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La Stampa Rassegna Stampa
17.07.2007 La morte di Calipari. Uno specialista di sequestri americano accusa l'Italia
l'intervista di Lucia Annunziata

Testata: La Stampa
Data: 17 luglio 2007
Pagina: 17
Autore: Lucia Annunziata
Titolo: «Calipari? La colpa fu degli italiani»
Dalla STAMPA del 17 luglio 2007:

Quando - era il 31 marzo del 2004 - quattro bodyguard americani vennero sequestrati nella città di Fallujah, linciati, i loro corpi bruciati, smembrati, esposti infine sulla struttura di ferro del ponte che in quel punto attraversa con un’ampia falcata il fiume Eufrate, Washington decise che era arrivato il momento di mettere in piedi una squadra che si occupasse solo di rapimenti. Mai decisione fu più tempestiva. Quella primavera del 2004 sarebbe sbocciata in anni di sequestri: da allora sono stati rapiti in Iraq 200 stranieri - di cui 30 uccisi - e migliaia di iracheni - tutti a noi sconosciuti.
Gli specialisti di Washington arrivarono quietamente e quietamente misero su una piccola struttura al servizio dell’ambasciatore Usa in Iraq. L’Hostage Working Group, come venne battezzato il team - ancora operativo - seguì negli infuocati mesi successivi lo stillicidio di morti e liberazioni. «Tante brutture», ma nessuna, come racconta oggi uno degli uomini, che in quelle operazioni ha avuto responsabilità nel 2004 e nel 2005 ed è oggi a Washington in attesa di ritornare in Iraq, ha lasciato tanto il segno quanto il rapimento e la tragica liberazione di Giuliana Sgrena. Esce oggi dall’ombra, questo uomo, proprio per tornare sul caso, dicendo la sua verità di testimone di prima mano, per chiedere agli italiani «di cercare di capire bene cosa successe e salvare un soldato americano, sulle cui spalle è troppo semplice scaricare tutto». Il colloquio avviene in un qualunque Starbucks - la catena di negozi che ha reso popolari e americanizzati caffè e cappuccino - in uno dei tanti shopping mall in Virginia. L’accordo è che il suo nome non sarà reso noto ai lettori - ma, come consuetudine, è stato comunicato al direttore de La Stampa.
Ritorniamo a quella primavera del 2004. Nella sua mente la data è segnata proprio dagli italiani - il 13 aprile vengono infatti rapiti Agliana, Cupertino, Quattrocchi e Stefio. Spariti quasi insieme a un giovane americano, Nick Berg, che diverrà il primo decapitato (e in video). Il lavoro del team sugli ostaggi si muove a livelli molto riservati: «Si fa leva sulle informazioni che a tutti i livelli si possono avere, dall’esercito, dagli operativi, dai colleghi stranieri, dai diplomatici… non è un gruppo di lavoro ma una rete». Dice proprio così: rete, è anche la traduzione di Al Qaeda. Il caso degli italiani è la prova del fuoco per il gruppo: «Li liberammo insieme a un polacco». Fu una operazione perfetta «in cui raggiungemmo un impeccabile livello di coordinamento con l’ambasciatore italiano De Martino, e vite americane vennero messe a rischio, pur di salvare gli ostaggi. Non ci domandammo di che nazionalità erano». Un moto di impazienza sottolinea queste parole, facendo precipitare direttamente il discorso nella ragione per cui siamo in questo Starbucks: «Cosa è successo poi? Cosa ha trasformato questa cooperazione nella tragedia che abbiamo tutti vissuto?». Prende tempo, un sorso d’acqua: «Non posso dire che non ci dormo la notte, ma posso dire con onestà che questa domanda mi ritorna continuamente in mente…», altro sorso d’acqua, «… specie ora che un soldato americano è davanti a un tribunale senza averlo meritato».
