Un pessimo consigliere loda i cattivi consiglieri di Tony Blair un articolo di Janiki Cingoli
Testata: Europa Data: 13 luglio 2007 Pagina: 1 Autore: Janiki Cingoli Titolo: «I dieci e Tony Blair»
Janiki Cingoli, in un editoriale pubblicato da EUROPA il 13 luglio 2007 lodala lettera dei 10 ministri degli Esteri dei "paesi europei mediterranei". Per Cingoli è necessario "fare i conti con la realtà palestinese quale essa è", e dunque trattare con Hamas anche se non riconosce il diritto di Israele all'esistenza e non rinuncia al terrorismo. Nonostante ciò, Cingoli asserisce di condannare "le posizioni oltranziste della formazione islamica". Una condanna che deve però rimanere senza conseguenze pratiche e che suona perciò piuttosto ipocrita.
Ma le posizioni di Cingoli sono ormai note. In questo articolo non c'è in realtà nulla di nuovo. Di nuovo c'è il contesto. Ora anche Abu Mazen chiede di isolare la golpista Hamas. E Cingoli, in nome dell'assioma per cui si deve parlare con tutti, anche con chi ti vuole soltanto uccidere, critica anche Abu Mazen.
Il ruolo di Israele, come da copione, è per Cingoli quello di cercare di approfittare della situazione in modo miope. A Gerusalemme, secondo l'analista, nessuno vuole mai davvero la pace.
Cingoli dunque, conferma sia la sua indulgenza verso il terrorismo sia i suoi pregiudiz iverso Israele.
Ecco il testo:
La nomina di Tony Blair a inviato speciale del Quartetto per il Medio Oriente ha destato molte controversie. Controversie legate al suo passato allineamento agli Usa nel conflitto iracheno. Tuttavia il leader britannico ha una grande autorità, anche verso l’alleato americano, e una profonda conoscenza della realtà di quell’area, e ha sinceramente a cuore il destino di quei popoli. Egli ha saputo in passato trovare la strada di un’iniziativa verso tale crisi marcata da una consonanza strategica con gli Usa, lontana dalle velleità alternativistiche della Francia, ma anche da una notevole capacità di ricavare spazi di intervento mirati, specifici e positivi. La lettera inviatagli dai dieci ministri degli esteri europei, può rappresentare un contributo vero, per restituirgli uno spazio di mediazione e di intervento che non parta dall’approccio minimalista, che ha caratterizzato in tutti questi anni l’approccio di Solana, il rappresentante della Ue. La lettera, inoltre, è venuta a squarciare quel tenue velo di ottimismo vagamente surreale che accompagnava le dichiarazioni della comunità internazionale, dopo il colpo di forza di Hamas, a Gaza, e che in larga misura ha accompagnato anche la recente missione di Prodi in Medio Oriente. La pace sembrava aleggiare nell’aria, come una bolla di sapone iridescente e leggera, destinata però a scoppiare lasciando solo un po’ di schiuma. Tutti si congratulavano con tutti, moltiplicavano le dichiarazioni di buona volontà e di fede nella pace, di impegni ad andare avanti, facendo finta di ignorare che ogni sostanziale progresso è bloccato finché persiste la attuale situazione interpalestinese e la attuale disposizione della leadership israeliana. Infatti, malgrado tutte le assicurazioni di Abu Mazen, la pace in Medio Oriente non si fa solo con Al Fatah, ignorando Hamas. E non si fa abbandonando Gaza al suo destino, e occupandosi solo della Cisgiordania. Per primo Abu Mazen non potrebbe accettare di essere un presidente a metà. La lettera dei dieci sottolinea d’altronde quanto hanno ripetutamente ribadito al presidente dell’Anp i maggiori leader arabi, e la stessa Lega araba, in occasione del recente Vertice di Sharm el Sheikh, in Egitto: la richiesta è quella della riapertura dei contatti tra Al Fatah e Hamas, per una riedizione del governo di unità nazionale. E il fatto che Abu Mazen abbia fin qui respinto l’invito è stato probabilmente tra le cause non secondarie per cui, malgrado l’accaduto, egli non è stato ancora ricevuto dal re saudita Abdullah. Si comprende bene perché questa prospettiva non piaccia al premier israeliano Olmert: l’attuale situazione per lui è ottimale, gli consente di proseguire il processo di graduale consolidamento del suo governo, avviato con l’inclusione