Il nostro futuro si decide in Iraq intervista allo storico militare Victor Davis Hanson
Testata: Il Foglio Data: 19 luglio 2007 Pagina: 3 Autore: Giulio Meotti Titolo: «BAGHDAD CAPUT MUNDI»
Dal FOGLIO del 19 luglio 2007 un intervista di Giulio Meotti allo storico militare Victor Davis Hanson:
Sul palco un uomo corpulento e baffuto si agita e grida. Nella sala il pubblico indossa la divisa verde del Baath, accompagnando le esclamazioni dell’oratore cugino di Saddam Hussein con frenetiche invocazioni di vendetta. Siamo in una città del nord dell’Iraq, è il marzo 1988. “Non lasceremo in piedi neppure uno dei loro villaggi, li staneremo come topi con le armi chimiche. Li ammazzeremo tutti con i gas. Chi volete che abbia qualcosa da ridire? Forse la comunità internazionale o le Nazioni Unite? Si fottano”. Quell’uomo era Hassan al Majid, noto come “Ali il chimico”, sarà presto impiccato a Baghdad se la condanna a morte sarà confermata in appello. Era stata presa in considerazione l’ipotesi di eseguire la sentenza a Halabja, la città dove Majid tenne quel discorso e dove uccise oltre 5.000 curdi in un solo giorno. Due anni fa venne ritrovata una lista di esecuzioni firmata Majid. “25 marzo 1999: 33 uomini giustiziati. 18 aprile 1999: 31 uomini giustiziati. 19 aprile 1999: 28 uomini giustiziati. 8 maggio 1999: 28 uomini giustiziati”. Detta anche “Lista delle esecuzioni di Bassora”, fu rinvenuta lo stesso giorno in cui l’Iraq aderì al Tribunale penale internazionale. Durante la prima guerra del Golfo, Majid era il governatore del Kuwait occupato. Si ritirò lasciando migliaia di morti tra gli sciiti del sud. Nelle trincee fece seppellire vivi molti soldati sciiti. Assieme ai curdi, li sterminò nell’operazione “Anfal”, la parola che nel Corano indica il saccheggio degli “infedeli”. Perché nell’ideologia arabista del baathismo, curdi e sciiti erano come selvaggina. Interi villaggi curdi rasi al suolo, abitanti inceneriti con i lanciafiamme e sterminati con l’iprite. Alì diede ordine di inzuppare i cumuli di cadaveri con la benzina. C’era la neve sopra le montagne che sovrastano il lago Darbandikhan. Però il vento, a Halabja, quel giorno arrivò solo di sera a liberare l’aria. Secondo il massimo storico militare, vivente, Victor Davis Hanson, che ha legato inscindibilmente la superiorità bellica occidentale non solo alla supremazia economica e tecnologica, ma soprattutto alla disponibilità a combattere per la libertà, la condanna di Majid testimonia la vitale capacità del governo iracheno di scrivere la propria storia. Dall’11 settembre 2001, Hanson è uno degli intellettuali più ascoltati dal vicepresidente Dick Cheney e dall’ex ministro della Difesa Donald Rumsfeld. “Il peggior incubo dei nostri nemici è un governo costituzionale nel cuore dell’antico califfato, circondato da una legge del consenso in Afghanistan, Libano e Turchia”, dice Hanson al Foglio. “Non mi piace il ritornello sulle ‘mie tre settimane brillanti di guerra rovinate dai vostri errori’. E’ la posizione dei politicanti che nel loro idealismo naïf sostennero la guerra per voltarle le spalle non appena la narrativa dei media ha reso impossibile sostenerla. La storia ricorderà una coalizione occidentale che ha deposto un dittatore genocida che aveva ucciso un milione dei suoi e ha cercato di promuovere un governo costituzionale. Non ha preso la terra, non ha toccato il petrolio e le riserve petrolifere irachene sono state liberate dalle estorsioni russe, francesi e baathiste. Ci lamentiamo giustamente del costo in sangue e sacrificio, ma la partita della storia la giudicherà non così feroce. Prendi