Terrorismo: la propaganda di Hamas, rivolta ai bambini e la rete di Al Qaeda
Testata: Il Foglio Data: 24 luglio 2007 Pagina: 2 Autore: Diana Zancheddu - la redazione Titolo: «Dopo il topo Farfur, Hamas educa al martirio e al jihad con l’Ape Nahul - Perché è pericoloso considerarlo “solo” terrorismo fai da te»
Dal FOGLIO del 24 luglio 2007:
Un pupazzo a forma di ape gigante scende dal soffitto nello studio televisivo. Dice di chiamarsi Nahul. Sembra l’inizio di una puntata della Melevisione in versione palestinese, se non fosse che l’ape aggiunge: “Voglio continuare sulla strada dell’islam, la strada dell’eroismo, la strada del martirio, la strada dei mujahideen della jihad”. Il dialogo è nel programma per bambini andato in onda il 13 luglio su al- Aqsa Tv, emittente dell’autorità palestinese. Il titolo è “Lo show dei pionieri di domani”. La conduttrice della trasmissione si chiama Sara, una ragazzetta con velo giallo in testa e casacca verde. Potrebbe avere dodici anni. E’ seduta nella stanza, dietro di lei c’è un puzzle di numeri enormi e colorati. Lo scenario è perfetto per una trasmissione vista da bimbi che ancora non sanno leggere né fare addizioni. Sara chiede all’ape chi sia. Il pupazzo risponde: “Sono Nahul, cugino di Farfur”. Per chi non avesse avuto modo di seguire le puntate precedenti, si sappia che Farfur era un topolino, una specie di Mickey mouse ucciso di botte da un attore in giacca e occhiali neri, nella parte di un agente israeliano che vuole comprare la terra palestinese e incappa nel rifiuto eroico del topo. Farfur aveva infatti avuto dal suo nonno morente i documenti che spiegavano come la terra occupata dagli israeliani fosse dei palestinesi, una terra “coperta di fiori, ulivi e palme, occupata nel 1948 dagli sporchi, criminali ebrei saccheggiatori”. Il nonno gli spiega che la terra è quella città che si chiama Tel Al Rabi, ma “purtroppo gli ebrei la chiamano Tel Aviv da quando l’hanno occupata”. Farfur muore per mano dell’agente israeliano perché non accetta di svendere la sua terra in cambio di una montagna di soldi. La cugina di Farfur, l’ape Nahul, dice di voler continuare sulla sua strada: “Io e i miei amici seguiremo le orme di Farfur. E in suo nome ci prenderemo la vendetta sui nemici di Allah, sugli assassini dei profeti (leggi: israeliani), sugli assassini di bambini, fino a quando libereremo al Aqsa dalla loro sozzura. Noi abbiamo fede in Allah”. Diane, la figlia di Walt Disney, lo aveva definito “pura malvagità”. L’apice della trasmissione, dopo la morte violenta del topo Farfur, si era raggiunto con l’intervento telefonico di una bimba di tre anni. Sara, la baby-conduttrice, spiegava ai suoi baby-spettatori che Farfur era “diventato martire per mano di criminali e assassini che uccidono bambini innocenti (leggi: israeliani)”. Al telefono si annuncia la voce di Shaima, tre anni. Sara le chiede: “Hai visto che gli ebrei hanno fatto morire Farfur come un martire? Che cosa vorresti dire agli ebrei?”. Shaima: “Non ci piacciono gli ebrei perché sono cani (Sara, in studio, annuisce). Li combatteremo”. Anche la Palestinian Broadcasting Corporation, controllata da Fatah, si era dissociata dalla trasmissione. I filmati con le storie di Farfur il topo e Nahul, sua cugina ape, si possono vedere sul sito www.memritv.org, che per sedici ore ogni giorno segue le trasmissioni delle più importanti tv arabe. E su pmw.org.il, un organo di controinformazione sui media palestinesi. Forse il ministro degli Esteri italiano Massimo D’Alema non ha mai visto le clip di quel programma, “Lo show dei pionieri di domani”. Un programma per bambini, così sempre meglio educati a diventare i terroristi e i kamikaze di domani.
