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Il Manifesto Rassegna Stampa
03.08.2007 Il complotto americano per fermare il terrorismo palestinese
lo denuncia Michele Giorgio, facendo capire da che parte sta lui

Testata: Il Manifesto
Data: 03 agosto 2007
Pagina: 8
Autore: Michele Giorgio
Titolo: «Arriva Condi, dollari e consigli - La nuova guerra di Gaza è tra Hamas e Jihad»

I palestinesi, ci informa Michele Giorgio, intendono per "sicurezza" la "loro sicurezza", quindi la fine dei raid israeliani, non quella dell' "intifada".
I "raid israeliani", naturalmente, sono una conseguenza del terrorismo, che è il vero nome dell'"intifada". Ma a Giorgio questo non interessa.
Lliquidato il sostegno americano ad Abu Mazen, che è diretto appunto fermare l'"intifada" , il giornalista del MANIFESTO passa all'accordo tra Israele e le Brigate dei Martiri di al-Aqsa  sull'amnistia ai terroristi palestinesi che rinunciano che depongono le armi. Israele, secondo A l Arabya "avrebbe comunicato che l'accordo non è più valido poiché gran parte dei miliziani non avrebbero consegnato le armi. Secondo l'Anp invece il 60% dei militanti coinvolti avrebbe rinunciato alla lotta armata " .
E' ovvio che consegnare le armi è un atto verificabile, "rinunciare" alla "lotta ramata" no. Ma Giorgio confonde deliberatamente le due cose.
Non manca nella conclusione dell'articolo una perorazione del "diritto" al "ritorno" dei palestinesi in Israele. Farli tornare in Cisgiordania, nel territorio di quello che dovrebbe divenire il loro stato, per Giorgio è un tentativo di corruzione.

Ecco il testo dell'articolo:

Dopo aver dispensato aiuti militari per miliardi di dollari ai paesi arabi alleati, Condoleezza Rice non ha mancato di portare un regalo anche al presidente palestinese Abu Mazen e al governo ad interim di Salam Fayyad. Al termine dei colloqui avuti ieri a Ramallah, il segretario di stato Usa ha firmato un accordo con cui Washington si impegna a stanziare 80 milioni dollari «per consentire all'Anp di riformare i propri servizi di sicurezza». Decine di milioni di dollari erano stati messi a disposizione anche lo scorso anno - lo rivelò l'agenzia reuters - ma dove siano finiti lo sa soltanto l'ex uomo forte di Fatah ed ex consigliere per la sicurezza nazionale Mohammed Dahlan (dimissionario), che era stato incaricato di riorganizzare e rafforzare quei servizi segreti e i reparti speciali che si sono sciolti come neve al sole durante i combattimenti con la milizia di Hamas, lo scorso giugno a Gaza. I nuovi finanziamenti serviranno a «garantire la sicurezza» nei Territori palestinesi, ha detto il segretario di stato, ovvero a mettere fine all'Intifada, a smantellare le cosiddette «infrastrutture del terrore» e, in definitiva, a garantire la sicurezza di Israele e ad accrescere la conflittualità interna palestinese. Un fine molto diverso da quello che hanno in mente i palestinesi di Cisgiordania e Gaza che per sicurezza intendono la loro sicurezza e, quindi, la fine dei raid delle forze di occupazione israeliane. Dopo Gaza, ieri è stata la volta di Jenin (Cisgiordania) di ricevere la visita di reparti corazzati israeliani alla caccia di «terroristi». Peraltro, riferiva ieri la tv satellitare Al Arabiya, sarebbe già decaduto l'accordo tra Israele e le Brigate dei Martiri di al-Aqsa (Fatah) sull'amnistia ai combattenti palestinesi che rinunciano alla lotta armata. Israele avrebbe comunicato che l'accordo non è più valido poiché gran parte dei miliziani non avrebbero consegnato le armi. Secondo l'Anp invece il 60% dei militanti coinvolti avrebbe rinunciato alla lotta armata. Abu Mazen e Fayyad hanno ringraziato Condoleezza Rice per questo nuovo aiuto statunitense. Soprattutto il presidente si è detto pronto a prendere in considerazione quell'«accordo sui principi» per la creazione dello stato palestinese, proposto dal premier israeliano Olmert nei giorni scorsi in risposta al piano di pace della Lega araba. La disponibilità di Abu Mazen potrebbe rappresentare un primo passo verso l'accettazione dello stato palestinese «provvisorio» teorizzato da Israele e Stati uniti. Nei disegni di Olmert la «dichiarazione» dovrebbe delineare i contorni dello stato di Palestina, senza però affrontare le questioni più spinose - i confini definitivi, lo status di Gerusalemme, l'utilizzo delle risorse naturali nei Territori occupati (acqua), la sorte dei rifugiati - che verrebbero rinviate a un momento successivo. Israele inoltre vuole che l'incontro sul Medio Oriente che gli Usa intendono organizzare per il prossimo autunno diventi un tavolo di trattativa arabo-israeliano e non tanto israelo-palestinese (il ministro degli esteri Tzipi Livni ieri ha esortato di nuovo gli arabi a partecipare). Per ammorbire ulteriomente Abu Mazen sarebbe pronta un'altra proposta: la costruzione di una nuova città palestinese in Cisgiordania. L'idea è di Washington ma piace a Olmert, ha riferito il sito israeliano Debka. Il nuovo nucleo urbano sorgerebbe tra Nablus e Ramallah. In una prima fase ospiterebbe 30-40 mila palestinesi e in dieci anni arriverà a 70 mila abitanti. Il progetto dovrebbe creare migliaia di posti di lavoro in Cisgiordania e, di conseguenza, migliorare l'immagine di Abu Mazen. Il fine del progetto potrebbe però essere quello di assorbire decine di migliaia di profughi palestinesi sparsi nel mondo arabo, che verrebbero indirizzati in Cisgiordania in cambio della rinuncia al diritto al ritorno ai loro centri abitati originari, ora in territorio israeliano. Intanto ieri un palestinese 17enne, Mohammed Orieb, è stato ucciso in circostanze poco chiare al posto di blocco israeliano di Bir Zeit (Ramallah). Per il portavoce militare aveva cercato di assalire un soldato, la famiglia però nega questa versione.

