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Il Giornale Rassegna Stampa
21.07.2007 Rilasciati 250 detenuti palestinesi, ma la situazione è ad alto rischio di guerra
L'analisi di Fiamma Nirenstein

Testata: Il Giornale
Data: 21 luglio 2007
Pagina: 11
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Israele libera 250 palestinesi»

Sul GIORNALE di oggi, 21/07/2007, a pag.11, con il titolo " Israele libera 250 palestinesi, Abu Mazen celebra il successo", Fiamma Nirenstein racconta senza peli sulla lingua la reale situazione della società palestinese, come procede il riarmo dei terroristi, le prospettive di pace, paragonate ad una casa nella quale si discute mentre intorno la foresta brucia.

Ecco il pezzo:

Ieri all’alba 255 detenuti palestinesi sono saliti su due autobus con i vetri oscurati, senza sorrisi, con qualche sacchetto di plastica fra le mani, ancora sospettosi che il destino potesse d’un tratto riportarli nel carcere di Ketziot, nel Negev, da cui li ha tratti l’improvvisa svolta del destino del dono di Olmert a Abu Mazen. Fra i prigionieri, tutti sono detenuti dal 2002 fuorché uno, e 102 hanno scontato solo un terzo della pena. Un prigioniero ha chiesto di restare in carcere perché la sua grave malattia abbisogna di cure molto costose che gli vengono pagate da Israele.
Sono tornati a casa, consegnati all’Autorità palestinese presso Ramallah, al chek point di Bitunia, passando per il saluto caloroso di Abu Mazen e dei suoi che li aspettavano alla Mukata. Là, accanto alla tomba di Arafat, si è svolta una cerimonia di benvenuto enfatica nelle parole, ma senza parate e fanfare: da una parte Abu Mazen voleva significare, e l’ha detto, che 255 uomini sono pochi di fronte ai diecimila palestinesi detenuti, dall’altra però voleva dare risalto alla sua capacità di costringere gli israeliani, con la sua personalità, al bene palestinese. Anche quando pochi giorni fa ha ottenuto che Israele abbandonasse la caccia ai ricercati implicati in tante azioni terroristiche in cambio della consegna a lui delle armi (più parlata che fattuale) e dell’arruolamento nel suo esercito degli stessi uomini delle Brigate di Al Aqsa, Abu Mazen cercava lo stesso risultato: dimostrare al suo popolo che tenere per Fatah, e non per Hamas, paga; e più ancora pagherà quando arriveranno a novembre i 190 milioni di dollari per propiziare un summit che dovrebbe rilanciare il ruolo di un fronte moderato efficiente contro l’asse islamista.
Abu Mazen, e con lui dunque gli israeliani, hanno immesso nella lista dei liberati anche una trentina di uomini di Hamas, e due della Jihad islamica, più un 15 per cento del Fronte popolare e altri del Fdlp, gruppi rivoluzionari marxisti. Che Abu Mazen possa garantire la promessa di abbandono del terrorismo da parte dei liberati, è altamente improbabile. Tornano invece alla mente le molte restituzioni di prigionieri operate da Israele: per esempio quella del maggio del 1995, quando ne furono lasciati andare 1.150 fra cui lo Sceicco Yassin, e quella del 2003, 460 consegnati agli Hezbollah in cambio di tre soldati uccisi e di un dubbio commerciante. Molti commentatori sostengono che Hamas si rafforzò assai su quel ceppo e che comunque i terroristi consegnati tornano alle loro attività per circa il 20 per cento.Se accadrà di nuovo, com’è plausibile, sarà forse un altro remake, quello di Ahmadinejad che a Damasco e a Teheran, con una serie di incontri, annuncia la guerra d’estate dell’anno scorso. Ieri, nella calura mediorientale, accanto a Bashar Assad, incontrando anche il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah (per la prima volta da un anno fuori dal suo bunker) e Khaled Mashal, il capo di Hamas, oltre che le altre organizzazioni terroristiche palestinesi, ha annunciato che sarà un’«estate calda» e che spera che il nemico sionista da qui a poco verrà sconfitto. Ahmadinejad ha anche “consigliato” a Hamas e Hezbollah di non procedere a scambi di prigionieri con Israele.
Non conviene alzare le spalle: dopo un primo summit a Beirut nel novembre 2005, il 20 gennaio 2006 una riunione a Damasco cementò l’asse islamista con Ahmadinejad, Nasrallah, Mashal, il capo della jihad islamica Ramadan Abdullah Shalah. Pochi giorni dopo Hamas vinceva le elezioni, e l’organizzazione sente che se la guerra dello scorso anno è stata affidata a Hezbollah, adesso le cose sono diverse.
Negli ultimi due mesi, ha comunicato ieri al governo un alto ufficiale dell’esercito israeliano, con l’aiuto iraniano Gaza ha enormemente avanzato il suo potenziale bellico: le armi importate sono ormai molto sofisticate, con nuovi missili anticarro e antiaereo e con una riserva di katiushe mai posseduta prima. L’esplosivo è aumentato di 20 tonnellate, e gli uomini organizzati in brigate, battaglioni e forze speciali sono 13mila. Commentando queste cifre, il presidente della commissione Difesa del Parlamento israeliano, Zahi Hanegbi, ha detto che un confronto militare con Hamas è «inevitabile». E la scelta di Hamas, mentre sullo stile di Hezbollah scava gallerie e casematte ben nascoste, è quella di organizzarsi in maniera da poter contare su un alto numero di perdite israeliane nel momento in cui Israele si avventurasse dentro Gaza con la consueta remora della guerra asimmetrica: i civili usati come scudi umani.
Insomma, la scelta di rafforzare Abu Mazen, oltre che una scelta di politica internazionale per aprire la strada a Blair e al progetto americano, è un tentativo che si compie dentro una casa che appare agibile mentre intorno la foresta brucia.
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