Un'intervista all'ex ministro della Difesa israeliano Amir Peretz sulla guerra in Libano:
GERUSALEMME - Amir Peretz ha pagato con le dimissioni da ministro della Difesa e la perdita della leadership del partito laburista il fallimento dell´avventura libanese. Tuttavia, un anno dopo, Peretz resta convinto che la decisione di attaccare gli Hezbollah su larga scala fu corretta. E se nella conduzione del conflitto l´esercito ha mostrato gravissime deficienze, ciò fu dovuto ad un «processo di erosione» cominciato con il ritiro unilaterale dal Libano nel maggio del 2000 e durato sei anni, Ma come fu presa la decisione di andare alla guerra? Sembra che si sia trattato di qualcosa d´improvvisato.
«Assolutamente no. Tsahal è l´unico organismo che deve avere piani pronti per l´attuazione in tempo reale e quando succede qualcosa non può cominciare a pensare come si debba reagire. Nelle due settimane precedenti si erano verificati alcuni incidenti che si doveva intraprendere un´azione molto più vasta. Così è stata autorizzata un´operazione di proporzioni più ampie.
Nel libro "Prigionieri in Libano" Ofer Shelach e Yoav Limor, però, sostengono che gli 84 obiettivi di Hezbollah, definiti nel corso degli anni dall´esercito israeliano, sono stati tutti colpiti nei primi quattro giorni di guerra. Israele ha dunque sbagliato a non fermarsi dopo quattro giorni?
«Ritengo che se avessimo ottenuto una vittoria chiara e decisiva, dopo l´attacco massiccio di obiettivi molto significativi, sia nel Libano meridionale, sia a Beirut, minando l´influenza di Hezbollah, tutti avrebbero lodato la brillante operazione. Ma non si può colpire solo la metà dei missili a lunga gittata, lasciando il resto operativo. Ci si ferma dopo il raggiungimento di un nuovo equilibrio: quando si è raggiunta una chiara vittoria militare o dei nuovi accordi. Penso che la seconda guerra del Libano abbia cambiato in maniera drammatica la situazione del fronte settentrionale, senza tenere conto del fatto che è stata una guerra che ci ha aperto gli occhi. Oggi siamo molto più preparati e sappiamo molto meglio che cosa dobbiamo fare, su tutti i fronti».
Non ha l´impressione di essere stato l´unico uomo politico ad aver pagato il prezzo di questa guerra?
«Spero che il pubblico possa giudicare. Non intendo fare i conti con nessuno degli altri politici, ma ho una richiesta: che vengano tratti gli insegnamenti e le conclusioni da questa guerra e che l´esercito sia preparato per le prossime».
Di seguito, la cronaca di Alberto Stabile sul Libano. Corretta nel descrivere la sfida dei gruppi islamisti alla sovranità libanese, non è priva di falsità o imprecisioni quando rievoca la guerra dell'agosto 2006.
Non è vero che l'artiglieria israeliana abbia "ridotto in frantumi " il Libano. E la guerra è scoppiata per il sequestro dei due sodati israeliani, ma anche per il continuo lancio di razzi katiuscia.
GERUSALEMME - Una tregua carica di cattivi presagi domina lo spazio geografico tra Beirut e la Galilea, che esattamente un anno fa, e per un mese, fu teatro di un conflitto intenso e feroce, la cui unica ragione per essere ricordato nei libri di storia è di aver mancato tutti gli obiettivi che le forze in campo, Israele e gli Hezbollah, gli avevano assegnato. Anzi, per certi versi, se si guarda al Libano, il vaso di coccio sballottato tra due potenti nemici e ridotto in frantumi dall´artiglieria israeliana, si può dire che la guerra d´estate, sotto altre forme e con diversi protagonisti, continui ad infierire sul fragile regime democratico libanese.
Nel Nord del paese, a una dozzina di chilometri dal confine siriano, nell´inquieta regione di Tripoli, nel campo profughi di Nahr el Bared, dimenticato da Dio e dagli uomini, una banda jihadista che si ispira ad Al Qaeda, ma pretende di dettare la linea della guerra santa anche al popolo palestinese, e per questo è chiamata Fatah al Islam, conduce da 53 giorni una sua guerra senza senso e senza speranza contro uno Stato, il Libano appunto, arbitrariamente considerato il simbolo e il concentrato delle nefandezze dell´intero occidente.
