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Il Foglio Rassegna Stampa
08.08.2007 Federalismo per vincere in Iraq
intervista all'analista Michael O’Hanlon

Testata: Il Foglio
Data: 08 agosto 2007
Pagina: 4
Autore: Giulio Meotti
Titolo: «I successi del piano Petraeus rilanciano l’idea di un federalismo forte per l’Iraq»
Dal FOGLIO dell'8 agosto 2007:

Roma. “Possiamo vincere la guerra in Iraq”. Con uno straordinario editoriale sul New York Times, due studiosi democratici, Michael O’Hanlon e Kenneth Pollack, hanno riportato la speranza nel dibattito sulla guerra, viziato da un’egemonica cultura della resa. Di ritorno dal fronte, i due analisti hanno stilato un elenco dei progressi dovuti al cambio di strategia, il “surge”. “Siamo rimasti stupiti dai progressi che abbiamo fatto”, scrivono O’Hanlon e Pollack. A Ramadi, fino a poco fa una delle città più infuocate del mondo, hanno visto soldati americani vivere accanto a una compagnia della polizia irachena a maggioranza sunnita e a un’unità dell’esercito a maggioranza sciita. “Ci sono sufficienti elementi sui campi di battaglia iracheni perché il Congresso consideri l’idea di sostenere lo sforzo anche nella prima parte del 2008”. Il suo rapporto è stato citato dal vicepresidente Dick Cheney e il senatore John McCain, l’unico a difendere l’invasione nei comizi per la nomination repubblicana, ha detto che O’Hanlon ha “svelato una verità da cui fuggono i congressisti democratici: la nuova strategia Petraeus ha dimostrato un progresso considerevole”. Lo scorso 31 luglio O’Hanlon ha esposto al Congresso un progetto per capitalizzare i successi del generale che ha addestrato la polizia irachena. Qui lo espone al Foglio. E’ la “soft partition” auspicata dal grande dissidente Kanan Makiya, un nation building fatto di federalismo le cui origini risalgono al 1982, quando il Parlamento curdo votò in suo favore. Pochi mesi dopo, l’Iraqi National Congress (una delle organizzazioni dell’opposizione, ndr) adottò questa politica nel corso dell’incontro tenutosi a Salahuddin. “Si tratta di dividere il paese in tre regioni, ognuna delle quali assume la responsabilità di governo e sicurezza, come sta facendo il Kurdistan iracheno”, dice O’Hanlon. “Creare simili strutture può essere rischioso e difficile. Tuttavia, se paragonate alle alternative – continuare la politica della guerra etnosettaria, ritirarsi e lasciare che il conflitto aumenti – i rischi della partizione leggera sono più accettabili”. Il piano intende essere un tampone all’orgia di violenza settaria seguita al bombardamento della moschea dorata di Samarra da parte di al Qaida. “Consente agli Stati Uniti di preservare gli obiettivi strategici: un Iraq che vive in pace con i suoi vicini, che si oppone al terrorismo e che si muove gradualmente verso un futuro più stabile. Consente di ristabilire un Iraq integrato su linee settarie anziché segregato attorno a esse”. Un simile intervento, avverte O’Hanlon, è agli antipodi della divisione paventata dai liberal. “Si tratta di ricollocare gli iracheni in quelle parti del paese dove non si sentono più minoranza e in cui sono più al sicuro”. O’Hanlon dice che la Costituzione ratificata dal popolo iracheno nel 2005 prevede già la nascita di “regioni” autonome. “Se il piano Petraeus raggiunge dei buoni risultati, la finestra politica deve essere usata per negoziare e implementare la partizione”. Gli oppositori del federalismo ribattono che la nazione è etnicamente mista, ci sono migliaia di famiglie “susci”, sunniti sposati con sciiti, e zone confessionali miste. Si temono interventi di Iran e Arabia Saudita. “Non vogliamo la partizione come soluzione al conflitto etnico. Ma può essere il minore dei mali. A differenza dei Balcani, raggiungere la ‘purezza’ etnica non è un imperativo ideologico per i partiti e i gruppi armati in Iraq. Tuttavia, sunniti e sciiti hanno identità chiare che sono parte della guerra civile e a cui le forze americane devono riferirsi”. O’Hanlon cita il progetto federalista proposto a Bush da Al Hakim, il leader del primo partito islamista iracheno, lo “Sciri”. “Serbia e Crozia erano unite nella loro ambizione di dividere la Bosnia. Invece in Iraq è proprio la guerra civile che presenta il maggior rischio per la stabilità regionale. L’attuale insistenza su un governo centralizzato perpetua il dilemma della sicurezza che ogni comunità avverte”. Il piano prevede il mantenimento delle forze americane per diciotto mesi, e “anche se ridotte dovranno restare per molti anni”. Il numero delle vittime americane calerebbe enormemente. “Il movimento di massa delle popolazioni è preferibile all’opzione di farle restare o tornare alle loro case per l’illusione della coesistenza”. Human Rights Watch spiega che la riconsegna ai curdi delle loro case da parte dei coloni arabi ha contribuito a ridare sicurezza alla regione. “Le forze americane hanno iniziato a legalizzare il nuovo status della popolazione dispersa. Quando Baghdad ha ceduto alla balcanizzazione dei quartieri, gli Stati Uniti hanno familiarizzato con il valore della separazione