Sergio Romano non rinuncia a disinformare né quando risponde ai lettori, nè quando scrive un colto e raffinato articolo su un precursore del sionismo
Testata: Corriere della Sera Data: 25 luglio 2007 Pagina: 33 Autore: Sergio Romano Titolo: «Quel principe libertino che anticipò il sionismo - Palestina: guerra dei falchi e sconfitta delle colombe»
Dalle pagine culturali del CORRIERE della SERA del 25 luglio 2007 ripendiamo un colto e raffinato articolo, così lontano dalla disinformazione propagandistica e dalla manipolazione della storia abitualmente esercitate dal suo autore, da non sembrare neanche suo. Almeno fino alle ultime righe, nelle quali Sergio Romano ritorna pienamente se stesso.
Ecco il testo:
T ra la fine del Settecento e gli inizi dell'Ottocento l'Europa cominciò a guardare i suoi ebrei con occhi diversi. Voltaire aveva una sorta di allergia intellettuale per l'Antico Testamento, ma dichiarò, «generosamente», che non era giusto bruciarne i fedeli. La rivoluzione francese li emancipò dalle servitù e dalle interdizioni che li avevano confinati nei ghetti e privati di alcuni elementari diritti economici. Napoleone convocò nel luglio 1806 il Gran Sinedrio, un'assemblea durante la quale i rappresentanti dell'ebraismo francese e italiano discussero e definirono i diritti e i doveri delle loro comunità. I governi e gli uomini d'affari si accorsero che la finanza ebraica poteva essere il motore della rivoluzione industriale. La Germania, dove viveva la comunità europea più audacemente riformatrice, scoprì che potevano avere un grande talento filosofico (Moses Mendelssohn), musicale (Mendelssohn- Bartholdy) o letterario (Heine). E nell'impero zarista, vale a dire nello Stato in cui gli ebrei erano più numerosi, il principe Potiomkin decise di costituire un reggimento di cavalleria ebraica, l'«Izraelovskij», che avrebbe conferito una sorta di dignità biblica alle sue guerre contro i turchi ottomani sulle frontiere della Crimea. Ma lo sguardo più originale e, per certi aspetti, profetico, fu quello di un principe belga che attraversò la storia d'Europa maneggiando con altrettanta destrezza la spada e la penna. Si chiamava Charles-Joseph de Ligne, era nato nel 1735 ed era cresciuto in un castello severo sotto lo sguardo arcigno di un padre all'antica, che non amava la gioventù e aveva scarsa simpatia per suo figlio. Il giovane de Ligne era ambizioso. Voleva essere un grande soldato, un brillante cortigiano, un illustre scrittore, e riuscì assai bene in ciascuno degli obiettivi che si era prefisso. Divenne generale e maresciallo, combatté nei Balcani, partecipò alla guerra di successione bavarese e fu in Crimea come generale d'artiglieria a fianco di Potiomkin. Nell'Europa delle corti fu un gentiluomo raffinato, spiritoso, un po' dandy (portava un anello d'oro all'orecchio sinistro), amante delle feste fastose, corteggiato dai re e vezzeggiato dalle donne, con cui aveva generalmente rapporti brevi e felici. Alla letteratura dedicava le sue mattine. Amava scrivere a letto, avvolto in una vestaglia di raso rosso, color del fuoco, decorata di pappagalli ricamati d'oro che riposavano su alberelli frondosi ricamati di verde. La fama letteraria giunse tardi, nel 1808, quando Madame de Staël pubblicò una raccolta di Lettere e pensieri del principe maresciallo di Ligne. Scelse i brani migliori fra i 34 volumi di una colossale Miscellanea (35 tomi) apparsa a Dresda fra il 1795 e il 1811, in cui uno studioso belga, Jean-Pierre Pisetta, ha rinvenuto una Memoria sugli ebrei, apparsa recentemente presso l'editore Bernard Gilson. A un primo sguardo l'immagine degli ebrei, in queste pagine del principe Ligne, è quella tradizionale e folcloristica che appare nella pittura e nelle incisioni dell'epoca. Sono umili, servili, carichi di pacchi in cui sono avvolte le povere cose che cercano di smerciare camminando faticosamente da una bottega all'altra. In alcune righe sembrano addirittura la caricatura di quei personaggi cenciosi con cui un grande pittore del Settecento, Alessandro Magnasco, amava popolare le sue scene notturne: «Colorito livido, sdentati, naso lungo e storto, sguardo timoroso e incerto, testa tremante, capelli crespi, occhi cavi, mento lungo e affilato». Ma l'aspetto esteriore riflette una condizione di cui, secondo il principe de Ligne, gli ebrei non erano responsabili, «Date loro uno Stato o un buon asilo — scrive — e cesseranno di rispondere a questa descrizione». Occorrerebbe anzitutto ricostruire i ghetti e rivestire gli ebrei con i dignitosi abiti orientali che appartengono alla loro tradizione. L'abito valorizzerebbe la costanza del loro carattere, le loro virtù intellettuali e (era questo forse ciò che maggiormente colpiva Ligne) la bellezza delle loro donne. Ma la soluzione migliore consisterebbe nel restituirli alla terra da cui provengono, Quelli