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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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La Repubblica Rassegna Stampa
30.07.2007 Rimpiangere Saddam, non scomporsi per le persecuzioni anticristiane
il galateo politicamente corretto di Guido Rampoldi

Testata: La Repubblica
Data: 30 luglio 2007
Pagina: 1
Autore: Guido Rampoldi
Titolo: «L'identità in un pallone»

L' "evento che ha liberato il Paese il tempo necessario a consegnarlo a milizie etniche che per metodi e per ideologia non sono affatto migliori delle milizie di Saddam" è secondo Guido Rampoldi, che scrive sulla REPUBBLICA del 30 luglio 2007 un articolo sulla vittoria della nazionale di calcio irachena alla Coppa d'Asia, l'abbattimento da parte della coalizione dei volenterosi della dittatura baathista.

La frase è ambigua. Forse Rampoldi si riferisce al terrorismo baathista e qaedista, e alle milizie sciite come l'Esercito del Mahdi.
In questo caso, è evidente, a consegnare l'Iraq alla violenza settaria è stata la reazione alla guerra di liberazione della coalizione, non la guerra in sé.
O forse Rampoldi intende dire che il governo di Al Maliki è quivalente a quello  di Saddam Hussein e al terrorismo.
Una tesi del tutto insostenibile.

Rampoldi polemizza anche con gli organizzatori italiani della manifestazione contro la persecuzione dei cristiani in  Iraq e nel mondo islamico.

"In realtà l´Iraq"  scrive "è teatro d´una ‘pulizia etnica´ generalizzata, non di un´aggressione contro la cristianità"
Il fatto che in Iraq vi siano violenze settarie contro tutti i gruppi religiosi ed etnici non esclude che vi sia anche una specifica persecuzione anticristiana. I terroristi qaedisti proclamano del resto apertamente il loro odio anticristiano.
Rampoldi però propone un altro argomento, quello statistico, illudendosi di avere dalla sua la forza dei numeri: "secondo la statistica proposta nel gennaio scorso da un´organizzazione internazionale collegata all´Onu, l´Iom, sul totale degli ‘sfollati interni´ i cristiani sono il 7%, gli sciti il 64% e i sunniti il 28%". La maggioranza degli sfollati sono sciiti, nota Rampoldi, seguono i sunniti e infine i cristiani. Dunque, conclude, tutti sono perseguitati allo stesso modo, o forse i cristiani meno degli altri.
Ma mentre le precentuali di rifugiati sciiti e sunniti corrispondono grosso modo alla percentuale di questi gruppi rispetto alla popolazione complessiva, i cristiani rappresentano solo il 3% degli iracheni. E' evidente che questo gruppo è sovrarappresentato tra i rifugiati, in una proporzione più che doppia.
Quello citato da Rampoldi  è dunque un dato che, anche da solo, farebbe pensare che i cristiani iracheni siano bersagli specifici della violenza terroristica e settaria.

Ecco il testo dell'articolo:


Con un gol nato dal cross d´un´ala sciita ben incornato da un turcomanno di fede sunnita nato nella Kirkuk oggi contesa da arabi e curdi, la nazionale irachena ha battuto l´Arabia Saudita, vinto la Coppa d´Asia e sovvertito ogni pronostico, sportivo e politico. All´inizio di quel torneo pareva destinata al ruolo di comparsa, irrilevante e patetica. Nessuno avrebbe scommesso un dollaro sulla sua vittoria.
E soprattutto nessuno avrebbe mai immaginato che il suo trionfo inaspettato producesse un effetto altrettanto imprevisto: resuscitare un Iraq che autorevoli centri-studi americani considerano già cadavere. Non vorremmo enfatizzare oltre il dovuto le immagini di piccole folle esultanti mostrate ieri dalla tv satellitare al-Jazeera international, ma se ancora una parte della popolazione riesce ad identificarsi in una bandiera e in una nazionale ‘mista´, in cui giocatori di diverse etnie collaborano senza problemi, allora la partizione del territorio per etnie non è il destino obbligato dell´Iraq; e se proprio non fosse possibile evitarla, bisognerebbe trovare uno spazio anche per quel popolo invisibile che si considera con tenacia prima di tutto iracheno. Già cancellato dalle cronache, dalle analisi della grande diplomazia e in qualche modo dalle mappe, ieri ha dimostrato d´essere ancora vivo. Per una volta il calcio ha servito una buona causa.
Nello stadio della finale, a Giacarta, si leggeva su uno striscione: «La guerra non ucciderà il calcio». Pura retorica. In realtà la guerra e il calcio non sono affatto antagonisti, e anzi, quando il football incrocia un conflitto etnico, l´esito in genere è spaventoso. Nell´agonia della Federazione jugoslava, da Spalato a Belgrado bande di tifosi passarono dalla curva alla prima linea; formarono il nucleo fondatore di milizie paramilitari; e in buona misura imposero allo scontro il loro stile di combattimento, sregolato e predace. Del resto chi ti spacca la testa perché i colori della tua sciarpa sono quelli della squadra nemica non avrà alcuna esitazione a tagliarti la gola se glielo chiede un´entità collettiva spesso non meno tribale d´una tifoseria, ma al contrario di quella legittimata dalla storia: la nazione, cioè l´etnia dominante.
E tuttavia nel caso iracheno la nazionale è diventata la metafora della nazione intesa come identità anti-tribale. E lo è diventata proprio mentre infuria una mischia etnica devastante, che ha già costretto ad espatriare due milioni di iracheni, quasi un decimo della popolazione. Circa altrettanti sono gli ‘sfollati interni´, come li definisce la terminologia Onu, cioè quanti sono ancora in Iraq ma non più né nella zona in cui vivevano, perché ne sono stati espulsi da milizie di altra etnia. Questi ‘sfollati interni´ erano un milione settecentomila nel giugno scorso, ma aumentano di 50-100mila unità ogni mese. In altre parole ogni mese cinquanta o centomila iracheni sono costretti con le minacce o con la violenza a trasferirsi in un´altra città o in un altro quartiere, dove prima o poi cacceranno una famiglia di diversa etnia per impossessarsi del suo appartamento.
Bagdad ormai è divisa per settori etnici. Ce n´è anche per i cristiani, cacciati ora dagli uni ora dagli altri. Tutto questo può essere letto in due modi diversi, anzi in tre se ci mettiamo anche il modo italico, certo non il più intelligente ma di sicuro il più originale. Secondo settori trasversali della nostra opinione pubblica, è in corso una ‘persecuzione dei cristiani´, tema d´una manifestazione organizzata di recente a Roma, anche con viatici prelatizi. In realtà l´Iraq è teatro d´una ‘pulizia etnica´ generalizzata, non di un´aggressione contro la cristianità. Nessuna etnia è risparmiata: secondo la statistica proposta nel gennaio scorso da un´organizzazione internazionale collegata all´Onu, l´Iom, sul totale degli ‘sfollati interni´ i cristiani sono il 7%, gli sciti il 64% e i sunniti il 28%. Inoltre sorprende che a lamentare quelle ferocie siano i più ferventi sostenitori italici dell´invasione dell´Iraq, cioè dell´evento che ha liberato il Paese il tempo necessario a consegnarlo a milizie etniche che per metodi e per ideologia non sono affatto migliori delle milizie di Saddam.
Detto di queste stravaganze nostrane, è più interessante esaminare una tesi oggi in voga anche presso centri-studi autorevolissimi, come l´americano Brookings institution, legato ai Democratici. Secondo un loro recente rapporto, l´Iraq ormai è spacciato, gli iracheni non ne vogliono sapere di vivere insieme, e con la ‘pulizia etnica´ «stanno votando» in modo plebiscitario per la tripartizione. Dunque a Washington e alla ‘Coalizione dei volenterosi´ non resterebbe che organizzare una tripartizione ‘morbida´ dell´Iraq: i curdi a nord, i sunniti nel centro, gli sciiti nel sud, e Bagdad anch´essa spartita. Fissare i confini delle tre entità formalmente confederate e agevolare gli ‘scambi tra popolazione´ permetterebbe di evitare un genocidio prolungato, che finirebbe per coinvolgere i Paesi confinanti (peraltro già presenti in Iraq attraverso milizie alleate e servizi segreti). Nelle intenzioni doveva essere ‘morbida´ anche la partizione dell´India britannica: invece produsse almeno un milione di morti e conflitti che durano ancora. Non fosse che per questo, conviene chiedersi se a ‘votare per la tripartizione´ siano davvero gli iracheni o piuttosto l´estremismo etnico, certo rilevantissimo ma forse neppure maggioritario. In ogni caso, c´è un Iraq non tribale su cui sarebbe giusto e saggio continuare a puntare. E´ l´Iraq che ieri ha fatto gol.

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