etnica. Segregare le comunità, hanno detto i comandanti di Dora, è ‘un passo necessario per calmare la situazione’”. Ad Adhamiya, i comandanti americani hanno iniziato a erigere un muro fra sunniti e sciiti. “Stabilire una regione consoliderà il potere dello Sciri nei governatorati del sud di Babil, Najaf e Karbala, e minaccerà il potere di Moqtada al Sadr. I sunniti rifiutano la partizione, ma non sappiamo che cosa vogliono. L’ambasciatore Zalman Khalilzad ha imparato la lezione. Vincere la resistenza sunnita a un simile piano è difficile. Ma gli arabi sunniti concluderanno che non c’è alternativa”. O’Hanlon ricorda che l’esodo di massa della popolazione serba dalla Croazia ha costituito “la condizione per il riconoscimento finale dei confini croati. Il movimento forzato dei serbi nel 1995 non fu meno atroce e stabilizzante della pulizia etnica messa in atto dai serbi in Bosnia”. Il miglior argomento a favore di questo federalismo lo offrono le alternative: “Il ritiro americano può portare al genocidio e all’intervento di potenze regionali e un parziale ritiro può ridurre i rischi della guerra regionale, ma farà poco per prevenire lo scontro civile in Iraq”. Il progetto O’Hanlon solleva numerosi dubbi: “Dove fissare i confini fra le regioni irachene? Le istituzioni regionali saranno in grado di assumersi le responsabilità che erano di Baghdad? Le forze americane devono essere coinvolte se vogliono che la missione abbia successo. La composizione delle unità dell’esercito iracheno rifletterebbe lo status etnico delle aree di movimento della popolazione. Gli americani devono chiamare solo quelle unità che sono state fedeli in combattimento. Il trasferimento della popolazione deve essere scandito. Con un accordo informale con i belligeranti, la rilocazione etnica può avvenire in modo meno traumatico. La maggioranza di serbi della Croazia fu espulsa durante due operazioni militari con il tacito accordo di Belgrado. Migliaia di serbi lasciarono la Bosnia senza violenza come d’accordo fra croati e serbi a Dayton”. Lo scorso 4 febbraio l’Alto comitato iracheno per la normalizzazione di Kirkuk ha stabilito che gli arabi arrivati da altre zone del paese dopo il 14 luglio 1968, quando salì al potere Saddam Hussein, saranno ritrasferiti nelle loro terre d’origine, dove riceveranno appezzamenti di terra. A queste famiglie, in gran parte sciite del sud, verrà garantito un risarcimento di circa 15 mila dollari. Il Baath ha cacciato 200 mila curdi e turcomanni da Kirkuk per far pendere l’equilibrio etnico della città verso gli arabi e garantirsi il controllo strategico dei giacimenti petroliferi. Dopo la caduta del regime, migliaia di curdi sono tornati, chiedendo la restituzione della terra e il diritto a votare nel referendum che quest’anno deciderà lo status della città. “I progressi sui movimenti etnici a Baghdad e Kirkuk possono stabilire le basi per uno scambio ambizioso, in Bosnia furono i requisiti per la pace”. Per quanto riguarda la legge sul petrolio, ferma in Parlamento, O’Hanlon rilancia l’idea del leader sciita Ahmed Chalabi, l’adattamento del modello Alaska all’Iraq, con la redistribuzione dei dividendi petroliferi a ogni singolo cittadino dello stato. Deve essere intensificato l’accordo politico e militare fra il governo centrale e le tribù sunnite che hanno preso le armi contro al Qaida. Si tratta di capire che l’“uomo più potente dell’Iraq”, come lo definisce il New York Sun, è Abu Risha, lo sceicco che guida il consiglio di saggi sunniti che combatte al Qaida nella provincia di Anbar. Ieri a Diyala decine di sceicchi sunniti e ulema sciiti hanno giurato sul Corano che si impegneranno a portare la guerra nelle casematte di al Qaida. E’ da tre giorni che gli abitanti del quartiere sunnita di Baghdad, al Athimia, sono mobilitati nel dare la caccia ai terroristi di al Qaida assieme ai reparti dell’esercito iracheno. A rivelarlo alla radio Sawa è stato il maggiore Qasim al Musawi, portavoce del piano per il ripristino dell’ordine. “Sono in corso ingenti attività di rastrellamento con l’aiuto della popolazione locale”. Lunedì l’esercito americano ha reso noto che gli abitanti di al Athimia sono riusciti a fermare i terroristi che tentavano di far saltare la moschea Abu Hanifa che sorge al centro del quartiere. Secondo Michael O’Hanlon, il federalismo farà sì che “ci siano meno ragioni per uccidere ed eliminare i membri dell’altro gruppo etnico. L’incertezza sul futuro dell’Iraq sarà ridotta, perché i gruppi settari avranno meno motivi per combattere e quindi migliorare la propria posizione. Solo gli iracheni possono scegliere la nuova architettura politica del paese. I player regionali saranno critici del piano, come gli stati dell’Unione europea, le Nazioni Unite e le varie agenzie. Tuttavia, i protagonisti sono gli Stati Uniti e l’Iraq. In questi due paesi deve essere sviluppata una nuova politica per un Iraq stabile. Dal mio viaggio sono tornato pieno di incoraggiamento per le nostre truppe e forte della logica dei loro sforzi”.

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