che già abitano in Turchia dovrebbero chiedere al sultano il permesso di occupare il loro vecchio regno di Giudea. Molti rimarrebbero alla sua corte, ma i più andrebbero in Palestina, dove farebbero «fiorire le arti, l'industria, l'agricoltura e il commercio dell'Europa ». Il Tempio di Salomone verrebbe ricostruito. Le acque dei torrenti servirebbero ad irrigare la terra. Il deserto diverrebbe nuovamente abitabile. E scomparirebbero infine i «ladruncoli arabi che infestano oggi i luoghi santi». Qualcuno pensa che gli ebrei non possano essere buoni agricoltori? Ligne è convinto che basterebbe metterli all'opera. Questo non significa, beninteso, che tutti gli ebrei europei debbano emigrare. Mentre i più poveri partirebbero per la Terra promessa, i banchieri, i commercianti e quelli bene insediati nelle capitali europee (fra cui alcuni già nobilitati dal sovrano del Paese in cui abitano) potrebbero rinunciare a Gerusalemme e restare nella loro patria adottiva, rispettati e stimati. Scritta da un uomo del Settecento, questa memoria può sembrare un fantasioso esercizio intellettuale. Ma contiene una serie di impressionanti analogie con il progetto sionista di Theodor Herzl e con ciò che è effettivamente accaduto nel XX secolo. Anche Herzl, fondatore del movimento sionista, credeva che il sultano avrebbe avuto, per la creazione dello Stato ebraico, un ruolo fondamentale. Andò a Costantinopoli, chiese udienza a Abdülamit II e cercò di comprare una concessione palestinese con la somma di un milione e seicentomila sterline che egli avrebbe raccolto grazie a qualche generoso filantropo ebraico. E anche Herzl era convinto che la creazione dello Stato ebraico avrebbe indotto la diaspora a scegliere fra due prospettive: la nuova patria, a Gerusalemme, di cui sarebbero diventati cittadini, o la patria adottiva, in Europa, in cui si sarebbero definitivamente assimilati. Ma l'aspetto più interessante e profetico della Memoria di Ligne è la sua riflessione sul carattere degli ebrei, la convinzione che bastasse rompere la gabbia del pregiudizio perché il prigioniero liberato fosse capace di imprese a cui sembrava inadatto. Esiste fra Ligne e Herzl un'altra analogia. Né l'uno né l'altro presero in considerazione nel loro progetto l'esistenza di una popolazione araba. Per Herzl la Palestina era «una terra senza popolo». Per Ligne, in quella parte del mondo vi erano soltanto i conquistatori turchi e l'Islam, vale a dire un monoteismo che a lui, scettico e agnostico, sembrava molto simile all'ebraismo. In un passaggio della sua memoria notò che ebrei e musulmani erano ambedue circoncisi e che, dopo tutto, «il nome di Maometto viene da quello di Mosé, Solimano da Salomone, Ibrahim da Abramo, Jusuf da Giuseppe, Achmet da Isacco, Salim da Salomé e Zaira da Sara». La profezia di Ligne e quella di Herzl si avverarono. Ma quella dimenticanza fu il granello di sabbia che inceppò la macchina della loro visione e rese la realtà diversa da quella che avevano immaginato.
Sempre Romano, rispondendo a un lettore, traccia una storia di Hamas completamente falsa. Non è vero che agli israeliani, all'inizio della prima intifada "non spiaceva che esistesse un'organizzazione capace di fare concorrenza all'Olp di Yasser Arafat". Nel momento stesso in cui Hamas nacque come organizzazione politica e terroristica, trasformando (o rivelando) la natura di una precedente associazione caritatevole e religiosa dei Fratelli Musulmani, entrò in conflitto con Israele. e il suo leader, loe sceicco Yassin, venne arrestato. Non è vero che Hamas sia divisa tra "falchi e colombe": la sua leadership è quella estremista di Khaled Meshal. Le cosiddette "colombe" come Hanyieh, non hanno potere, sono solo portavoce del gruppo (soprattutto in Occidente). Non è vero che il documento dei prigionieri riconoscesse Israele: ammetteva la possibilità di creare uno Stato palestinese in Cisgiordania e Gaza, ma come tappa per la "liberazione" di tutta la "Palestina". Va poi rilevato che Romano non fa cenno allo statuto di Hamas, nel quale si stabilisce l'obiettivo della distruzione di Israele, si richiamano teorie cospirative antisemite e si preconizza il finale sterminio dell'intero popolo ebraico. Perticolari di un certo rilievo per capire, come il lettore chiedeva all'ex ambasciatore, la "natura" di Hamas. Ecco il testo:
