Romanzi 1944-1959 Saul Bellow
A cura di Guido Fink
Mondadori Euro 55
E’ una gioia pensare che ci sono ancora dei piaceri, e dei grandi piaceri, che costano poco e durano tanto (se si rispetta la qualità delicata e bella della carta).
Questo Meridiano, per esempio, che contiene tutti i romanzi pubblicati da Saul Bellow tra il 1944 e il 1959: e quindi da “Uomo in bilico”, ritradotto per l’occasione da Barbara Placido, a “Henderson il re della pioggia”, restituito quasi al suo titolo originale dopo essere stato per tanti anni semplicemente “Il re della pioggia” – mentre il resto dell’opera narrativa di Bellow, da “Herzog” a “Ravelstein” (il suo “testamento”, del 2000), anch’esso, come questo, a cura di un esperto americanista qual è Guido Fink (per i meticolosi, all’appello finale mancheranno tre titoli, The Dean’s December, More ie of Heartbreak e the Actual).
Al prezzo di due thrilleroni da aeroporto, ecco il piacere di quella che Guido Fink, nel suo bel saggio d’introduzione, chiama la “autobiografia indiretta” di Bellow: uno scrittore che ha saputo distribuire le storie e le esperienze della propria vita senza bruciarle (come ammoniva Graham Greene, ben certo del fatto che di vita ce n’è una sola) in una vera e propria autobiografia: ma, appunto, in una sorta di processo indiretto di ricostruzione di un mondo, di modi di sentire, di culture che la lunga vita di Saul Bellow (1915-2005) ha attraversato, in un impasto di lingua, di temi, di personaggi che percorrono e incarnano la storia di un secolo, in una addizione di frasi che formano ciascuna, come ha scritto Philip Roth, “un piccolo romanzo a sé”.
Roth, che in qualche misura è un suo parente letterario, sosteneva anche, a proposito del tono, che Bellow sembrava però “fuori a pranzo”, distaccato. E diceva anche che, assieme a Faulkner, Bellow ha rappresentato la spina dorsale della letteratura americana del ventesimo secolo. Io aggiungerei qualche altro nome, ma non si può dargli torto.
Si chiamava Solomon Byelo, alla nascita, ed era canadese per caso, figlio di una famiglia ebrea russa emigrata poveramente in America. Ma la sua città e il suo townscape e il suo paesaggio civile umano diventerà Chicago, dove si trasferì ragazzino, per essere ribattezzato Saul e, cognome più americano e protettivo, Bellow.
Sarebbe potuto essere uno scrittore compiutamente ebraico, Saul Bellow, perché in casa si parlava yiddish (e per questo Abraham Yehoshua lo chiamò, scherzosamente, uno scrittore traditore). E’ diventato lo scrittore ebreo americano per eccellenza, di un certo ebraismo laico – anche se l’etichetta non gli piaceva -, dichiaratamente di sinistra in gioventù, su posizioni viste come reazionarie nell’età avanzata. E’ stato sicuramente un uomo errante, da una casa all’altra, da una università in cui insegnava per campare a una diversa moglie (cinque), in continuo movimento e tumulto tra divorzi, sensi di colpa, borse di studio, corteggiamenti, premi (il Pulitzer, il Nobel nel 1976, che ricevette, dichiarò, mentre era a letto con Jane Austen e non voleva essere disturbato), viaggi più o meno avventurosi, amicizie (per John Cheever, per Allan Bloom): insomma, fin dai tempi di “Le avventure di Augie March”, e in ogni tappa della sua autobiografia indiretta, calato fino in pieno nella vita quotidiana, che è diventata la materia, filtrata, di cui è fatta la sua voce, il suo idioletto. “La vera letteratura sta in equilibrio fra le impressioni vere e le impressioni fasulle di ciò che chiamiamo vita”, scriveva. Descriveva se stesso e il suo modo di raccontare il mondo: travolgente.
Irene Bignardi
La Repubblica