del falco Lieberman e ora rafforzato con l’ingresso del nuovo leader laburista Barak al ministero della difesa. Nella situazione attuale, egli può continuare a parlare di pace, ottenere il sostegno e l’approvazione internazionali liberando 250 degli 11.000 prigionieri palestinesi o sbloccando una parte delle tasse palestinesi illecitamente bloccate, senza doversi misurare sui temi più spinosi, Gerusalemme, i rifugiati, i confini, gli insediamenti. La lettera dei dieci pone quindi il dito sulla piaga, quando sottolinea che la road map è fallita, come in generale è esaurita la concezione del processo di pace a tappe, a partire da Oslo, e che oggi è necessario misurarsi con le tematiche legate al Final Status, alla definizione finale del conflitto. Questo non significa, naturalmente, che non si possa fare niente, oggi: va sollecitata l’adozione di misure volte a ricostruire la fiducia, come quelle già citate relative ai prigionieri o al pagamento delle tasse, o le altre tante volte sollecitate, dall’evacuazione degli insediamenti selvaggi, al congelamento di tutti gli altri, alle iniziative volte ad assicurare la possibilità di movimento per le persone e per le merci. Ma limitarsi a questo, dopo tanti anni, non basta ad arginare la frana possibile. Occorre rendersi conto che Al Fatah, oggi, non è più un partito, ma una galassia in via di dissolvimento, un coacervo di gruppi di potere in lotta fra loro per spartirsi le briciole rimaste. La spaccatura con Hamas, e la probabile convergenza degli aiuti internazionali sulla Cisgiordania, salvo i provvedimenti per l’emergenza umanitaria, fanno balenare a questa leadership oramai screditata la possibilità di poter contare su un più sostanzioso rivolo di aiuti, di soldi, di armi, di uomini armati. Ma può bastare, questo, a garantire che Hamas nei prossimi anni non si espanda anche in Cisgiordania, dove d’altronde è già largamente presente? Se la prospettiva politica non si sblocca, è probabile che i fatti di Gaza possano riprodursi anche là, per non parlare del possibile radicamento di Al Qaeda, se ci si ostina nell’ostracismo pregiudiziale contro Hamas. Questo non significa, ovviamente, cancellare la condanna per il colpo di forza effettuato a Gaza o più in generale per le posizioni oltranziste della formazione islamica, ma solo fare i conti con la realtà palestinese quale essa è. In questa ottica, le proposte – ribadite nella lettera dei dieci – per la dislocazione di una robusta Forza internazionale nei Territori, volta a garantire anche la sicurezza di Israele, e per la convocazione di una Conferenza Internazionale di pace, acquistano una pregnanza e una credibilità diverse, senza restare mere affermazioni di principio. Si capisce come Solana, il ministro degli esteri della Ue, abbia reagito con stizza all’iniziativa dei dieci: di fatto quello che viene messo in discussione è il suo immobilismo, la sua ricerca estenuante del punto di mediazione possibile tra i membri dell’Unione, che ha finito per allinearne sostanzialmente le posizioni a quelle degli Usa e di Israele, anche nei confronti del precedente governo di unità nazionale palestinese, che è stato abbandonato nel limbo, producendo infine il colpo di coda di Hamas. Se si sposta in avanti il baricentro interno alla Ue, si può creare una modifica dell’equilibrio interno al Quartetto, anche per la nuova dinamica impressa alla politica estera russa e le posizioni del nuovo segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon. Potrebbe anche essere concepibile una nuova e articolata risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu. È questo il terreno su cui dovrà essere misurato lo stesso impegno di Tony Blair. Naturalmente, l’iniziativa dei dieci non basta da sola a rappresentare e a rilanciare l’iniziativa dell’Ue, ma almeno è una mossa che scuote lo stagno in cui essa era caduta. In questo anno e mezzo che segna il fine mandato di Bush, l’Europa può assumere un ruolo più ampio, se vuole farlo. L’iniziativa dei dieci può configurarsi, a pieno titolo, come un passo nella giusta direzione.
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