, dal suo posto è impossibile vedere il banco degli impiegati. Trentacinque anni, jeans e canottiera, ricercatrice scientifica all’università di Be’er Sheva, Ilana va in villeggiatura in Italia con il fidanzato Yochanan. Mille schekel per il viaggio, circa 500 euro, e almeno il doppio per dieci giorni di gran tour. E pazienza se corrisponde all’intero stipendio di un mese: «Ho bisogno d’aria e in automobile non possiamo andare da nessuna parte. Il nord è bloccato dai confini libanesi e siriani, a est c’è la Giordania ma non mi sento sicura, a ovest c’è il mare. Restano solo le spiagge del Sinai egiziano dove però sembra di stare ad Haifa, ci fosse un turista che non parla ebraico...». Che vivano nella Gerusalemme delle pietre contese o nell’oblio di Tel Aviv, con l’eco del conflitto palestinese coperto dalla musica house, gli israeliani non vedono l’ora di decollare. Un po’ il desiderio di evadere dalla routine, che da queste parti è spesso sinonimo di tensione, un po’ la sindrome dell’assedio che riduce al minimo lo spazio vitale, la voce di spesa preferita è «viaggi». Basta un ponte di tre giorni e l’aeroporto Ben Gurion, l’unico del paese, si trasforma in un fortino assediato da passeggeri e carrelli. Secondo il ministero del turismo negli ultimi sei mesi sono partite per una vacanza oltre due milioni di persone, un terzo della popolazione, il 9 per cento in più rispetto allo scorso anno. Solo a giugno i tour operator hanno contato 332 mila clienti, sette volte su dieci diretti all’estero con l’aereo. «Non ho più un posto disponibile fino alla fine di settembre, tutto overbooked» ammette Mali Nantzur, agente della Ophir tours di Gerusalemme, 50 anni di cui venti alle prese con il turismo. Il blocco delle liste d’attesa sulla sua scrivania sembra un elenco telefonico. «La gente è disposta a partire per qualsiasi destinazione. Se la meta desiderata è impossibile va bene il primo last minute disponibile: ripetono tutti che l’importante è rilassarsi dallo stress nazionale». E si affannano dietro a bagagli e Lonely Planet acquistate al magnetico duty free di Ben Gurion, un centro commerciale formato americano. Ilana e il fidanzato volano a Roma, Esther e Yaniv a Parigi, i Grunis, mamma papà e due bambini di 7 e 10 anni, in Spagna. L’Europa resta l’alter ego ideale degli israeliani. Tutti, compreso Dan Segev diretto con la moglie Sally alla volta di Berlino, dopo anni di boicottaggio dei prodotti tedeschi, «per conoscere la cultura del nemico degli ebrei». Ma sui tabelloni luminosi dell'aeroporto, che le misure di sicurezza costringono a un ordine quasi svizzero, si accendono a intermittenza gli imbarchi in corso per Buenos Aires, Santiago del Cile, Nuova Deli, Istanbul, Cipro, dove trascorrono l’estate anche i palestinesi più benestanti. «Gli Stati Uniti sono molto costosi, 1400 dollari solo per il biglietto andata e ritorno» nota Tal Teperberg, responsabile della Snir Travel & Tours. Una cifra scoraggiante? Tutt’altro: «C’è un jumbo della El Al che parte ogni giorno per New York». Solo posti in piedi fino a settembre. Qualcuno si avventura in nave imbarcandosi al porto di Haifa o Ashdod, ma si tratta ancora di pochi pionieri, 18 mila nel mese di giugno. È lo scalo di Ben Gurion la porta d’Israele, la vera frontiera del paese, croce e delizia dei passeggeri che si ammassano a ridosso dell’unica via d’uscita sicura per una boccata d’aria e uno sguardo da lontano alla propria routine.
