Forte come la morte è l’amore. Tremila anni di poesia d’amore ebraica Presentazione di Cesare Segre Traduzioni di Sara Ferrari Belforte Euro 18,90
Leoni, leopardi e gazzelle, e poi volpi, cerbiatti e colombe ma anche cavalli, pecore e capre. Il repertorio degli animali a cui ricorre il Cantico dei cantici, per esprimere l’amore sensuale tra uomo e donna, è davvero sorprendente, quasi da far invidia a uno zoo. Non meno ricca è del resto la flora citata nel più famoso canto erotico della cultura occidentale: gigli, rose, meli, fichi, viti, melegrane, cedro, nardo, croco, cannella…. Per migliaia di anni, i lettori della Bibbia si sono addentrati in questo bestiario ed erbario del desiderio, contenti di perdersi tra le immagini di animali che balenano e poi fuggono, e tra gli effluvi di piante che attirano e stordiscono. Familiare e assieme straniante, vicinissimo per il rigoglio delle metafore, ormai parte del nostro immaginario collettivo, eppure lontano, chiuso nel mistero dell’antica lirica vicino orientale, il Cantico mantiene intatto il suo potere letterario. Nonostante le fatiche di migliaia di studiosi, non sappiamo quando sia stato scritto né chi ne sia l’autore. La tradizione lo attribuisce al re Salomone, sovrano sapiente, edonista e innamorato della vita. Se fosse stato lui a comporre quei versi enigmatici, il Cantico sarebbe vecchio di tre millenni, ma per molti filologi l’opera è di età ellenistica, addirittura del I secolo a.C. Vi risuonerebbero infatti gli echi della lirica dolce di Callimaco e Teocrito e la filosofia dell’amore platonico. Che versi carichi di un così aperto elogio della sessualità siano stati accolti nel canone religioso dell’ebraismo e del cristianesimo aggiunge ancor più all’arcano. E’ vero che la lettura allegorica ne ha fatto un inno al rapporto tra Dio e comunità d’Israele, oppure tra la Chiesa e il Padre celeste, ma resta pur sempre la tensione tra spiritualità trascendente e baci, carezze e amplessi tutti terrestri. Spogliato delle sue vesti mistiche, il Cantico dei cantici apre un raffinato volume di lirica d’amore in ebraico, ben tradotto da Sara Ferrari e arricchito dalla presentazione di Cesare Segre. Dall’antico duetto tra Salomone e la Sulamita ai vagheggiamenti di poeti medievali e ai dilemmi in versi dei giovani autori israeliani, il lettore ha modo di assaporare la varietà del discorso amoroso in lingua ebraica. Dopo il Cantico, si scopre la lirica sefardita del medioevo, cresciuta in simbiosi col mondo arabo e traboccante di estenuata eleganza. Versi torniti, che cantano un mondo multietnico, talvolta segnato da amori interreligiosi: “La luna nell’oscurità riluce/come uno smeraldo sul palmo di una ragazza nera”, canta Shemuel ha-Nagid, poeta, uomo politico e condottiero, mentre Todros Abulafia, colpito dalla grazia di una fanciulla vista per la strada, così si lamenta: “Nella trappola di questa bella figlia d’Arabia son caduto”. Guizzi di grande intensità vengono anche dal Rinascimento italiano. Yosef Tzarfati, medico di papi, descrive il territorio di confine tra consapevolezza e abbandono: “Nella tua immagine si raccolgono tutti i miei pensieri, /e come cera nella tua fiamma si dissolvono”. Con il crearsi della cultura israeliana l’amore trova infine il lirismo di un luogo mentale. E’ un modo nuovo e al tempo stesso antico di far dire al paesaggio l’indicibilità dei sentimenti. “Fosti per me come una terra benedetta”, esclama Lea Goldberg, protagonista di una sorta di sionismo poetico, mentre Yehuda Amichai paragona le battaglie vere a quelle intime con l’amata: “Non in guerra, là non cadrò più,/ma qui e adesso, nella terra del senza:/la terra senza di me e senza di te,/la terra delle colline grigie. Una terra eterna”. E se la normalità del quotidiano è dono quasi sempre precluso in Israele, almeno si lasci ai poeti la normale impossibilità dell’amore.
Giulio Busi Il Sole 24 Ore |