In un altro articolo Giorgio, scrivendo degli scontri  a Gaza tra Jihad islamica e Hamas lamenta che i palestinesi si sparino tra loro anziché sparare agli israeliani.
I motivi dello scontro sono indiviuati da Giorgio anche nei legami della Jihad islamica con l'Iran.
Un tentativo di mistificazione: anche Hamas è sostenuto dall'Iran.

Ecco il testo:

Si riaccede la rivalità tra Hamas e Jihad islami. Una escalation di agguati, vendette e rappresaglie sta insanguinando la Striscia di Gaza dove, terminati i combattimenti di giugno tra Hamas e Fatah con la presa del potere da parte del movimento islamico, era tornata una calma che non si registrava da anni. Ieri due palestinesi sono stati uccisi a Gaza city in scontri tra militanti dei due gruppi rivali. Un terzo palestinese, un attivista di Fatah, è stato invece freddato da sconosciuti. La ripresa della violenza interna è un problema che si aggiunge ai tanti causati dall’isolamento totale di Gaza deciso da Israele dopo l’ascesa armata al potere di Hamas, con conseguenze devastati per l’economia e la popolazione civile della Striscia. Scarseggiano alimenti e medicine, gli ospedali sono in affanno e ogni giorno la corrente elettrica manca per almeno otto ore. Dopo i bombardamenti israeliani dell’anno scorso è rimasto un unico generatore, da cui si ottengono 90 megawatt, altri 120 megawatt arrivano da Israele e dall’Egitto. Una disponibilità che non soddisfa il fabbisogno e impone il razionamento energetico. Le agenzie umanitarie, qualche giorno fa, hanno avvertito che gran parte della popolazione di Gaza è dipendente dagli aiuti esterni. Sono solo i primi effetti dell’isolamento. Nonostante la gravità della situazione, i palestinesi continuano a farsi la guerra tra di loro. Secondo una versione dell’accaduto, ieri uomini di Ezzedin Qassam (Hamas) avrebbero teso un agguato a miliziani del Jihad trascinandoli fuori da una moschea e gambizzandoli. Poco dopo un altro attivista della Jihad è stato ucciso con un colpo di pistola alla testa. A poca distanza un altro palestinese, Salah Amudi, di Al Fatah, è stato ammazzato da uomini col volto coperto. Di una terza vittima, riferita dalla cronache, non si conosce l’identità ma solo che faceva parte del Jihad. Le cause scatenanti degli scontri in apparenza sono banali. Un agente della Forza esecutiva di Hamas - divenuta forza di polizia a Gaza - era stato ucciso due giorni fa da un attivista del Jihad al quale aveva cercato di sequestrare l’arma, con la quale aveva sparato in aria ad un ricevimento di nozze, usanza dichiarata illegale Hamas. Al quel punto è iniziata la sparatoria che ha provocato, oltre al morto, anche numerosi feriti. «La Forza esecutiva ha fatto presente che la festa poteva continuare ma solo dopo aver consegnato le armi», ha spiegato un portavoce del movimento islamico. Un leader del Jihad, Khaled Habib, invece sostiene che è in corso una campagna di Hamas contro la sua organizzazione, volta anche ad impedire il lancio di razzi verso il territorio israeliano. Il confronto armato in atto in ogni caso è frutto anche della storica rivalità tra le due formazioni islamiche, che già un paio di anni fa erano arrivate allo scontro per il controllo di alcune moschee di Gaza. Hamas, fedele al sunnismo e nato dalla Fratellanza islamica, potrebbe aver deciso di saldare i conti con il Jihad islami che sostiene l’allenza con gli sciiti, ha rapporti solidi con l’Iran e, soprattutto, mantiene buoni rapporti con l’Olp. Fondato all’inizio degli anni 80 da Abdel Aziz Odeh e Fathi Shqaqi (ucciso nel ’95 a Malta da agenti del Mossad), rimasti affascinati dalla rivoluzione khomeinista, il Jihad è una organizzazione minuscola che fa della lotta armata la sua principale attività, a differenza di Hamas che è molto attivo nel sociale. Può diventare una spina del fianco del movimento di Ismail Haniyeh. Uno dei leader del Jihad, Nafez Azzam, di Rafah, ha detto che la sua organizzazione non rispetterà gli ordini di Hamas.

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