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Corriere della Sera - Ansa - Il Riformista Rassegna Stampa
08.08.2007 Sulla memoria della Shoah
le crepe del monumento di Berlino, la morte dello storico Raul Hilberg, un archivio che l'Italia non vuole venga aperto

Testata:Corriere della Sera - Ansa - Il Riformista
Autore: Gabriela Jacomella - la redazione - Paolo Soldini
Titolo: «Berlino, crepe nel Memoriale per le vittime dell'Olocausto - Usa: Morto Raul Hilberg, storico dell'Olocausto - Diteci perché l'Italia teme le carte naziste»
Dal CORRIERE della SERA dell'8 agosto 2007 (pagina 13):

BERLINO — A tutto avevano pensato, fuorché agli effetti del cambio climatico. Quattordici anni di discussioni feroci e progetti rifiutati, tre anni di lavori. Ma ne sono bastati due di «estati e inverni estremi», così li definisce il responsabile Uwe Neumärker, per trasformarlo in monumento «a rischio». L'allarme, ieri, è scattato dalle pagine della Berliner Zeitung:
«Il campo di stele è pieno di crepe».
Per chiunque sia stato a Berlino negli ultimi due anni, è impossibile non capire all'istante di quale campo si parli: quello del «monumento agli ebrei d'Europa assassinati» ( Denkmal für die ermordeten Juden Europas), con i suoi 2.711 parallelepipedi cavi in calcestruzzo scuro. L'opera più controversa della Berlino post riunificazione; al confronto, i dibattiti sulla demolizione (in corso) del Palazzo della Repubblica voluto da Honecker sono chiacchiere da bar.
Dal 1988, anno della campagna sottoscritta da Willy Brandt, Günter Grass e Christa Wolf, alla messa in posa della prima stele, nel 2003, successe di tutto; difficile del resto trovare l'accordo su un monumento che ricordasse «l'unicità e la responsabilità storica» dell'Olocausto come elementi fondanti dello Stato tedesco. La spuntò, tra mille polemiche, il progetto dell'architetto Peter Eisenman e dello scultore Richard Serra, e il 12 maggio 2005, il memoriale aprì le sue porte. In senso puramente simbolico, poiché chiunque e a qualunque ora del giorno può entrare nella spianata e camminare tra le stele grigie, le più basse che spuntano appena dal terreno, le più alte che superano i 4 metri e le 16 tonnellate. Un labirinto di colossali lapidi senza nome, in cui ieri i turisti si aggiravano con l'aria più concentrata del solito, alla caccia di quei 400 blocchi — quasi uno ogni 6 — sulla cui superficie corrono crepe sottili quanto un capello. Individuarle è facile: la pioggia che ci passa attraverso (le stele più grandi sono cave) trascina con sé la calce contenuta al loro interno, disegnando sottili rivoli di bianco sul selciato.
Alle quattro del pomeriggio, nell'enorme spiazzo tra la Porta di Brandeburgo e la futuristica Potsdamer Platz, l'addetto stampa del memoriale è visibilmente accaldato. Chissà se è colpa del sole che in questi giorni ha acceso l'estate berlinese o delle ore passate a rispondere ai giornalisti, «da stamattina siete arrivati già in 17, tra cui molte tv, tutto il mondo vuole sapere che sta succedendo». Nessun rischio di crolli, si affretta a chiarire; «un problema estetico, non statico», lo ha del resto definito
Herr Neumärker. La qual cosa non gli ha impedito di prendersela con i media, colpevoli di aver «gonfiato» un problema noto dal gennaio 2005 (allora, le stele ferite erano 20). «Ma già nel contratto l'azienda che ha ideato la miscela ci aveva avvisato della possibilità che si sviluppassero crepe fino a 0,1 millimetri di larghezza ». E dire che quello messo a punto dopo innumerevoli test da una ditta di Wilhelmshaven, in Bassa Sassonia, doveva essere un calcestruzzo a prova di terremoto: autocompresso, estremamente resistente, con una patina speciale anti graffiti. «Stiamo lavorando con Eisenman e con il politecnico di Berlino per trovare una soluzione», rassicura Neumärker. «Nelle fessure inietteremo una resina sintetica — spiega Manuela Damianakis, dell'assessorato allo Sviluppo cittadino — che sarà trattata in superficie» per rendere invisibili le rughe precoci di un'opera costata allo Stato federale 14,8 milioni di euro. Per risanarla ne potrebbero servire, secondo prime le stime, poco meno di un milione; e c'è il rischio che a pagare debba essere l'azienda produttrice, il materiale è ancora «in garanzia».
Resta il mistero sulle origini delle microfratture: due stele sono state smontate ed esaminate a fondo, senza risultati. «Forse hanno influito i lavori per la nuova ambasciata Usa, o per i tunnel della metropolitana», ipotizza Neumärker. L'unica certezza è che bisogna intervenire in fretta; le crepe vanno sanate entro l'autunno, altrimenti l'acqua che si infiltra all'interno rischia, una volta trasformatasi in ghiaccio, di ridurre in pezzi i gusci cavi delle stele più grandi. Un nuovo «inverno estremo» è alle porte. E
Herr Neumärker lo sa.