Vorrei che mi aiutasse a capire la natura di Hamas. E' un movimento politico? Con quale programma elettorale ha vinto le elezioni? Chi, con armi e finanziamenti, dà la forza ad Hamas di sbaragliare l'esercito regolare palestinese e conquistare Gaza? Sul piano internazionale si possono prevedere gli obiettivi che Hamas si prefigge? Renato Malgaroli Caro Malgaroli, Hamas è una costola della Fratellanza musulmana, nata nei territori occupati all'inizio dell'Intifada (1987), quando agli israeliani non spiaceva che esistesse un'organizzazione capace di fare concorrenza all'Olp di Yasser Arafat. Aveva una forte dose di fanatismo religioso, ma era anche un movimento di liberazione ed ebbe aiuti finanziari o logistici da tutti i Paesi che, per una ragione o per l'altra, avevano motivi di risentimento verso Israele o avevano fatto dell'antisionismo la loro bandiera nazionale. Acquistò credito e popolarità a Gaza e in Cisgiordania, dopo la creazione dell'Autorità autonoma palestinese, per molte ragioni: la svolta conservatrice della politica israeliana dopo l'avvento del Likud al potere, la macchina corrotta e clientelare che Arafat aveva creato per l'Olp e Al Fatah nei territori occupati, la grande rete di assistenza sociale con cui aveva saputo provvedere alle più elementari esigenze della popolazione. Quanto più i «laici » dell'Olp si dimostravano inetti e venali, tanto più gli austeri miliziani di Hamas acquistavano credito agli occhi della società palestinese. Come accadde in tutti i movimenti di liberazione (il Fronte algerino, l'Ira irlandese, l'Eta basca), la dinamica del terrorismo e della guerriglia spinse al vertice dell'organizzazione la sua componente più estrema, violenta e inflessibile. Esistevano anche le colombe, ma venivano escluse o messe a tacere dal diabolico ingranaggio che è tipico delle guerre di guerriglia. Ogni attentato inaspriva le reazioni degli israeliani, ogni reazione «giustificava» e incoraggiava l'attentato successivo. La situazione accennò a cambiare dopo il successo di Hamas nelle elezioni politiche del gennaio 2006. Le colombe divennero più visibili e cercarono probabilmente di orientare la politica del nuovo governo. Ma i falchi, per ragioni ideologiche e interessi di parte, non intendevano fare concessioni che avrebbero intaccato il loro potere. L'episodio più interessante di questo braccio di ferro tra il partito del rigore e quello della flessibilità fu un documento scritto da quattro esponenti del movimento palestinese detenuti nelle carceri israeliane: Marwan Barghouti (Al Fatah), Abdel Khalek al-Natsheh (Hamas), Abdel Rahim Malouh (Fronte popolare per la liberazione della Palestina), Sceicco Bassam al-Sadi (Jihad Islamica). Il documento era composto da 18 punti e comprendeva proposte (ad esempio il ritorno dei rifugiati palestinesi nelle terre da cui erano partiti nel 1948 e nel 1967) che il governo israeliano non avrebbe accettato. Ma proponeva la nascita di uno Stato palestinese a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, vale a dire in territori conquistati da Israele durante la Guerra dei sei giorni. Pur senza dirlo esplicitamente, quindi, il documento Barghouti, come veniva allora generalmente chiamato, conteneva un implicito riconoscimento dello Stato d'Israele. Per alcuni giorni sembrò che il documento sarebbe potuto diventare la base di un compromesso politico fra Hamas e l'Olp. La risposta dei falchi fu la cattura del caporale israeliano Gilad Shalit, il 25 giugno 2006. Ma è probabile che anche a Gerusalemme esistessero ambienti decisi a evitare che il compromesso privasse Israele del suo nemico. Un nuovo tentativo venne fatto qualche mese dopo dall'Arabia Saudita quando re Abdallah convocò alla Mecca, nel febbraio di quest'anno, il Primo ministro di Hamas Ismail Haniya e il presidente Mahmud Abbas per la ricerca di una soluzione concordata. Il documento finale di quell'incontro si compone di otto capitoli interamente riprodotti e commentati da Antonio Napolitano in una «Lettera» del 23 marzo pubblicata dal Circolo di studi diplomatici di Roma. Napolitano mette in evidenza la frase del primo capitolo in cui è detto che il nuovo governo palestinese «rispetterà la legittimità internazionale delle risoluzioni e degli accordi firmati dall'Olp». Non è esatto quindi sostenere che Hamas rifiuta ostinatamente di riconoscere l'esistenza di Israele. In questo e in altri passaggi del documento della Mecca esiste una implicita accettazione di quella che veniva chiamata «entità sionista». Come ha scritto Arrigo Levi in un recente articolo apparso su La Stampa («Israele, la pace si fa con i nemici», 20 luglio), il «riconoscimento pubblico e finale» potrebbe giungere alla fine della trattativa. Se è questa la materia principale del negoziato, è comprensibile che Hamas non voglia gettare sul tavolo, all'inizio della partita la sua carta migliore. Ma anche questo documento, come sappiamo, è stato messo in disparte dalla breve guerra civile di Gaza e dall'estromissione dell'Olp dalla Striscia. Sarà opportuno non dimenticare tuttavia che all'origine di quegli scontri vi fu anche il rifiuto di Mohammed Dahlan, il «duro » dell'Olp, di rinunciare al controllo delle milizie palestinesi, un piccolo esercito forte di circa 70.000 uomini. Evidentemente ciascuno ha i suoi falchi.
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