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Pubblichiamo un articolo apparso su Il Sole 24 ore domenica 15 luglio a firma Giulio Busi intitolato “Ai confini della tradizione”.
Chi sono i più influenti pensatori capaci di conciliare le culture? In Israele i portavoce più accreditati, quasi istituzionali, sono scrittori come Oz, Yehoshua e Grossman.
Tradizione gelosa della propria autonomia, e anzi chiusa in un senso quasi tribale di superiorità. Oppure identità aperta, dai confini fluidi, in continuo scambio con le culture limitrofe. La polemica sulla vera natura del giudaismo è vecchia di almeno tre millenni e non accenna ad acquietarsi. Tra questi due estremi si colloca una scala di sfumature, di toni intermedi che rappresentano il vissuto e la vera ricchezza di un’esperienza religiosa in perenne divenire.
Probabilmente la capacità creativa dell’ebraismo nasce proprio dalla contraddizione irrisolta tra spinta all’autosufficienza e desiderio-necessità di osmosi. Verrebbe da pensare a un modello a cerchi concentrici, il cui centro è costituito da un nucleo di ortodossia, che insiste sulla specificità ebraica, mentre la circonferenza più esterna rappresenta l’identità marginale, fatta di ebrei-non-ebrei, che si allontanano dal loro gruppo per assumere atteggiamenti e valori dell’ambito maggioritario. Ma anche un simile grafico è in realtà troppo semplice per catturare tutte le oscillazioni di una religione-nazione capace di sopravvivere dall’età antica fino all’era della globalizzazione.
Non è raro che gli intellettuali più abili nel confrontarsi con temi non giudaici provengano dal fulcro ortodosso, anche se è indubbio che dai territori liminali sono giunti nel corso dei secoli alcuni dei progetti conoscitivi più audaci.
Dai margini, e addirittura dopo essere stato scomunicato, Baruch Spinoza condusse, a metà del Seicento, l’avventura che ne avrebbe fatto uno dei fondatori della modernità. Certo, non si può definire l’autore del “Trattato teologico-politico” un maestro dell’ebraismo, ma senza una conoscenza approfondita di Maimonide e del misticismo cabalistico e senza un’acuta sensibilità per le aporie e le ansie della conditio judaica, Spinoza non avrebbe mai scritto quel libro né avrebbe potuto rovesciare dalle fondamenta il gran edificio della tradizione.
Per uno Spinoza che si allontana consapevolmente dal giudaismo senza voltarsi indietro, ecco Moses Mendelssohn, l’iniziatore dell’illuminismo ebraico del Settecento, che rimane fedele per tutta la vita all’osservanza ortodossa dei precetti. Forse più ancora del filosofo di Amsterdam, Mendelssohn incarna una rielaborazione creativa di elementi essenziali della cultura dominante, come la separazione tra Stato e Chiesa, e segna, anche al di là delle proprie intenzioni, un punto di passaggio tra vecchio ebraismo dell’età del ghetto e nuovo giudaismo assimilato.
Spinoza, Mendelssohn e poi, scendendo lungo il corso dell’Otto e del primo Novecento, intellettuali sempre più laici, come Heinrich Heine, Sigmund Freud, Edmund Husserl, Henri Bergson, Franz Kafka, Albert Einstein, per non citarne che pochi.
Sono protagonisti che non si limitano a dialogare con l’occidente, ma diventano essi stessi occidente, impersonano cioè la parte migliore e più inquieta di un’Europa che cerca se stessa. Dietro a ciascuno di questi nomi c’è un giudaismo diverso, spesso sfrangiato e in crisi, oppure ritrovato tardivamente e difeso con un tormentato sentimento di lealtà.
Se l’Europa contemporanea scopre di aver bisogno del dialogo, come rimedio ai conflitti aperti e a quelli latenti, il giudaismo può estrarre dalla propria storia un campionario quasi infinito di dialoghi reali, immaginari, interrotti, falliti e poi insperatamente ripresi. Spesso con un buon tasso di illusione, nella convinzione che l’interlocutore ascolti, anche quando dall’altra parte nessuno vuol prendere sul serio le ragioni di una minoranza tanto intraprendente quanto vulnerabile. Gershom Scholem definì più volte “auto illusione” l’incapacità degli ebrei tedeschi di capire che la maggioranza cristiana non era disposta a discutere alcunché. Anziché un confronto impossibile, in un Vecchio continente sfigurato dall’antisemitismo, la salvezza fu allora per Scholem e per gli altri sionisti la palingenesi di un nuovo Stato e di una ritrovata indipendenza. Il naufragio degli ebrei di Germania, che erano stati il più grande motore di dialogo interculturale dell’età moderna, ha dato ragione al radicale pessimismo sionista. Allo stesso tempo, non c’è forse realtà più bisognosa di spiegare e di spiegarsi dell’Israele contemporaneo. Più che ai filosofi, l’ambasceria sembra affidata oggi agli scrittori.
Alla triade dei più famosi – David Grossman, Amos Oz e Abraham B. Yehoshua – è riconosciuto un ruolo quasi istituzionale di portavoce del desiderio di pace e di un accordo ragionevole con gli antagonisti palestinesi. Non c’è dubbio che, dopo il fallimento di Camp David del 2000, gli argomenti di questa ragionevolezza abbiano subito una parziale eclissi, quasi che il pacifismo, o meglio il suo problematico equivalente israeliano, fosse una luna offuscata se non del tutto tramontata. “Ci sarà un compromesso, una spartizione, una soluzione con due Stati. Ne saremo contenti? No. Sarà una soluzione sicura? Probabilmente no, ma è l’unica soluzione possibile”. In queste parole di Amos Oz risuona un minimalismo rassegnato ma pragmatico. Eppure, anche così poco sembra irraggiungibile, se misurato con l’attuale livello del confronto politico e militare.
Ancora più allergica agli ideali, post-sionista e almeno in apparenza disimpegnata, è la generazione dei più giovani. Se imbastisce un dialogo non lo fa partendo dalla teoria ma, per esempio, scrivendo un libro a quattro mani, come quello pubblicato da Etgar Keret con il palestinese Samir El-Yousef. “Non volevamo firmare un’altra inutile petizione – racconta Keret – ma raggiungere lettori che, per ciascuno di noi due, sarebbero stati inavvicinabili. Possiamo forse cercare di rendere le due parti del conflitto più umane, in una situazione in cui è così facile disumanizzarle entrambe”.
Keret, che, assieme alla moglie Shira Geffen, ha appena vinto
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