Okinawa e ogni altra campagna, l’aver combattuto per quattro anni e aver perso in battaglia circa 3.600 soldati è più che inusuale. Ma un eroe non è comunque contemplabile in una cultura pacifista di ambiguità morale”. Hanson ha scritto un lungo saggio per American Spectator su come dopo l’Iraq ci sarà un ritorno al cinismo e il declino del liberalismo militare. “Una tradizione iniziata 2.500 anni fa con l’Atena classica, proseguita con le repubbliche italiane del rinascimento e che ha ispirato le democrazie liberali a sconfiggere fascismo, militarismo giapponese, nazismo e comunismo, sta cercando di porre fine al fascismo islamico. Il militarismo liberale ha facilitato la creazione di liberi governi. L’America dopo la Seconda guerra mondiale ha mandato truppe in Afghanistan, Bosnia, Cambogia, Cuba, Repubblica dominicana, Grenada, Haiti, Iran, Iraq, Corea, Kosovo, Kuwait, Libano, Panama, Serbia, Somalia e Vietnam. A combattere dittatori, oligarchi e autocrati. Gli eserciti americani hanno posto fine alle piantagioni schiaviste, ai campi di sterminio e al Gulag, e reso possibile una nuova Atlanta, una nuova Tokyo e una nuova Berlino”. Hanson teme un ritorno alla postura realista. “Si dirà che dobbiamo fare compromessi con questo mondo anziché cercare di cambiarlo a nostra immagine. Dobbiamo ricordare che il realismo ha provocato l’11 settembre. Il futuro non si chiama Iraq e Afghanistan, ma Ruanda e Darfur, dove la retorica dell’idealismo cresce in proporzione alla mancanza di volontà di usare il potere militare. La crisi degli ostaggi in Iran e l’avvento dell’islam radicale furono predicati con l’idea che dopo il Vietnam l’America non sarebbe intervenuta. Se ci ritiriamo sconfitti dall’Iraq, l’America non sarà più in grado di mandare truppe sul terreno. Gli americani devono ricordare che un governo consensuale al posto di plebisciti è nell’interesse dell’America”. Truppe occidentali hanno già combattuto nelle terre del califfato abbasside: “Entrando nel cuore della Mesopotamia, le truppe americane sono passate vicino a palazzi con nomi enormi: Cunaxa con i 10.000 di Senofonte; Gau gamela, dove Alessandro devastò l’esercito imperiale persiano; e Carrae, dove il triumviro romano Crasso perse 45.000 uomini. La Mesopotamia è sempre stata un posto pericoloso per gli occidentali. Eppure gli americani hanno abbattuto il peggior dittatore del mondo e piantato i rudimenti della società liberale nel cuore del califfato, offrendo un’alternativa all’autocrazia e alla teocrazia. La cultura che i nostri soldati si sono trovati di fronte è orwelliana, una società terrorizzata da un omicida di massa che governò con collaborazionisti sunniti, sciiti e curdi che speravano solo che ne uccidesse il meno possibile dei propri. La liberazione del mondo arabo proviene dalla tolleranza di altre fedi, dalla libertà d’espressione e dalla fine del tribalismo che pone un cugino sopra stato e società. E’ quanto vedremo nei prossimi cinquant’anni attraverso l’insediamento di governi costituzionali nei paesi chiave e l’abbattimento del nichilismo petroldollaro che potrebbe, con armi nucleari, minacciare la stabilità dell’ordine mondiale”. Hanson è stato in Iraq dopo l’invasione. “Non ho visto americani confusi con la loro tecnologia, expertise, organizzazione ed entusiasmo in una cultura antica e tribale. E’ una facile caricatura. Ciò che mi ha colpito è il contrasto fra gli americani dei suburb e l’orrore delle condizioni in cui devono combattere, e la fiducia che hanno investito nelle forze della libertà, del pluralismo e del modernismo. E’ un’impresa un po’ naïf, audace