E da 53 giorni l´esercito libanese, che la comunità internazionale ha deliberatamente mantenuto in stato di minorità, salvo poi accusare il Libano di non saper esercitare la propria sovranità contro le molte formazioni armate che ne affollano il territorio, si dissangua nel tentativo di arrestare i jihadisti di Fatah al Islam e trascinarli davanti a un tribunale. Compito non facile, perché qualsiasi azione repressiva presenta il rischio di far estendere la rivolta agli altri campi profughi, che ospitano 250 mila palestinesi.
Anche ieri quattro militari dell´Armee sono stati uccisi dai cecchini di Fatah al Islam, appostati nella kasbah di Nahr el Bared, proprio nel momento in cui, secondo una fonte ufficiale poi smentita da un´altra fonte ufficiale, nell´eterna incertezza delle versioni tipica di questo paese, l´esercito s´accingeva a sferrare l´attacco finale al campo, naturalmente dopo aver completato l´evacuazione della popolazione civile non coinvolta nei combattimenti. Almeno 91 sono i soldati uccisi dall´inizio delle ostilità, contro 75 miliziani e 44 civili. Cifre che, da sole, dicono molto sullo stato d´efficienza dell´esercito libanese.
Ma ammesso (e non concesso) che prima o poi l´Armee riuscirà ad avere la meglio sui miliziani, fra i quali figurano sauditi, algerini, tunisini, insomma, la solita rappresentanza dell´internazionale del terrore, riuscirà il premier eletto Fouad Sinora a domare gli altri focolai d´incendio divampati prima e dopo la guerra d´estate? E, soprattutto, riuscirà a mitigare l´intransigenza e la baldanza degli Hezbollah che, affiancati da una schiera di squallidi comprimari nostalgici del vecchio regime filo-siriano, ancora cingono d´assedio il Gran Serraglio minacciando di ridurre il Paese alla paralisi come e quando vogliono?
Con l´apparente, calcolato distacco che li distingue quando parlano delle cose del mondo, i dirigenti del Partito di Dio sembrano aver scelto di non enfatizzare più di tanto la «vittoria divina» che un anno fa decantarono fino alla noia. Tutte le volte che l´esercito libanese o l´Unifil schierato lungo il confine con Israele hanno intercettato armi dirette o appartenenti alla guerriglia sciita, loro hanno negato d´esserne i destinatari o i proprietari.
Il numero 2 del partito, Naim Kassem, ha però ammesso ieri che «Hezbollah è oggi più forte di un anno fa». E sulla sorte dei due soldati israeliani presi in ostaggio il 12 luglio 2006, Ehud Goldwasser ed Eldad Regev, sequestro da cui scaturì la guerra, non ha voluto spendere una sola parola.
Ma dietro quest´immagine di forza tranquilla e sicura di sé che Hezbollah cerca di accreditare c´è un contenzioso tuttora aperto con quella parte della società libanese non disposta ad accettare come un dato di fatto irrinunciabile l´esistenza di questo stato nello stato, o meglio, dell´anti-stato sciita. Anche se si autolegittima come «forza nazionale libanese», impegnata nella resistenza armata contro l´«occupazione israeliana», Hezbollah, in quanto espressione del regime iraniano, è una pedina nel grande gioco mediorientale tra l´Iran, gli Stati Uniti, Israele e la schiera dei paesi arabi moderati. Con buona pace della questione palestinese.
La guerra che passerà alla storia dello Stato ebraico come «l´unica guerra che Israele non ha vinto», anche se nessuno pensa che l´abbia persa, è stata il frutto di una «scelta giusta», ha detto ieri il premier Olmert, visitando le cittadine al confine bersagliate, un anno fa, dai razzi katyusha. Non più incline ad adoperare i toni alla Churcill che usò in un discorso alla Knesset nel bel mezzo del conflitto, Olmert ha citato come un successo l´allontanamento degli Hezbollah dalle zone di confine. La minaccia, dunque, è stata rimossa. Ma sono i servizi segreti israeliani a far sapere che, in realtà, i miliziani del Partito di Dio si stanno riarmando segretamente.
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