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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
05.08.2007 "Waksa", il disastro autoinflitto dei palestinesi
un reportage di Lorenzo Cremonesi

Testata: Corriere della Sera
Data: 05 agosto 2007
Pagina: 13
Autore: Lorenzo Cremonesi
Titolo: «Gaza, la sconfitta palestinese «Siamo i nemici di noi stessi»»

Dal CORRIERE della SERA del 5 agosto 2007, un articolo di Lorenzo Cremonesi

GAZA — Lo Shifah Hospital è quasi un monumento, uno specchio di storia palestinese. Qui, dove da almeno vent'anni assistono i loro feriti e pregano assieme per i morti, poche settimane fa si sono sparati addosso. Quelle stesse camerate — con il sangue a terra, i gemiti, gli slogan, le flebo portate di fretta — che ai tempi della prima Intifada divennero i luoghi dolenti per eccellenza della «battaglia delle pietre» contro Israele e i soprusi dell'occupazione, sono assurti oggi a steccato assurdo della nuova guerra fratricida tra Hamas e Fatah. Palestinesi contro palestinesi. Fratelli ieri, nemici oggi. «Non siamo più un popolo unico. Abbiamo perso il senso della direzione comune, dell'identità collettiva. Non siamo più ciò che eravamo, ma non sappiamo ancora chi siamo diventati. Me ne sono accorto verso il 10 di giugno, nel pieno dello scontro per il controllo di Gaza. Gli uomini armati di Hamas vennero a presidiare i cancelli, sarebbero stati pronti a sparare su qualsiasi ferito di Fatah. Nelle corsie lo stesso facevano gli altri contro i ricoverati di Hamas. Così gli islamici decisero di utilizzare la clinica privata di Al Rachmah e l'Olp optò per il piccolo ospedale Al Quds. Un fatto impensabile solo sino a un anno fa», sostiene il dottor Jamaa al Saqqa, responsabile dell'ufficio relazioni pubbliche di questo che è il più grande ospedale di Gaza (quasi 700 letti) ed ex vice-direttore, appena dimesso per volere della nuova amministrazione. Un licenziamento tra i tanti. Vecchio militante di Fatah, non rinnega nulla e dal suo ufficio ormai isolato condanna apertamente il nuovo corso. Anche se è ben consapevole di rischiare grosso. I nuovi dirigenti di Gaza hanno esautorato il vecchio direttore dell'ospedale, Hassan Abu Tawila (un tradizionalista non legato all'Olp, ma troppo moderato per i gusti dei nuovi zeloti), minacciano il suo braccio destro filo-Fatah, Azzah Abed, lo costringono a restare a casa.
E invece hanno imposto uno dei loro, Hassan Khalaf, adepto di Hamas della prima ora. Le conseguenze? «La conduzione dell'ospedale è semiparalizzata. Ci si contende la sala operatoria, le medicine, persino l'assegnazione dei letti. Licenziano i vecchi medici, che comunque continuano a ricevere il loro salario (tra 800 e 1.000 dollari mensili) dalle finanze del governo Fatah in Cisgiordania. E assumono invece medici pro-Hamas. Eravamo in 320, adesso siamo arrivati a 450, con grave danno per le nostre già poverissime finanze pubbliche. Lo stesso è avvenuto per il personale scolastico, i dipendenti dei ministeri e i poliziotti. Abu Mazen ha ordinato ai suoi 53.000 agenti a Gaza di non cooperare con il "governo fantoccio" di Ismail Haniye, i soldi per loro, grazie agli aiuti Usa, arrivano comunque. E non sono noccioline, visto che ogni poliziotto prende sui 400 dollari. Hamas allora ha mandato a pattugliare nelle strade le sue milizie forti di 7.000 uomini», aggiunge Saqqa. Una rottura lacerante. I palestinesi hanno coniato un nuovo termine per definirla: waksa, che in arabo descrive l'umiliazione individuale, un trauma personale, una irreparabile delusione nelle proprie aspirazioni. Così waksa diventa l'ultima di una sequenza di parole simbolo che da oltre mezzo secolo caratterizzano le vicende di un popolo intero. Iniziò con la nakba, la «catastrofe » rappresentata per loro dalla nascita di Israele nel 1948, per proseguire con la naksa, la «sconfitta» araba del 1967. Traumi in parte controbilanciati dall'euforia ai tempi dell'Intifada nel 1987-88, quando ci si illuse che le sommosse nei territori occupati servissero anche per forgiare un nuovo senso di appartenenza nazionale. «Adesso con la waksa si conclude l'era delle speranze collettive. Siamo tornati al si salvi chi può del 1948, quando ognuno si preoccupava unicamente della propria tragedia individuale. La waksa è peggio della nakba,
