Walter Laqueur è uno che ne ha viste troppe. Nato nel 1921 a Breslavia, città teatro di alcune delle più violente persecuzioni antisemite del secolo scorso, a diciassette anni raggiunge per vie di fortuna Gerusalemme, mentre i suoi genitori non trovano scampo dalla barbarie nazista. Dopo gli studi universitari e il lavoro agricolo in un kibbutz, Laqueur inizia a coprire i Paesi del Medio Oriente come giornalista. Vede nascere lo stato d’Israele. Frequenta Chaim Weizmann, Ben-Gurion, Golda Meir, e fa esperienza di tutti i problemi relativi alla creazione e al mantenimento di una patria, peraltro non dissimili da quelli che lì permangono ancora oggi, aggravati dal passare degli anni: «Quando mi recai per la prima volta in Palestina - ci racconta - c’erano probabilmente più cammelli che uomini. Nella striscia di Gaza vivevano ventimila persone. Oggi, un milione e mezzo ». Nel 1955 Laqueur si trasferisce a Londra, dove dirige la Wiener Library e fonda con George Mosse il Journal of Contemporary History. Verso la fine degli anni Sessanta inizia a recarsi, in qualità di visiting professor, in diverse università americane: Harvard, John Hopkins, Georgetown, Chicago. I suoi libri sulla storia europea e russa, sul sionismo, l’Olocausto, gli aspetti psicologici del terrorismo, ma anche la sua biografia stessa, gli assicurano fama di studioso capace di raccontare dall’interno i propri argomenti, con l’obiettività propria di chi ha attraversato le tempeste della storia, conoscendone gli eterni, cangianti ritorni, e le irreversibili, specifiche dissoluzioni. Il suo è uno sguardo lucido, mai eccitato, talvolta pessimista, cui è utile fare ricorso quando occorrono analisi geopolitiche veritiere e non propagandistiche. Non a caso Laqueur è membro del Centro Studi Strategici Internazionali di Washington, città dove vive, e dove un mese fa ha pubblicato un libro che ci riguarda da vicino: The Last Days of Europe: Epitaph for an Old Continent (Thomas Dunne Books, pagg. 256, dollari 25,95). È un testo duro ma privo di derive ideologiche. Fosse stato scritto in modo più fragoroso, più enfatico, più polemico, più compiaciuto, finirebbe in cimaa tutto l’apparato mediatico-culturale dei neoconservatori filoamericani, con cui condivide alcune posizioni. Invece è un libro non facilmente strumentalizzabile: epitaffio sì, ma non per l’Europa, che certo non scomparirà, bensì per quel «Vecchio Mondo» che Laqueur e molti di noi hanno conosciuto. Tre sono secondo l’autore le cause del nostro declino: l’immigrazione musulmana coincidente con un inspiegabile calo demografico, la prossima e certa crisi del welfare, il fallimento dell’Unione Europea. Cominciamo allora dalla prima... «Molti musulmani immigrati sono profondamente alienati dalla società che li ha accolti. Nel giro di tre generazioni dovrebbero integrarsi,mami chiedo: abbiamo tutto questo tempo? Perché è vero che molti tra loro, soprattutto giovani, sono attratti dai lati negativi del nostro stile di vita, e non dai nostri valori. Intanto, in alcune regioni i musulmani hanno costituito in pochi anni il 20, 30 per cento della popolazione. I residenti di alcune città dell’Europa occidentale dovranno imparare turco, arabo e urdu allo stesso modo in cui in California si è dovuto apprendere lo spagnolo. Le materie scolastiche andranno riviste». Si tratta di musulmani moderati o queste enclave possono funzionare da serbatoi per il reclutamento di terroristi? «I teologi dell’Islam moderato hanno paradossalmente più influenza sui musulmani del Nord Africa e del Medio Oriente che non su quelli europei. Il problema è che per costruire una campagna terroristica non servono milioni di individui ma poche dozzine. Islamismo radicale e predicatori estremisti sono certo un pericolo, ma ho potuto notare che la religione non è sempre un fattore decisivo. I terroristi non sono necessariamente i più ortodossi, i più pii». Per quanto riguarda la crisi del welfare? «Impossibile mantenerlo così com’è. I benefici andranno ridotti e i lavoratori riceveranno la pensione più tardi. È inevitabile, poiché quando lo Stato assistenziale fu creato la struttura dell’Europa era molto differente. Oggi, oltre che indurre le persone a lavorare più a lungo, si ha un estremo bisogno di immigrati per preservare il welfare: e, come dicevo, non arriveranno da Bangalore o da Shanghai, ma dal Nord Africa e dal Medio Oriente». Un’atmosfera crepuscolare... «Non sono un profeta, ma il declino è visibile, sebbene molti europei si comportino come se vivessero in un parco giochi eterno, un paradiso di faciloni. Vi saranno forse fattori ritardanti, un ritorno della religione o un forte movimento secolare potrà portare un revival, ma non vedo da dove possa venire tutto ciò. Il ruolo dell’Europa nelle vicende globali è molto meno importante che in passato, e in futuro sarà peggio». Per quali ragioni? «L’Europanon ha fatto grossi passi in avanti dalla sua unificazione. Dov’è un esercito europeo? Con l’invecchiamento della popolazione, chi ne farà parte? Dov’è una politica estera europea? Non possiamo più nemmeno parlare, come un decennio fa, di soft power, un potere politico non tangibile ma persuasivo. L’Asia avrà una forza di gran lunga maggiore nelle dinamiche globali dei prossimi anni. Certo, ci sono leader come la Merkel, Sarkozy, Brown, che sembrano energici e ben intenzionati. Ma se parli con molti di quelli che stanno a Bruxelles, per loro va tutto bene: probabilmente non escono per le strade o non visitano una scuola da anni». Riprendendo il titolo di un libro di Frank Furedi appena tradotto in italiano, in mezzo a questa decadenza «che fine hanno fatto gli intellettuali? ». Il loro atteggiamento non è forse troppo remissivo? «Nel secolo scorso gli intellettuali non hanno giocato una parte gloriosa. Probabilmente ci aspettiamo troppo da loro. Senza generalizzare, anche nella cultura ci sono mode che cambiano con velocità. C’era Sartre, e anche Camus. Il primo in politica sbagliava spesso,mavent’anni dopo sono arrivati nuovi filosofi che hanno respinto la totalità della sua visione. Oggi tra gli intellettuali c’è un vittimismo che comprendo con difficoltà.Maanche un rinnovato nazionalismo. Forse un giorno ci sarà un nazionalismo europeo. Ma non lo vedo ancora».
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