Un lancio ANSA:

WASHINGTON- Lo storico americano Raul Hilberg - che dedicò oltre mezzo secolo di studi all' Olocausto, sul quale scrisse un monumentale e fondamentale libro - è morto nei giorni scorsi a Burlington (Vermont), per un cancro polmonare, all'età di 81 anni. Lo ha annunciato l' Università del Vermont, dove aveva insegnato dal 1956 al 1991.

Nato a Vienna il 2 giugno 1926, lui stesso ebreo, Hilberg è noto soprattutto per 'La distruzione degli ebrei d'Europà, opera di riferimento sulla Shoah, che descrive con completezza, precisione e rigore storico come la Germania nazista pianificò e mise in atto lo sterminio. Cominciò a lavorare alla monumentale opera (1.200 pagine) nel 1948, quando - come disse lui stesso nel 2004 in una intervista all'agenzia Reuters - "nella comunità ebraica l' argomento era quasi tabù". "Andai avanti con il mio lavoro (...) quasi, vorrei dire, come forma di protesta contro il silenzio", sottolineò. Il libro fu pubblicato nel 1961 da un piccolo editore di Chicago, con un contributo dell'autore alle spese, ma Hilberg continuò a lavorare meticolosamente su testimonianze e documenti.

L'apertura degli archivi sovietici a partire dagli anni '90 gli permise di arricchire considerevolmente la sua opera, che usci' nel 2003 in una terza edizione assai ampliata. "La distruzione degli ebrei non fu accidentale. Nei primi giorni del 1933, quando il primo funzionario stilò la prima definizione di 'non ariano' in un'ordinanza dell' amministrazione, la sorte del mondo ebraico europeo si trovò ad essere segnata", scrive Hilberg nel suo libro. L'opera - pur criticata da taluni per l'attenzione più sui carnefici e sulla macchina tecnico-burocratica all'origine dell'Olocausto che sulle vittime - resta un momumento di erudizione e una 'summa' storica. Dalle radici dell' antisemitismo in Germania all'atteggiamento della popolazione, dalle prime leggi antiebraiche allo sterminio di massa - passando per gli espropri, le deportazioni, i ghetti, i campi di concentramento, le "operazioni mobili di massacro" - Hilberg descrive accuratamente il "processo di distruzione" che portò all'eliminazione di sei milioni di ebrei in Europa.

Nato da una famiglia ebrea che fu in parte uccisa dai nazisti, Hilberg emigrò nel 1939 negli Stati Uniti, dopo l' Anschluss (annessione) dell'Austria da parte della Germania hitleriana. Arruolatosi volontario a 18 anni nell'esercito Usa, combatté in Europa ed entrò nell'aprile 1945 a Monaco di Baviera con la 45/a divisione di fanteria. Dopo che il suo reparto aveva liberato il campo di concentramento di Dachau, il Hilberg cominciò a cercare nelle casse di documenti abbandonate dai gerarchi nazisti, e ad appassionarsi allo studio. Di lui restano anche altre opere dedicate alla Shoah: tra queste, 'Esecutori, vittime, testimoni' (1992), 'La politica della memoria' (1996), 'Olocausto: le fonti della Storia' (2201).

Dalla prima pagina del RIFORMISTA:

Il governo di Roma, anzi il ministero degli Esteri, deve una spiegazione ai sopravvissuti italiani dei campi di sterminio nazisti, agli ebrei e ai prigionieri, civili e militari, che furono costretti ai lavori forzati nelle officine del Terzo Reich, a quanti ebbero un figlio, un padre, un marito scomparsi nella Germania di Hitler. E sarebbe bene che questa risposta arrivasse presto, perché ha tardato già troppo, autorizzando sospetti che sarebbe stato bene, invece, spazzare via subito. La questione, nei suoi termini essenziali, è la seguente: ormai praticamente da solo, il governo italiano sta boicottando l'apertura dell'archivio di Bad Arolsen. In quell'archivio si trovano le prove necessarie a ricostruire esattamente le presenze ad Auschwitz e negli altri campi di sterminio, nei campi di concentramento e nelle fabbriche, come quella sotterranea di Dora Mittelbau, in cui gli ebrei, i prigionieri di guerra e molti internati italiani lavorarono come schiavi, fino alla morte, alla costruzione delle V2. Dalle carte è possibile ricostruire la sorte dei bambini che furono strappati ai genitori, dei beni che furono sequestrati agli ebrei, delle persone che, alla fine della guerra, non tornarono a casa dalla prigionia nel Reich e le cui tracce si persero nel nulla.
Ma per l'Italia tutto ciò pare non avere alcun valore. Perché questa indifferenza? C'è qualcuno o qualcosa da coprire? Forse, come sostengono diversi storici anglosassoni, la memoria della Santa Sede che, nei mesi e negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra, aiutò un gran numero di nazisti ricercati a fuggire in Sud America? O qualche interesse economico di peso? Giorni fa, riferendo su una class action intentata da un gruppo di ebrei americani di origine europea, la stampa americana ha adombrato la possibilità che il boicottaggio italiano risponda agli interessi delle Assicurazioni Generali. Oppure qualche altro, inconfessabile, segreto? Vedremo. Intanto cerchiamo di mettere ordine in una storia che è, di suo, abbastanza complicata. A Bad Arolsen, cittadina di 16 mila abitanti dell'Assia, a nord di Kassel, oltre al castello dei principi di Waldeck e Pyrmont che ne fa una della capitali del barocco tedesco, ci sono 27,5 chilometri di gallerie sotterranee riempite di carte. Sono 50 milioni di documenti dell'International Tracing Service (ITS) che riguardano circa 17 milioni di persone. La vicenda dell'ITS nasce, a guerra ancora in corso, per iniziativa di americani e britannici con lo scopo di facilitare il ritrovamento dei non tedeschi scomparsi nel Terzo Reich e nei territori occupati dalla Germania. Alla fine delle ostilità, l'archivio viene arricchito con tutti i documenti sequestrati ai tedeschi e riguardanti gli stranieri caduti, in un modo o nell'altro, sotto il controllo delle autorità del Reich. Una fonte preziosissima, all'inizio, nei disordinati anni del dopoguerra, per rintracciare le persone scomparse, e poi per ricostruire la storia delle persecuzioni compiute dai nazisti in patria e nelle zone occupate. E, da un po' di tempo a questa parte, per offrire prove certe ai tribunali che giudicano sulle richieste di risarcimento degli ebrei espropriati dei loro beni dai nazisti o costretti al lavoro coatto.
Nel 1955, sulla base di un complicato accordo sottoscritto a Bonn, l'archivio di Bad Arolsen viene affidato alla Croce Rossa, la quale deve però rispondere a una sorta di “consiglio di amministrazione” composto da dieci paesi: Belgio, Francia, Grecia, Israele, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Regno Unito, Repubblica federale di Germania e Usa. Più tardi si aggiungerà anche la Polonia. Undici paesi, dunque. Di questi undici due, Israele e gli Stati Uniti sono, fin dal primo momento, favorevoli all'apertura dell'archivio. Gli altri, man mano, adottano la stessa posizione. Nell'aprile del 2006 tocca alla Germania, il paese che fino a quel momento era stato il più restìo. A tutt'oggi i paesi che non hanno dato il proprio assenso sono solo 4.
Ma tre di questi quattro, Francia, Grecia e Lussemburgo, assicurano che entro la fine dell’anno il loro sì arriverà. Il quarto continua a fare orecchie da mercante. Indovinato chi è? Nonostante tutte le sollecitazioni, particolarmente pressanti quelle israeliane, il ministero della Difesa, cui fino all’anno scorso ha fatto capo, per motivi misteriosi, il “posto” italiano nel “consiglio degli Undici”, si è rifiutato di segnalare il proprio assenso alla apertura dell’archivio con l’“argomento” secondo il quale «non si poteva far torto alla Germania, considerato che in quel paese vigono norme assai restrittive in materia di difesa della privacy». Questo sostenne, ad esempio, il tenente colonnello Sandro Tortora a nome dell’allora ministro della Difesa del governo Berlusconi Antonio Martino cui, sull’argomento, il Sindaco di Roma aveva inviato una lettera