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Europa Rassegna Stampa
02.08.2007 Quando America e Israele trattano, anche il "dialogo" è un complotto
dietro l'aspirazione all' unità dell'islam si cela il rifiuto del diritto all'esistenza di Israele

Testata: Europa
Data: 02 agosto 2007
Pagina: 4
Autore: Saad Kiwan
Titolo: «I due Islam e la nuova dottrina mediorentale di Bush»

Trasformare il conflitto del mondo islamico con  Israele in uno scontro interno tra moderati ed estremisti, generando sangunosi conflitti.
E' l'interpretazione paranoide della politica americana in Medio Oriente avanzata da Saad Kiwan su EUROPA del 2 agosto.
Il giornalista libanese e il quotidiano della Margherita dovrebbero chiarire quale alternativa propongono. Un mondo islamico allineato alle parole d'ordine dell'Iran e di Hamas e compatto nel perseguire la distruzione di Israele ?  Pensano che questo scenario sarebbe meno sanguinoso ?  Non considerano l'eventualità che gli americani e gli israeliani stiano semplicemente seguendo la via di trattare con chi sembra disponibile a raggiungere un accordo ? E che, nel mondo islamico, il conflitto tra chi vuole la distruzione di Israele e chi è disponbile a conviverci sia inevitabile ?

L'articolo contiene anche passi di pura disinformazione. Come quella sulla "dura sconfitta"di Israele  nell'"offensiva lanciata contro Hezbollah", che attribuisce a Gerusalemme la responsabilità di una guerra che è stata iniziata dal gruppo terroristico. 

Ecco il testo:

Il vertice di Sharm el Sheikh e i 30 miliardi di dollari promessi dagli Stati Uniti a Israele pongono una domanda seria: il conto alla rovescia per il probabile attacco americano contro l’Iran degli ayatollah è forse già iniziato? Alla vigilia del suo viaggio in Medi Oriente, il segretario di stato Usa, Condoleezza Rice, ha motivato l’aiuto annunciato a Israele, ma anche le armi promesse ai paesi arabi “moderati” per un valore di 20 miliardi di dollari, con la necessità di far fronte all’influenza iraniana nella regione e di isolare la Siria, il libanese Hezbollah, e al Qaeda.
Gli obiettivi enunciati dagli americani incontrano (per ora?) un atteggiamento ambiguo da parte degli arabi interessati.
Quel che vogliono gli Stati Uniti è chiaro, e si può sintetizzare con il desiderio dell’amministrazione Bush di cambiare la natura del conflitto a livello regionale: da un conflitto arabo-israeliano a un conflitto tra “moderati” ed “estremisti”, anche all’interno dello stesso campo arabo. Ciò significherebbe provocare delle lotte inter-arabe che potrebbero trasformarsi in guerre distruttive, come sta succedendo in Palestina, e in parte in Iraq, e come potrebbe succedere in Libano.
Attaccare l’Iran, o comunque tentare di accerchiarlo, potrebbe anche disintegrare diversi paesi della regione, dove alcune forze politiche hanno rapporti stretti con Teheran, come l’Iraq, la Palestina e il Libano. Paesi che già soffrono l’influenza del regime sciita degli ayatollah.
Apparentemente, la posizione degli arabi che hanno partecipato all’incontro dei ministri degli esteri al Cairo lunedì scorso non è andata oltre la solidarietà e la reciproca collaborazione.
Mentre i “moderati” che martedì hanno poi partecipato all’incontro con la Rice a Sharm el Sheikh, hanno affermato il loro appoggio a qualsiasi paese del Golfo che venisse minacciato dall’esterno.
Chiaro riferimento, questo, all’Iran, dove poche settimane fa un consigliere della “guida della rivoluzione” Ali Khamenei ha scritto un articolo sul quotidiano Kehan (portavoce della repubblica islamica) definendo l’emirato del vicino Bahrein una «provincia iraniana». L’episodio ha risvegliato vecchie ruggini tra questi paesi – a stragrande maggioranza musulmana sunnita – e il regime teocratico sciita iraniano, che per parecchio tempo aveva caldeggiato “l’esportazione della rivoluzione”. La propria, ovviamente. Basta ricordare la guerra tra Iran e Iraq, durata otto anni (‘80-’88), le minacce al Kuwait e le isole degli Emirati Arabi, tuttora occupate dall’Iran.
Tenendo conto della profonda spaccatura in Iraq tra sunniti e sciiti, della situazione assai tesa fra queste due stesse comunità in Libano (dove quella sciita ha un braccio super armato rappresentato da Hezbollah) e infine del clima esplosivo a livello regionale, gli Stati Uniti puntano probabilmente a una divisione della regione su basi confessionali. Tra paesi moderati sunniti, da una parte, e l’Iran sciita e i suoi alleati dall’altra. Washington si è resa probabilmente conto di aver commesso un errore, facendo cadere i due baluardi sunniti iracheni e afgani che da est e da ovest circondavano un regime, l’Iran, che oggi sta dando del filo da torcere alla strategia regionale di George W. Bush. Constringendolo a chiedere l’aiuto degli arabi.
Ma gli arabi sarebbero mai capaci di imbarcarsi in questa nuova avventura, cosi pericolosa per loro, senza chiedere in cambio alcune garanzie? L’amministrazione Usa ha preannunciato una nuova conferenza di pace sul Medio Oriente nell’autunno prossimo per trovare una soluzione alla questione palestinese, ed è così andata a toccare quello che per gli arabi è un tasto dolente. Gli arabi “moderati” l’occasione l’hanno colta subito, avendo già lanciato un piano di pace con Israele nel 2002, definito “territori in cambio di pace”, poi rilanciato quest’anno nell’ultimo vertice arabo di Riyadh.
Hanno anche fatto un passo in avanti, inviando per la prima volta in Israele due emissari di alto livello, i ministri degli esteri egiziano e giordano, per illustrare questo piano.
Adesso spetta quindi a Israele il passo successivo, anche perché – tenendo conto della dura sconfitta subita l’estate scorsa dal suo esercito durante l’offensiva lanciata contro Hezbollah, lungo braccio dell’Iran sul fronte orientale, nel triangolo Siria-Libano-Israele – l’approccio militare non rappresenta più una garanzia per lo stato ebraico. Ecco perché nella nuova strategia Usa figura la necessità di mettere fuori gioco i guerriglieri sciiti libanesi.
Ed ecco perché la Siria si è ritirata, lunedì scorso, dalla riunione dei ministri degli esteri tenutasi al Cairo, durante la quale è stata accolta la proposta Usa per una conferenza alla quale, secondo Washington, Damasco non dovrebbe partecipare.
Il fatto che i sunniti iracheni abbiano proprio ieri abbandonare il governo di Nouri Maliki e le difficoltà che le diplomazie francese e spagnola trovano nel ricomporre la grave crisi in Libano, fa della divisione tra sunniti e sciiti una questione che è a portata di mano.

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