Paul Wolfowitz, "Intellettuale visionario" esce negli Stati Uniti un ritratto scritto da Lewis Solomon
Testata: Il Foglio Data: 26 luglio 2007 Pagina: 2 Autore: Giulio Meotti Titolo: «WE ARE THE WOLF»
Dal FOGLIO del 26 luglio 2007:
La storia inizia la mattina del 26 ottobre 2003. Il vicesegretario alla Difesa, Paul Wolfowitz, è a Baghdad per la sua seconda visita dalla cacciata di Saddam Hussein. Entrò in uno dei palazzi dell’ex tiranno per un briefing sull’elettricità. A sei mesi dalla presa di Baghdad, enormi busti del rais giganteggiavano ancora sulla capitale. “Perché non avete tirato giù le statue?”, chiese infuriato Wolfowitz. Un’ora prima era quasi rimasto ucciso dai razzi sparati contro il Rashid Hotel. Uno aveva mancato la stanza 1.234 per pochi metri, uccidendo il colonnello Charles Buehring, consigliere di Paul Bremer. Wolfowitz era già scampato per miracolo a un attacco. L’11 settembre si trovava al Pentagono quando l’aereo della American Airlines si schiantò contro l’edificio. All’ospedale, dove era andato a trovare gli “eroi che qui lavorano e fanno il proprio dovere”, incontrò Elias Nimmer, un colonnello che alloggiava nella stanza 916 e si era nascosto sotto il letto. Wolfowitz passò diversi minuti nella stanza, Nimmer aveva la maschera per l’ossigeno. Il 15 marzo 2005, il giorno precedente l’annuncio che Wolfowitz sarebbe andato a dirigere la Banca mondiale, il “Lupo” partecipò a una serata in onore di Nasrallah Sfeir, il leader della chiesa maronita del Libano. C’era anche Nimmer, che ha origini libanesi. “Chiunque altro sarebbe entrato nella stanza per chiedermi: ‘Come stai?’”, ricordò Nimmer. “Lui mi fece quella domanda: ‘Cosa pensi di costruire un nuovo medio oriente?’”. Prima di “velociraptor”, come lo definì l’Economist, al Pentagono non si era visto tanto affetto per le truppe: “Le persone che hanno un posto speciale nel mio cuore sono gli uomini e donne in uniforme e i cui nomi non compaiono nei giornali”, disse Wolfowitz dopo l’annuncio dell’incarico alla Banca mondiale. “Ci ricordano che la nostra nazione è benedetta”. Sulla domanda di Nimmer si apre il bellissimo libro che un giurista della George Washington University, Lewis Solomon, ha dedicato a Wolfowitz, “Intellettuale visionario” (Greenwood). Nella prima monografia sull’ideologo dell’interventismo americano, Solomon supera la caricatura del “Wolfowitz d’Arabia” e ci racconta un amante dell’islam, militante della causa femminile e ossessionato dall’Olocausto. “Dopo l’11 settembre, l’America ha cercato di definire la sua relazione con il resto del mondo. Wolfowitz ha offerto una visione globale, combinando sicurezza nazionale dell’America e un espansivo senso dell’idealismo”. Raccontare le sue idee, la risposta potente e clamorosa disegnata e messa in atto da vice di Rumsfeld, “significa esaminare fino a che punto gli alti ideali dell’America sono raggiungibili in pratica”. Andrew Bacevich, che ha insegnato alla Johns Hopkins University quando Wolfowitz era rettore, dice che “più di chiunque altro, Wolfowitz incarna i profondi convincimenti sostenuti dagli Stati Uniti nell’era Bush, una straordinaria certezza della giustezza delle azioni americane coniugata a un’eccezionale fiducia nell’efficacia delle armi”. Salomon ripercorre le origini della famiglia Wolfowitz. A cominciare dalla profonda influenza del padre Jacob, il matematico di Varsavia ed emigrato negli Stati Uniti per sfuggire all’antisemitismo polacco. Gran parte della famiglia Wolfowitz, rimasta a Varsavia, fu sterminata con il gas durante l’Olocausto. Come avrebbe ricordato Wolfowitz, “quanto accadde nella Seconda guerra mondiale ha avuto una profonda influenza su di me”. L’Olocausto ebbe un impatto tale su di lui che fu quasi discriminante nella scelta come assistente di Douglas Feith, che nei lager aveva perso genitori, tre fratelli e quattro sorelle. Nel gennaio del 2005, quando le Nazioni Unite dedicarono una giornata allo sterminio degli ebrei, Wolfowitz chiese di prendervi parte per testimoniare la “grandezza dell’evento, come un male totalitario si prese milioni di vite preziose”. Il paragone con il nazismo ha segnato le sue visite in Iraq. “Saddam aveva a disposizione migliaia di persone nella Mukhabarat, il nome dei servizi segreti che trova la sua migliore definizione nel moderno equivalente della Gestapo e nelle