Le stesse domande esplodono nel quartier generale degli americani quella notte in cui Calipari venne ucciso: «Choc. E’ l’unica parola che ho per descrivere l’impatto che ebbe la notizia: una macchina si muove nella notte, non si ferma, le istruzioni dicono che in quel caso si spara… immaginate cosa significa trovare poi non il corpo di un terrorista ma di un uomo del governo italiano… Come è possibile che sia successo?». Appunto: come è possibile? E’ la domanda - faccio presente - che ancora avvolge la vicenda anche in Italia. C’è una spiegazione che almeno lui, i suoi colleghi, si sono dati? «Mancanza di coordinamento. Null’altro che questo. Una tragedia nata dal fatto che noi non ne sapevamo nulla», è la risposta ferma. E’ la versione che da sempre danno gli americani, rafforzata dal fatto che il nostro interlocutore parla per esperienza diretta. Segue da vicino infatti anche l’inchiesta successiva. Ed è proprio in questa seconda fase che, ai suoi occhi, si fa chiaro il comportamento ambiguo degli italiani: «Avrebbe dovuto essere una inchiesta congiunta: poi, mano mano gli italiani si sono tirati indietro. Man mano che si rendevano conto che l’inchiesta li esponeva». Esponeva in che senso, a cosa? «Ma esattamente alle domande che ancora tutti ci facciamo! Quali sono state le circostanze della liberazione della Sgrena, come ci si è arrivati, perché non eravamo stati informati, perché soprattutto non erano andati all’ambasciata e avevano deciso di andare nella notte all’aeroporto? Cosa avrebbe risposto il governo italiano a queste domande in una versione congiunta? Sono ancora curioso di saperlo».
Ma quali sono le dimensioni della mancata cooperazione? Dove comincia e dove finisce? Il gruppo sugli ostaggi durante il rapimento di Sgrena tiene tutti i contatti con gli italiani: «Seguivamo attentamente il caso: sapevamo che era da pagina uno in Italia». Vuol dire che il governo italiano da una parte teneva i contatti e dall’altra vi nascondeva cosa faceva? «Esatto: il governo italiano operò su un doppio binario». Un dettaglio tuttavia rivela almeno un contatto fra Calipari e gli Usa quel giorno: Calipari arriva a Baghdad in aereo e per atterrare ha bisogno come tutti del permesso degli americani; pare inoltre che fosse accompagnato da un uomo dell’esercito Usa: è andata così? «Corretto». Allora non è del tutto vero che gli americani non sapessero nulla? «Il mondo, questo mondo, è pieno di gente che va in giro dicendo che fa una cosa e ne fa un’altra. Noi non eravamo informati di cosa Calipari venisse a fare». Una vera e propria trama di doppio gioco, dunque. L’uomo scuote la testa: cosa ha portato a questo pericoloso passaggio? Avrà analizzato, dopo tutto questo tempo, le ragioni…. «Io non ho una analisi: ho una opinione precisa», interrompe. «Tutto alla fine si riduce a un grande Ego, l’uomo che è venuto qui lo ha fatto perché pensava di poterlo fare… e se questo era funzionale a far avanzare una carriera, molte carriere, o la politica del governo, non so e non sarò mai in grado di saperlo. Ma questo è il punto». Il punto, arriva, infine: «C’è stata troppa politica in questa storia: una inchiesta che avrebbe potuto far ammettere errori fra alleati, è stata invece rapita da interessi politici. Quello che è stato un dramma è divenuto uno scontro politico. Con una differenza: che Calipari è morto, ma il giovane soldato è ancora vivo, e per lui forse si può trovare una via d’uscita». Dovremmo allora, noi italiani, rinunciare a stabilire ogni responsabilità? «Il governo italiano dovrebbe riaprire questo caso, guardarci bene dentro. Capisco che gli italiani abbiano bisogno di qualcuno a cui accollare la responsabilità. Lo farei anche io. Ma è troppo facile mettere sulle spalle di un giovane soldato americano una grande tragedia come quella avvenuta».
Mancano - obbligatorie - solo un paio di domande. Pensa che il centro sinistra oggi al governo in Italia aiuterà un chiarimento del caso? «Non è mia intenzione entrare nel merito della politica». E’ consapevole che il generale Pollari, il capo del Sismi, non è più al suo posto? «Certamente».

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