perché è auto-inflitta, non viene da un nemico esterno. È come se noi palestinesi si fosse commesso un gigantesco atto di suicidio collettivo in cui gli israeliani hanno avuto una parte solo marginale. Non a caso molti ufficiali dell'ex polizia creata a suo tempo da Yasser Arafat sono venuti al nostro Centro per farsi curare contro la depressione. Sono spesso persone mature, gente che per tutta la vita si era percepita come al centro della lotta di liberazione. E ora ha improvvisamente perduto l'autostima e il rispetto sociale», afferma Ahmad Abu Tawahina, direttore del Centro per la cura delle malattie mentali.
Il disorientamento si nota nei discorsi dei giovani, tra gli strati più attivi della popolazione. Parlando con le famiglie che la sera vengono a godersi il mare e la brezza sulla spiaggia non è difficile trovare fratelli che militano nei due campi avversari. Come Mohammad,22 anni ed ex poliziotto di Abu Mazen, e Ismail, 23 anni, impiegato dai tribunali religiosi. Appartengono entrambi al clan degli Abdel Al, ma si accusano a vicenda di «aver tradito» schierandosi con «i nemici della nazione». Per i più poveri cambia poco. Dalla vittoria di Hamas alle elezioni del 25 gennaio 2006 Gaza è sotto embargo, si stava male prima e non si sta molto peggio oggi. Con tassi di disoccupazione attorno al 70 per cento e redditi medi per famiglia che spesso non superano i 60 dollari mensili, qui si resta fermi alla pura sopravvivenza. Le cose sono invece nettamente deteriorate per i più abbienti, che comunque a Gaza non mancano, grazie soprattutto ai capitali accumulati lavorando all'estero. È il caso di Abdel Salam Al Raies, proprietario tra l'altro del lussuoso ristorante «Lighthouse» e del «Beirut Tower», un palazzo con 32 appartamenti nel centro città. «Li avevamo costruiti sperando nell'arrivo di giornalisti stranieri, operatori umanitari e personale dell'Onu, oltre al flusso di uomini d'affari nella seconda metà degli anni Novanta. Ma ora la vittoria di Hamas e lo scontro interno ci stanno mandando in bancarotta. Gli appartamenti affittati sono appena una quindicina. E a fine mese non riesco più a pagare i 200 dollari promessi ai 60 dipendenti del ristorante. Io come tanti altri imprenditori sto cercando di chiudere per andare all'estero», sostiene scoraggiato.
Elemento positivo conseguenza della vittoria di Hamas è, a detta di molti, il ritorno della sicurezza interna. «Nei mesi precedenti la svolta di metà giugno imperavano le battaglie tra milizie e criminalità. Non era difficile che ti venisse rubata l'auto da drappelli di uomini armati in pieno giorno. Abu Mazen era del tutto impotente. Ora non più, Hamas detiene il monopolio della forza, a costo di scontrarsi con i gruppi estremisti della Jihad islamica», dice Raji Surani, noto direttore del Centro per la difesa dei diritti umani. Ma il rovescio della medaglia è denunciato dallo stesso Surani: «Nonostante tutte le promesse di voler governare in modo democratico, Hamas non esita a ricorrere a intimidazioni e soprusi. Abbiamo registrato almeno una sessantina di casi di tortura su criminali e prigionieri politici in un mese e mezzo». I giornalisti locali riportano la crescita della censura. Hamas interviene sui programmi della televisione palestinese e ha già bloccato più volte la vendita a Gaza di tre quotidiani filo-Fatah pubblicati in Cisgiordania (lo stesso hanno fatto in Cisgiordania nei confronti di quelli pro-Hamas che arrivano da Gaza). Ma l'elemento di maggior incertezza restano i rapporti con Al Qaeda e le infiltrazioni dall'Egitto di militanti legati al terrorismo fondamentalista. È vero che Hamas in giugno ha liberato il giornalista della Bbc, Alan Johnston, sequestrato 4 mesi prima. Però non c'è stato alcun arresto tra i rapitori. I legami con gli estremisti restano ambigui. «Abbiamo le prove che qui si è insediato un gruppo di salafiti, che obbediscono a logiche pan-islamiche dettate dall'estero», sostengono all'ufficio della
Reuters. Per esempio l'incendio della scuola delle Suore del Rosario e di un'ala della chiesa cattolica il 14 giugno, che comunque venne prontamente condannato da tutta Hamas. Seguito all'attacco contro una sede dell'Onu. E soprattutto alla devastazione della statua del milite ignoto voluta da Arafat 10 anni fa. Un caso di furia iconoclasta senza precedenti tra i palestinesi che rende il futuro ancora più buio.

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