SS”. Un idealismo che per Solomon gli fece commettere anche errori imperdonabili. Come lo scioglimento dell’esercito iracheno e la debaathificazione. Fu il padre a trasmettergli la passione sionista, la dedizione per la causa anticomunista e la difesa dei dissidenti sovietici. Quando Wolfowitz cominciò a parlare della possibilità di creare democrazie islamiche, le sue opinioni furono considerate utopiche. “Un giorno forse guarderemo a questo momento storico ricordandolo come il periodo in cui l’occidente si è ridefinito per affrontare il XXI secolo, e non in termini di geografia, di razza, religione, cultura o lingua, ma di valori: i valori della libertà e della democrazia”. Nel 1934 Jacob Wolfowitz aveva sposato Lillian Dundes e il 22 dicembre 1943 nacque Paul, dopo Laura, la sorella che vive in Israele. Alla Cornell University il giovane Paul conobbe Allan Bloom, classicista mondano e omosessuale. Saul Bellow racconta in “Ravelstein” il legame fra Wolfowitz e Bloom con il personaggio di Phillip Gorman. Sono gli anni in cui si avvicina al movimento dei diritti civili e il 28 agosto 1963 assiste al celebre discorso del reverendo Martin Luther King. Milita nel Committee for Critical Support dell’università, un gruppo di pressione a favore dell’intervento militare in Vietnam. Nel 1965 Wolfowitz si iscrisse al Mit per studiare chimica. Ma ormai si era reso conto di avere altri interessi, così decise di fare un dottorato in Scienze politiche all’Università di Chicago. Seguì due corsi, Montesquieu e Platone, del filosofo Leo Strauss, studiò con Albert Wohlstetter, il più importante stratega nucleare durante la Guerra fredda. Logico matematico, Wohlstetter scrisse “The delicate balance of terror”, in cui rovescia l’assunto allora prevalente che nessuna superpotenza avrebbe osato ricorrere alle armi nucleari. Dimostrava, more mathematico, che la deterrenza non è assicurata e che la guerra nucleare si può vincere. Furono le teorie di Wohlstetter a formare Edward Teller, il fisico che ispirò a Stanley Kubrick la figura del Dottor Stranamore. Wolfowitz disdegna l’etichetta di “straussiano”, “prodotto di menti fervide incapaci di capire che l’11 settembre ha cambiato molte cose e il modo con cui ci dobbiamo relazionare con il mondo”. Solomon racconta la formazione di uno dei funzionari di secondo grado più potenti di tutta la storia americana. Dopo aver lavorato al Dipartimento di stato sotto Reagan, Wolfowitz venne nominato ambasciatore in Indonesia. Il periodo passato a Giacarta ha avuto una fatale influenza su di lui. L’Indonesia, il quarto paese più grande al mondo e la più popolosa nazione musulmana, gli ha dimostrato la possibilità dell’islam moderato. “Era l’ebreo chiamato a rappresentare l’America nella più grande nazione islamica del mondo”. Wolfowitz ha trascorso una vita accademica al fianco di studiosi musulmani, dallo storico sciita Fouad Ajami al sunnita Zalmay Khalilzad, il pashtun sposato con Chery Bernard, gran sostenitrice dei diritti delle donne. Wolfowitz è fiero di aver fatto parte di un’Amministrazione che “ha liberato 50 milioni di musulmani dalla tirannia”. Il suo modello è Ankara, di cui caldeggia l’ingresso in Europa: “Il successo della Turchia può dimostrare al miliardo e 200 milioni di musulmani del nostro pianeta che c’è una una via assolutamente migliore di quella, costellata di distruzione e disperazione, offerta dai terroristi, e dimostrare che i vantaggi delle società libere, prospere e aperte sono ugualmente disponibili per tutti”. Durante la presidenza di Bush padre, Wolfowitz ha lavorato come sottosegretario alla Difesa, collaborando con l’allora segretario Dick Cheney. Ogni sabato Wolfowitz organizzava seminari in una piccola sala del Pentagono, facevano sedere Cheney davanti a una schiera di sovietologi che ritenevano che Mosca fosse sull’orlo del collasso. Dal 1994 al 2001 è stato rettore della prestigiosa Paul H. Nitze School of Advanced International Studies alla Johns Hopkins University. Con la vittoria di George W. Bush, Wolfowitz rifiutò di fare l’ambasciatore all’Onu e accettò di fare il vice di Donald Rumsfeld. La prima volta che si era fatto notare, giovane analista del Pentagono, fu quando preparò un rapporto segreto sul Golfo Persico, disse che la minaccia sarebbe venuta da Saddam. All’arrivo al Pentagono, vide che c’era un’imponente