La propaganda di Hezbollah convince Francesca Paci disinformazione dal Libano
Testata: La Stampa Data: 23 luglio 2007 Pagina: 14 Autore: Francesca Paci Titolo: «Italiani non andate via»
Reportage dal Libano di Francesca Paci, pubblicato dalla STAMPA del 23 luglio 2007. Gli Hezbollah, coraggiosi combattenti, hanno respinto l'invasione israeliana del 2006, e respingeranno anche la prossima. Sono armati fino ai denti, ma non è compito dell'Unifil disarmarli. I libanesi del Sud, che unanimemete sostengono Hezbollah, amano gli italiani, perché non sono in Libano per "proteggere Israele". Insomma un reportage che conferma le peggiori falsità su Israele e riproduce acriticamente la propaganda Hezbollah.
Ecco il testo:
Accanto al tenente Enzo Di Fazio, Samar sembra ancora più piccolo dei suoi dieci anni. Calzoncini corti, maglia azzurra della nazionale campione del mondo 2006, al collo la medaglietta del leader sciita Nasrallah, segue passo passo il gigante italiano in mimetica che accende i lampioni del suo villaggio, al buio da oltre un anno. Ad Ayta Achaabm - 11 mila anime, 400 abitazioni distrutte dalla guerra dello scorso anno contro Israele - la Folgore sorprende chi associa al reparto d’assalto la tradizionale immagine dei duri in occhiali a specchio, muscoli torniti, tatuaggi celtici. Parà, ma «in borghese», coordinano il settore ovest della missione Unifil, la forza d’interposizione Onu nel sud Libano. Tecnicamente si chiama cooperazione civile e militare (Cimic) e significa seguire 107 municipalità, 300 mila persone: restituire l’illuminazione a Ayta Achaabm con 300 nuovi lampioni, insegnare ai bambini di Bint Jbeil come stare alla larga dalle micidiali mine antiuomo, distribuire antibiotici agli abitanti di Maroun ar-Ras, un migliaio di case e neppure un ambulatorio. È «il miracolo italiano» che ha entusiasmato perfino il presidente della Camera Fausto Bertinotti, «folgorato dalla Folgore» durante la visita ufficiale di un mese fa. «Dov’è il governo libanese? Qui non s’è mai visto, gli italiani invece ci sono ogni giorno». Nasser, il padre di Samar, ha 30 anni e ne dimostra il doppio. Il viso scavato, i denti rovinati, l’andatura azzoppata da una ferita malcurata. Ha cresciuto sette figli coltivando tabacco, la schiena curva sui campi ma dritta con il nemico: davanti alla porta di casa, al posto dello zerbino, tiene una bandiera israeliana abbandonata lo scorso luglio dai soldati in ritirata. All’inizio pensava di fare lo stesso con quella delle Nazioni Unite: «Quando è arrivata Unifil credevo che servisse a proteggere Israele. Invece gli italiani si sono dimostrati amici». Dopo l’attentato che ha sterminato una pattuglia di Caschi blu spagnoli ha paura. Ripete che la gente «è abituata a combattere» ma chiede continuamente conferme agli uomini del generale Maurizio Fioravanti, capo del contingente italiano: «È vero che non andate via?». Le jeep che portano gli aiuti sono scortate, una squadra davanti per scrutare il terreno, una alle spalle contro gli agguati. Ayta Achaab è a pochi chilometri dal confine, la vallata dove sono stati rapiti i due militari israeliani un anno fa. L’artiglieria ha picchiato duro. «Siamo eroi della resistenza» proclama il sindaco, Taysir Srour. Nei paesi a ridosso della Blue line, la frontiera presidiata dall'Unifil, la guerra è routine, come pregare e far la spesa. «Gli israeliani ci riproveranno e li ricacceremo via» afferma Nur, 62 anni, velo nero ma sigaretta in bocca. Sua figlia e le tre nipoti vivono in Arabia Saudita, tornano ad al Qawzah per le vacanze. Erano appena arrivate quando sono cominciati i raid aerei: «Gli israeliani sono entrati in salotto, hanno rovesciato tutto, ma siamo ancora qui». Ad al Qawzah vivono cristiani e musulmani. I bombardamenti hanno danneggiato la chiesa e la moschea. L’Iran finanzia la strada verso Tiro e versa 12 mila euro alle famiglie senza tetto. «Siamo tutti Hezbollah, uomini, donne, bambini, musulmani, cristiani» osserva Shaker, 46 anni, insegnante. Ogni camera da letto, ogni stalla, nasconde un lanciarazzi, un fucile. I militari dell’Unifil lo sanno, ma disarmare non è compito della missione Onu. «La pace è un percorso, cerchiamo di seminare una cultura di dialogo», dice il tenente colonnello Danilo Prestia. Disinnescare la rabbia, la frustrazione, l’odio. Scommettere su Samar sapendo che, come il terreno, anche le coscienze sono minate. «Siamo seduti su una polveriera», ammette il capitano Gianfranco Paglia, veterano dell’Iraq e dell'Afghanistan, costretto sulla sedia a rotelle dopo un attentato che l’ha visto salvare i suoi commilitoni in Somalia. La Folgore sa dai campi della Seconda guerra mondiale che il valore in guerra non basta: servono la fortuna e una politica di pace intelligente.
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