e nonostante lo scetticismo sofisticato dei suoi critici, non è affatto fallita. Mi ricorda il motto del Dr. Johnson sul cane che danza su due zampe: la meraviglia non è che sia stato fatto male, ma che sia stato fatto”. Tank, aerei e droni non erano in grado di combattere i terroristi nascosti nelle case. “Di fronte a una perdita, abbiamo reazioni diverse. La morte violenta è comune in medio oriente, non in occidente. I terroristi credono che la vita sia enormemente buona in occidente, basano il successo su un’aritmetica asimmetrica: uccidere qualcuno di noi anche se comporta la morte di tanti di loro. Tutto ciò che fanno i nostri soldati è soggetto alla giurisprudenza e alla censura etica. I nostri generali sono più spaventati dai media che dal nemico. Nel processo della ricostruzione, gli americani sono responsabili di elettricità e acqua. I jihadisti vincono distruggendo, abbattere è più facile che costruire. Odiano la democrazia, amano uccidere e decapitare, questo ha dato una chiarezza morale alla nostra guerra. Ma non è possibile aprire un quotidiano e non leggere niente di positivo sull’Iraq, evento rivoluzionario del nostro tempo. Milioni di musulmani salvati in Afghanistan, Bosnia, Kosovo, Kuwait, Somalia e Iraq non significano niente. Un Corano vandalizzato diventa tutto. L’uomo occidentale moderno ha di fronte un dilemma: la pace è in diretta proporzione con il grado di umiliazione inferto al nemico. Non portare a termine la sconfitta della Guardia repubblicana di Saddam nel 1991 o fuggire dall’assedio di Fallujah del 2004 assicura soltanto che un numero maggiore di cadaveri vada ad assommarsi più tardi. Fallujah è una delle peggiori decisioni militari dal Vietnam. Quando inizi qualcosa di simile, crei una profezia che si autoavvera”. Dagli elicotteri di Saigon al ritiro da Fallujah, l’occidente postmoderno non sostiene più questo genere di “interventi”. “Il cinismo occidentale ha perso la capacità di spiegare ciò che è l’occidente e perché è meglio delle alternative. I soldati sarebbero morti invano? Assolutamente no. I due peggiori regimi della regione sono scomparsi da Iraq e Afghanistan. C’è la possibilità che qualcosa di migliore e di unico prenda vita dove terroristi e teocrati un tempo massacravano. A milioni hanno votato in Iraq nonostante un pericolo enorme. Se falliamo e ci ritiriamo nel primo teatro di sconfitta dalle Filippine del 1942, i jihadisti saranno all’offensiva in tutto il medio oriente, i riformatori saranno uccisi, ostracizzati e silenziati. Non mi spaventa solo l’Iraq, ma la grande questione se l’occidente postmoderno abbia la capacità e la volontà di sconfiggere politicamente, eticamente e militarmente il parassita jihadista”. E’ folle essere ottimisti sull’Iraq? “Al Qaida, saddamiti, mahdisti e wahabiti creano caos, ma il governo eletto è ancora lì, unico sistema costituzionale del medio oriente. Il generale David Petraeus non deve fermare la violenza, ma qualcosa di peggiore: la percezione della violenza, i jihadisti lo comprendono meglio di noi. I generali Ulysses Grant, Curtis LeMay e George S. Patton hanno tutti fatto la differenza dopo predecessori che avevano fallito. E come in tutte le guerre, il campo di battaglia sarà decisivo”. Abbandonare il campo prima del tempo sarebbe catastrofico. “Un governo eletto è rimasto al potere sotto una Costituzione più liberale di qualunque altra nel mondo arabo. I nostri nemici, come al Qaida, Iran e Siria, osservano da vicino se l’America tradirà i suoi principi in Iraq. Il governo iracheno aiuterà a pulire il miasma in cui si muove al Qaida. Curdi e sciiti ci