Da pagina 3, un articolo che spiega perché è sbagliato pensare che il terrorismo di cellule come quella di Perugia non abbia ormai legami con le centrali di Al Qaeda. Ecco il testo:
Roma. Anche questa volta, a tre giorni dall’arresto a Perugia di tre marocchini sospettati di terrorismo, si ritira fuori la versione più aggiornata degli studi su al Qaida. Per dire che la rete di Bin Laden in realtà non è un’organizzazione molto estesa, ma è invece un franchising in cui conta soltanto il marchio reso universalmente conosciuto dall’attacco alle Torri gemelle e non gli operatori anonimi che di volta in volta compiono materialmente l’opera. Anzi, è una campagna, come Greenpeace, a cui si sceglie di aderire da ogni parte del mondo armati soltanto del proprio entusiasmo. Con comunione di metodi e obiettivi, ma senza alcun contatto materiale, di mezzi, di soldi o di persone con il vecchio nucleo di duri, quegli arabi afghani usciti fuori dall’inferno del jihad contro i sovietici negli anni Ottanta. E’ ovviamente ancora presto per dire se i tre di Perugia non fossero realmente tre cani sciolti, che fantasticavano di attentati in grande stile – avvelenare gli acquedotti umbri, costruire una “bomba sporca”, attaccare aeroporti – chiusi nel loro bugigattolo- moschea senza appartenere a nessuna società segreta islamista. Nati come per germinazione spontanea. Suggestionati da quei video e da quelle istruzioni via Internet che chiunque potrebbe trovare in un pomeriggio davanti al computer. Eppure, è anche troppo presto per recidere il cordone ombelicale tra le montagne e le megalopoli asiatiche dove si nasconde la gerarchia di al Qaida e le loro cellule sparse in giro per il mondo. Gettare il nome di al Qaida nelle cronache non è un abbaglio, un espediente retorico a buon mercato, buono soltanto per i titolisti dei giornali: “Al Qaida a Perugia”. Non lo è per una serie di motivi. Il più serio è che al Qaida ha già dimostrato di avere gruppi di uomini addestrati a compiere attentati, nascosti e in attesa nelle grandi città europee. Basta fare il caso del terrorismo qaidista in Inghilterra, che si suppone essere il primo esempio di guerra santa indigena, cresciuta in casa senza input dall’estero. Anche quando i colpi sono portati con dilettantismo imbarazzante, come nel caso della jeep in fiamme lanciata contro l’aeroporto di Glasgow, dove le vittime più gravi sono i due terroristi improvvisati, poi si scopre che i legami con i nomi grossi c’erano. Secondo il Times, l’intero plot aveva ricevuto la benedizione di Osama. Secondo il giornale britannico, Bilail Abdulla, il dottore iracheno coinvolto nell’attacco, aveva abbandonato i suoi studi per diventare medico a Baghdad per un anno intero. Era andato in Libano e in Pakistan e al suo ritorno sembrava trasformato: molto più radicale e ideologizzato. Anche gli attentatori del 7 luglio a Londra erano andati in pellegrinaggio in Pakistan, nel Waziristan, quell’area tribale confinante con l’Afghanistan dove le tribù locali garantiscono protezione e impunità ai campi di addestramento di al Qaida. E dove si nasconde il numero due, il medico egiziano Ayman al Zawahiri. La settimana scorsa l’intelligence inglese ha rivelato che un numero compreso tra le 3.000 e le 4.000 persone è tornato nel Regno Unito da quei campi. Altro che spontaneismo terrorista. Dai 3.000 ai 4.000 volontari preparati per predicare, convertire, insegnare e attaccare. Senza contare che Abu Qatada, il leader ideologico degli jihadisti britannici, ha avuto stretti contatti con Osama bin Laden. Anzi. Secondo Lawrence Wright, autore di “The Loomig Tower”, uno dei libri più documentati su al Qaida, sarebbero state proprio le idee estremiste di Qatada, proibite in Arabia ma esposte liberamente nell’Inghilterra della libertà d’opinioni a radicalizzare ancora di più Osama. L’Europa insomma è semplicemente un terreno di coltura come un altro e un ottimo serbatoio di reclutamento, come dimostra l’esistenza del sentiero degli jihadisti: porta “i soldati di Allah con gli occhi blu” – come sono chiamati i convertiti europei – a combattere in Iraq. Un europeo, senza appoggi esterni, senza una rete di reclutamento organizzata, non porta la guerra santa fino a Baghdad. Ci vuole come minimo un’agendina con i numeri giusti Dire che in Italia non ci sono basi logistiche di al Qaida né una sua presenza militare è perlomeno un azzardo da dimostrare. Si moltiplicano gli allarmi sugli estremisti salafiti arrivati sulle nostre coste dall’Algeria (dove il Gruppo per predicazione e il combattimento ha cambiato nome, guarda caso, in “al Qaida nel Maghreb”). La magistratura di Milano, come riportato ieri anche dalla Stampa, scopre che la maggior parte degli indagati per terrorismo in Italia sono tunisini e marocchini e che sono sotto inchiesta anche per altri reati collegati: falsificazione di soldi e di documenti. Nel caso dei tre arrestati a Perugia, nella vita degli indagati esistono dei buchi di tempo, più o meno grandi, in cui sono tornati in Marocco, dove l’occasione di incontro e coordinamento con altri jihadisti è molto più forte che in Umbria. Certamente l’esistenza del pulviscolo terrorista spontaneo è una minaccia da non escludere, neanche per un momento. Ma le centrali del terrore sono oltremare, ed è là che si devono cercare.
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