sezione dedicata alla Nato e una modesta per il sud-est asiatico. Alla sua domanda “dov’è l’ufficio per il Golfo Persico?”, seguì la risposta: “Non ce ne occupiamo, ci pensa lo scià di Persia a tenerlo buono”. Wolfowitz replicò: “E’ una visione miope”. Solomon racconta il raffinato studioso ebreo cresciuto nelle migliori università d’America, che parla sei lingue, dall’ebraico all’indonesiano, e che sul comodino si vanta di tenere la storia della Guerra civile americana. Un destino legato all’Iraq. La storia irachena dopo il 2003, secondo Wolfowitz, è quella di un “enorme coraggio, ognuno di quegli otto milioni di iracheni si assunse un rischio marcando il pollice nell’inchiostro e dicendo a tutti, compresi i terroristi, da che parte stava”. Un uomo convinto della vittoria ineludibile del mondo libero sul terrorismo: “Per gli uomini che apprezzano la libertà e cercano la pace, questi sono tempi difficili. Ma tempi come questi ci permettono di approfondire la nostra comprensione della verità. E questa è la verità che conosciamo: la minaccia più grande alla pace e alla libertà è oggi posta dal terrorismo. Perciò affermiamo quest’altra verità: il futuro non appartiene ai terroristi. Il futuro appartiene a coloro che s’impegnano per realizzare il sogno più antico e nobile di tutti: il sogno della pace e della libertà”. Lungo il capitolo sulla Banca mondiale. Solomon spiega che il motivo vero della campagna contro Wolfowitz non è l’aver favorito la carriera della propria compagna, ma il ruolo che l’istituzione avrebbe assunto in Iraq. Lo scorso autunno Wolfowitz aveva chiesto di aprire un ufficio a Baghdad. Voleva che la Banca lavorasse con il governo iracheno. Aveva iniziato questo progetto nel giugno del 2003 con l’Iraq Trust Fund. Wolfowitz rimosse Chrik Poortman, contrario al coinvolgimento in Iraq, sostituendolo con l’italiana Daniela Gressani. Senza la copertura della Banca mondiale, per l’Iraq non ci sarebbero stati investimenti. Se il consiglio di amministrazione di una società petrolifera dovesse allocare miliardi di dollari in un paese non coperto dalla Banca mondiale, si direbbe che sta mettendo a repentaglio i capitali affidatigli dai risparmiatori. Wolfowitz intendeva anche usare la Banca nella lotta alla corruzione, alla povertà e a favore della democrazia. “Stiamo tutti meglio quando gli altri stanno meglio”, diceva. Prima della nomina aveva detto: “Si combatte la povertà migliorando istruzione, condizioni sanitarie, opportunità per le donne e le categorie alle quali non sono riconosciute pari opportunità”. Il suo slogan è “rendere storia la povertà”. Ha bloccato finanziamenti a paesi non democratici. Il caso più clamoroso è il Ciad. L’economista Pascal Zachary, che ha fama di progressista, approvò la sua nomina per un’alleanza tra progressisti e conservatori contro la corruzione. Solomon spiega che un presidente della Banca mondiale non aveva mai fatto tanto per le donne: “Nei miei viaggi ho visto il ruolo inestimabile delle donne nel migliorare le vite di figli, famiglie e comunità. Hanno bisogno di opportunità. Sta a noi fare il possibile per dargliele”. Solomon racconta che quando fece la sua prima visita nell’Iraq liberato il 17 luglio 2003, Wolfowitz, che indossava pantaloni color kaki e scarponcini da combattimento, chiese come prima cosa di far visita a una fossa comune a Hilla. Lì gli americani avevano scoperto migliaia di sciiti legati l’uno all’altro per risparmiare pallottole. “Il generale Dwight Eisenhower chiese ai deputati e ai giornalisti di visitare i campi di sterminio. I soldati americani divennero ciò che uno scrittore ha chiamato ‘archeologi riluttanti delle più disumane possibilità del genere umano’”. Anche lui si sentiva così. Quanto era successo sotto Saddam gli ricordava il nazismo. “In Polonia c’è una frase che spiega bene la ‘stabilità della tomba’. La cosiddetta stabilità che assicurava Saddam era anche peggio”. Quella sera il suo ottimismo impressionò gli ospiti del Rashid. Parlando con Ahmed Chalabi, presidente dell’Iraqi National Congress, Wolfowitz disse: “Ci siamo sempre detti che ci saremmo stretti la mano in un Iraq libero”. Solomon riporta il giudizio di Rumsfeld: “La storia giudicherà Paul come uno dei più grandi pensatori della sua generazione”. Per Rumsfeld, i figli di Wolfowitz si trovano “nei villaggi e nelle