appoggiano per evidenti ragioni, nessun altro governo al mondo rischierebbe figli e figlie per dare loro diritto di voto. L’ironia è che mentre il New York Times chiede il ritiro, i capi tribù sunniti stanno combattendo i terroristi e i vicini regionali stanno gradualmente accettando che la loro assistenza opportunistica ai jihadisti stia minacciando i loro stessi regimi. La guerra per rimuovere Saddam è stata vinta, è seguita la guerra per il futuro del medio oriente”. Conflitti meno epocali come Messico, Filippine, Corea e Vietnam hanno fatto più morti dell’Iraq. “Migliaia di morti seguirono all’attacco confederato a Shiloh, a Pearl Harbour e a quello tedesco sulle Ardenne. La guerra per stabilizzare la fragile democrazia dell’Iraq è un business serio, costoso e controverso. Come tutti i conflitti della storia americana. Abbiamo bisogno di maggiore umiltà e conoscenza del passato. Gli americani devono ricordare che c’è qualcosa di peggio della guerra. Stalin, Hitler e Mao hanno ucciso più lontano dai campi di battaglia di quanti ne siano morti nelle guerre mondiali. Cambogia, Bosnia e Ruanda sono state possibili perché non c’erano truppe vicino ai massacratori. Come è possibile che il paese che è scampato a Pearl Harbour, Monte Cassino, Anzio, Iwo Jima, Okinawa, Hue e Tet sia arrivato alla conclusione che l’Iraq, come ci ricordano i democratici, è il ‘peggiore’ ‘disastro’ dell’‘intera’ storia americana? Abbiamo fatto 7.000 miglia per rimuovere un dittatore e far crescere la democrazia nel cuore del califfato. E sostituire un pazzo con un elettorato”. Dopo cinque anni di combattimenti l’America ha due scelte: “Ritirarsi e tornare a bombardamenti punitivi o continuare a cambiare la politica del medio oriente. Questa seconda prevede che i soldati entrino nella zolla schifosa dei jihadisti, ma con regole umanitarie. Reagan, Clinton e Bush senior non rischiarono niente, se ne andarono da Beirut, Mogadiscio e Baghdad. Abbandonare il Libano, fuggire dalla Somalia e volare sui cieli di Saddam per dodici anni ha dato un’immagine incerta dell’America. George W. Bush ha scommesso tutto andando in Iraq e Afghanistan. Prosperità, sicurezza e libertà suonano a morto per l’islam radicale. E’ così semplice. Bin Laden e Al Zawahiri continueranno a volere il califfato in Iraq e Afghanistan e possono essere sconfitti solo da società che eleggono i propri leader e vivono dei loro risultati”. Prima che i soldati americani entrassero in Iraq, c’era la dittatura dei tanti Alì il chimico. Ora, dopo tre elezioni, c’è il primo governo indigeno eletto della storia del medio oriente. “Migliaia di iracheni sono stati uccisi nello scontro settario, ma altre migliaia erano morti in silenzio sotto Saddam, senza la speranza che il loro sacrificio potesse portare a quei passi che noi abbiamo fatto”. Gli Stati Uniti non erano cinici sui loro sforzi: “Non un barile di petrolio è stato rubato e i democratici, non i dittatori, sono stati promossi. Ci siamo appellati al popolo del medio oriente, senza negoziare con un mullah Omar o Saddam. In un’era di opulenza e di sicurezza nella storia della civiltà, la vera domanda è: gli Stati Uniti, come ogni democrazia occidentale, possiedono la capacità morale di identificare il male come male e la volontà di combatterlo e sradicarlo? E’ questo in ballo in Iraq. La nostra volontà di usare la forza per eliminare riserve di assassini, in Iraq come altrove, è un referendum sulla stessa democrazia moderna. Per questo quelle poche migliaia di soldati determineranno il nostro futuro collettivo”.
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