su sollecitazione della comunità ebraica. L’“argomento”, ammesso che lo si potesse ritenere tale, è comunque caduto nell’aprile del 2006, quando la ministra federale della Giustizia Brigitte Zypries ha segnalato che non solo la Germania non opponeva più obiezioni legate alla tutela della privacy, ma invitava il governo italiano a fare altrettanto. Intanto, con la formazione del governo Prodi, la competenza italiana su Bad Arolsen passava dal ministero della Difesa a quello degli Esteri, diretto da Massimo D’Alema. Ma non cambiava nulla A quanto ci risulta, dall’anno scorso, il presidente della commissione esteri del Senato Usa Joseph Bidden ha chiesto spiegazioni a più riprese all’ambasciatore italiano a Washington. Altrettanto hanno certamente fatto gli israeliani e le pressioni tedesche sono state tali che nel luglio dell’anno scorso l’ambasciatore italiano a Berlino Antonio Puri Purini ha addirittura firmato gli emendamenti all’accordo del 1955 che prevedono l’apertura dell’archivio. Come se non l’avesse mai fatto. La posizione del governo italiano non è mutata e la firma dell’ambasciatore è stata, di fatto, considerata nulla (cosa che, immaginiamo, non gli ha fatto piacere). Morale: per quanto riguarda l’Italia, e gli italiani, Bad Arolsen è ancora tabù. Ma perché? Che mistero c’è sotto? Vediamo le diverse ipotesi. 1) Dossier Assicurazioni Generali. La grande società triestina, dal 1918 in poi, attuò una forte politica di espansione nei paesi dell’est europeo, dove erano presenti consistenti comunità ebraiche. Quando scoppiò la guerra, tutte le assicurazioni sulla vita stipulate nei paesi via via occupati dai tedeschi furono incamerate nelle finanze del gruppo. Quando negli Usa cominciarono le cosiddette class actions (procedimenti giudiziari collettivi) per i risarcimenti, le Generali furono, ovviamente, citate in giudizio. Il gruppo si difese sostenendo che con l’avvento dei comunisti nei paesi orientali, le documentazioni relative alle polizze erano state distrutte. L’apertura dell’archivio di Bad Arolsen potrebbe, in effetti, permettere ad avvocati e tribunali di ricostruire almeno parti delle documentazioni su cui basare le richieste di risarcimento, cosa che avrebbe effetti molto pesanti, ovviamente, sulle finanze del gruppo. A Trieste però sottolineano la vicinanza storica delle Assicurazioni al mondo ebraico e, soprattutto, fanno notare che furono gli stessi avvocati del gruppo a chiedere, nel processo americano, il rinvio di un anno della scadenza per le richieste di rimborso proprio per dare agli interessati la possibilità di usufruire delle carte di Bad Arolsen. Potrebbe, è vero, trattarsi di una manovra dilatoria, motivata dalla paura che il tribunale,d’accordo con le autorità Usa, decreti comunque la consultabilità dell’archivio. Ma la difesa ha una sua logica. 2) Ipotesi Vaticano. Gli storici americani che hanno a che fare con l’archivio hanno scoperto che tra le carte ci sarebbero prove certe della filière criminali nazisti - Santa Sede in almeno un caso, quello del vescovo rumeno Valerian Trifa, membro delle Guardie di Ferro e corresponsabile del pogrom di Bucarest del ’41. Trifa fu nascosto in Vaticano e poi aiutato a fuggire negli Usa. Ma i sospetti, come si sa, sono tanti ed esistono anche diverse prove. E’ pensabile che la Santa Sede abbia esercitato in passato pressioni sul governo italiano per evitare che dalla pubblicizzazione delle carte emergesse la reale dimensione del traffico? 3) Coinvolgimento italiano nell’Olocausto. Una terza ipotesi riguarda l’eventualità che le carte contengano prove di un coinvolgimento degli italiani nei piani di sterminio nazisti ben più ampio e impegnativo di quanto si sia accertato dagli studi sulla Repubblica di Salò, sulle retate compiute dalle camicie nere per conto dei tedeschi, su Fossoli e gli altri “campi di transito” e sui piani del gruppo dirigente fascista di eliminazione del «cancro giudaico» già venuti alla luce. Tra le carte di Bad Arolsen figurano certamente, per esempio, i nomi e il numero degli emigranti italiani (emigranti volontari, non prigionieri o militari internati) che parteciparono ai lavori per costruire la fabbrica di Buna- Monowitz, dove si utilizzavano come schiavi i detenuti di Auschwitz. E’ possibile che nelle carte ci sia la prova che maestranze italiane, come alcuni ritengono, abbiano lavorato anche alla costruzione delle camere a gas? O che nelle "matricole" degli ebrei che arrivavano nei campi di sterminio figurino i nomi di insospettabili (o almeno insospettati) funzionari dell’amministrazione pubblica italiana, che magari hanno continuato indisturbati la loro carriera "dopo"? Dubbi, dubbi. Ma non c’è che un modo per dissiparli. Il ministro D’Alema, dia disposizione che anche l’Italia accetti l’apertura dell’archivio di Bad Arolsen.

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