città dell’Indonesia, dove come ambasciatore americano pose le aspirazioni di dissidenti e indonesiani ordinari sopra gli interessi contingenti del potere politico”. Si trovano in Afghanistan, “dove un governo democratico protegge le donne e imprigiona i terroristi, anziché imprigionare le donne e ospitare terroristi”. Si trovano nelle scuole dell’Iraq, “dove una giovane ragazza imparerà la storia reale anziché le menzogne dei tiranni. Quella ragazza oggi è libera ed è merito di Paul”. C’è anche il Wolfowitz amante dell’islam, l’amico del primo ministro malesiano Anwar Ibrahim e di Abdurrahman Wahid, presidente indonesiano, esempi di un islam compatibile con la democrazia. Wahid gli ha fatto conoscere l’ayatollah Ali al Sistani. I calzini bucati fotografati all’ingresso della moschea turca di Edirne attestano questa passione. Wolfowitz pensa che “un sistema democratico è compatibile con l’islam, una concezione musulmana già espressa da Atatürk quando disse: ‘Islam ahlâk demektir’, l’islam significa moralità e valori. E, pur nel rispetto dei valori morali dell’islam, ci può essere separazione fra stato e religione, assolutamente compatibile con la fede personale. Come ha detto Atatürk, con il pieno consenso di noi americani e degli inglesi: ‘Din insân ilay Allah arasinda bir ishtir’, la religione è una questione tra Dio e l’uomo”. L’intellettuale visionario che in Iraq come prima cosa chiese di rendere omaggio alle vittime di Saddam, quando nel 2004 arrivò a Varsavia volle incontrare Jan Nowak, il “corriere” che portò in occidente le notizie sui massacri di ebrei. “Dopo la guerra, quando ebbe modo di leggere i rapporti dei suoi incontri con gli ufficiali occidentali, vide che non c’era accenno a ciò che aveva detto sugli ebrei polacchi. Nowak parlò di ‘inconvenienti di guerra’. Nonostante le nostre ferventi promesse di non dimenticare, sappiamo che dalla liberazione dei campi il mondo ha ignorato queste verità sconvenienti”. Secondo Solomon, Wolfowitz ha seguito una sola regola: “La libertà è il solvente che discioglie la tirannia”. L’incontro al ghetto di Varsavia lo concluse in polacco: “Za wolnosc wasza i nasza”. Significa: “Per la vostra libertà e la nostra”. Lo ripetè nella Umschlagplatz, da lì partirono per Treblinka i suoi familiari. In arabo ha ricordato l’ayatollah al Hakim ucciso in Iraq. E in bosniaco i morti di Srebrenica: “Es salaamu alaykum wa rahmatullah wa barakatu”. Solomon divide gli intellettuali in due. “I pessimisti vogliono rallentare il futuro. Vogliono stabilità e prevedibilità. Gli ottimisti come Wolfowitz puntano sulla capacità degli esseri umani di trasformare se stessi. Dopo il trauma seguito all’invasione dell’Iraq, la guerra interminabile dei fascisti islamici che faranno di tutto per infliggere danni alla civiltà occidentale, i pessimisti, che vedono fallimenti ovunque, sembrano i favoriti. Ma gli ottimisti vedono l’America come un falò di speranza. E nel lungo termine, prevarrà la marcia della libertà”. In visita a Gettysburg con degli esperti militari, mentre il sole si abbassava sul Seminary Ridge, Wolfowitz si trovava nel centro del campo di battaglia, in prossimità del punto in cui i soldati di Pickett si scontrarono con le truppe del governo federale e furono respinti a colpi di cannone. Lesse ad alta voce il telegramma che il presidente Lincoln scrisse, ma non inviò, al comandante dell’esercito del Potomac. Perché, Lincoln voleva chiedere al generale, vi siete fermato e non avete seguito il nemico in fuga? Wolfowitz disse che il contenimento è immorale. “Cosa sarebbe successo se gli Stati Uniti avessero tentato di contenere Hitler? Due mesi dopo la battaglia di Antietam, dove il numero di americani morti fu quattro volte più alto di quelli caduti nelle spiagge della Normandia, Lincoln disse ai membri del Congresso che non potevano fuggire dalla responsabilità della storia. Gli americani hanno combattuto per liberare altri popoli dalla schiavitù e per proteggere la propria libertà. I cimiteri dalla Francia al Nord Africa, con le file di croci cristiane e stelle di David, attestano questa verità”. Sentiremo la mancanza di questo gigante, perché come ha detto Rumsfeld, “Wolfowitz è una di quelle rare persone che, come dice il Talmud, accende candele invece di maledire le tenebre”.
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