Hanan Wael, 25 anni, laurea in lingue straniere all’Università di Bir Zeit, preferisce la piscina, una delle dieci di Ramallah. Lo «stabilimento balneare» sul mar Morto «Ein Fascha, the arab beach», l’unica spiaggia a disposizione dei palestinesi della Cisgiordania, poche decine di metri quadrati di arenile circondati da un reticolato, è il simbolo della prigione in cui si sente rinchiusa: «Non ci sono mai stata, ho la claustrofobia solo a pensare di fare il bagno in quello zoo». Sua madre Hala qualche volta va con le quattro sorelle. Un’oretta e mezza di macchina in direzione di Gerico ed ecco il cartello «Dead Sea»: a sinistra l’arab beach spartana e recintata, a destra le dune del deserto del Negev spezzate dalle sofisticate stazioni termali israeliane a loro precluse. Una volta Hanan e la sua famiglia nuotavano nel Mediterraneo. «Fino a una decina di anni fa l’estate andavamo a Gaza», ricorda. Poi, prima che i palestinesi si dividessero tra Hamas e al Fatah, sono state divise le loro strade. In mezzo, spartiacque impossibile da attraversare senza un permesso speciale, il territorio israeliano. I gaziani hanno perduto la libertà e gli abitanti della Cisgiordania l’accesso alla spiaggia «nazionale». Nelle notti terse, chi vive ai piani più alti dei palazzi di Ramallah vede all’orizzonte le luci del porto di Tel Aviv, lo stesso mare di Gaza. Oggi, quando l’afa estiva incalza, l’unica soluzione è un tuffo dal trampolino. «Le piscine sono l’orgoglio della Cisgiordania», spiega Ahmed Rajoub, 30 anni, bagnino di Al-Khahuf, la piccola struttura fiore all’occhiello del villaggio di Dura, vicino Hebron. Qui, tra le colline di ulivi e vigneti, vengono a rinfrescarsi 2500 palestinesi ogni weekend. C’è anche un’area riservata ai vip, dove si mormora venisse Mustafa Barghouti prima di finire in prigione. Il biglietto costa dieci schekel, 2 euro, una spesa che vale la giornata. I ragazzini schiamazzano indifferenti ai richiami di Ahmed, gli uomini discutono immersi nell’acqua, le donne siedono a bordo vasca coperte fino ai piedi come le bagnanti che si vedono passeggiare in spiaggia nella Gaza di Hamas. Il proprietario, Abdullah Abu Znayud, assicura che presto farà costruire una sezione femminile tale e quale quella di Nablus: «La nostra cultura araba non permette le piscine miste». E neppure la vendita di alcolici al chiosco sotto l’ombrellone: «C’è tutto il resto, caffè, spremute, succhi di frutta, Fanta e Coca Cola». A Ramallah è diverso. La San Francisco della Cisgiordania è l’ultima frontiera della laicità palestinese. Anche in piscina. L’impianto dell’Hotel Gran Park, buon retiro dei dirigenti di Al Fatah fuggiti dalla guerra civile di Gaza, è uno dei più frequentati. Lettini a bordo vasca, trampolino, bar fornito di Baileys e Bacardi Breeze. Fatema Khadir sfoggia un bikini rosso: «Mi piacerebbe andare al mare. Ma Gaza è chiusa, e comunque con le milizie islamiche in giro a far la ronda sarebbe impraticabile. L’arab beach sul mar Morto è una galera controllata dagli israeliani, come se non bastassero i già non piacevoli cinquanta gradi di temperatura. Resta la piscina». Infila i capelli lunghi e neri nella cuffia di silicone e s’immerge rapida. Dopo la seconda intifada e la chiusura totale dell’accesso al mare, quasi ogni città della Cisgiordania ha aperto un impianto sportivo. Un fenomeno massiccio che ha incuriosito il quotidiano israeliano Haaretz. Betlemme ha una struttura simile ad Al Khahuf, Tubas un’altra. Dal centro ricreativo di Jenin proveniva uno dei kamikaze dell’attentato al ristorante Sbarro di Gerusalemme, nel 2001. Moderne o conservatrici, le piscine rappresentano la vacanza dei palestinesi meno facoltosi. Ma il sogno proibito resta l’acqua salmastra. Fosse pure quella con l’orizzonte spezzato dell’acquario di «Ein Fascha».
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