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Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


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Il Giornale - Libero - Il Foglio - Informazione Corretta - Il Riformista - Il Manifesto - L'Unità - La Repubblica Rassegna Stampa
11.07.2007 La politica estera italiana ed europea in Medio Oriente
rassegna di analisi corrette e scorrette

Testata:Il Giornale - Libero - Il Foglio - Informazione Corretta - Il Riformista - Il Manifesto - L'Unità - La Repubblica
Autore: Fiamma Nirenstein - Davide Giacalone - Luigi Compagna - Giorgio Israel - la redazione - Rossana Rossanda - Michele Giorgio - Ninni Andriolo - Marco Marozzi
Titolo: «Prodi da Olmert si ferma a metà strada - Il capo del governo predica con Israele e razzola coi terroristi - Lettera al direttore - Falsi amici - Prodi e gli invisibili - Lettera aperta al ministro degli Esteri - Prodi a Ramallah, solo promesse»

Prodi: "non ci sono le condizioni per i caschi blu a Gaza" - Prodi: "unità tra i palestinesi"

Il commento di Fiamma Nirenstein sul viaggio di Romano Prodi in Israele, dalla prima pagina del GIORNALE dell'11 luglio 2007:


Il viaggio in Israele di Romano Prodi ha il sapore di una correzione di rotta, della presa di coscienza degli errori dal suo governo. Non tanto la linea, ma l'atteggiamento italiano verso Israele è apparso diverso, la visita di Prodi a Sderot ha segnalato l'acquisizione del punto teorico che Israele è un Paese aggredito, che «merita» la pace, e non che, semplicemente, «deve» la pace a qualcuno che, certo bene intenzionato, la accoglierebbe a braccia aperte consegnando in cambio un Medio Oriente sanato, come invece suggerisce molto spesso il ministro degli Esteri Massimo D'Alema, seguitando persino a immaginare che Hamas si placherebbe una volta ammesso, con tutto il suo odio integralista, alla tavola del consenso.
Prodi in realtà ha emulato il governo precedente trasmettendo rispetto verso Gerusalemme, evitando di propalare la disapprovazione, il sospetto verso la politica israeliana, la criminalizzazione che è spesso traboccata dalle e nelle piazze italiane, specie al tempo della guerra del Libano, quando il governo accusò Israele di risposte eccessive agli hezbollah, e con gli hezbollah andò a braccetto. Che cosa è successo che ha indotto Prodi a virare? Innanzitutto, l'integralismo islamico si è mostrato senza veli per quello che è, una forza montante e minacciosa che ormai si avvale dell'asse Iran, Siria, Hezbollah e Hamas, con l'appoggio esterno, diremmo, di Al Qaida (ormai stabilitasi, come ha detto anche Abu Mazen, a Gaza) e altri gruppi. Le azioni di questo asse hanno un carattere pervasivo e mire tanto vaste da lasciare pochi dubbi che non si tratti affatto di un sottoprodotto del conflitto israelo-palestinese. Al contrario: Prodi sa ormai che la vittoria di Hamas a Gaza, con le atrocità di cui certamente sia Olmert che Abu Mazen gli hanno raccontato i terribili particolari, non è il prodotto dell'«occupazione», demonio onnipossente; il guaio più grande è l'esercito integralista che propone nuove sfide all'Occidente. Un alto ufficiale del Comando Sud ha detto a Prodi che circa 30 tonnellate di esplosivo e centinaia di missili antitank sono stati contrabbandati nella Striscia in un anno, che Hamas ha sviluppato una vera industria militare che produce Kassam e armi da fuoco in serie. Quando Prodi ha saputo che a Sderot sono piovuti in un anno 5000 missili e ha esclamato «Non è possibile vivere così», ha segnalato una verità che sfugge a gran parte della sinistra: Israele è un Paese attaccato che si difende. Così è stato anche con gli hezbollah, così con i palestinesi che nel corso di tutti questi anni hanno rifiutato ogni proposta dello Stato che di nuovo viene riproposto da Prodi («due Stati per due popoli») come soluzione. Ovvero: Prodi ha compiuto metà della strada che restituisce la verità del conflitto. L'altra metà è nella risposta strategica che le novità impongono, o almeno nel dubbio che le proposte odierne non siano consone alle novità. Abu Mazen deve sentire di essere messo alla prova: se desidera il compromesso, pure le brigate di Al Aqsa rifiutano la consegna delle armi e ripropongono la distruzione di Israele, e la popolazione ancora tentenna verso Hamas. La prova lo attende.
Guardando alla natura dell'attacco a Israele, Prodi ha ben scorto la negazione della Shoah come nata nel «sonno della ragione» che combatte l'esistenza dello Stato ebraico, che sbandierata dall'Iran di Ahmadinejad e ripetuta dai suoi alleati e protetti ha una funzione direttamente politica. Anche qui, bisogna vedere se l'avere così fortemente denunciato la minaccia iraniana dalla sede appropriata, Gerusalemme, si svilupperà nella scelta, per esempio, di favorire sanzioni specificamente nazionali di banche e imprese, come è accaduto in altri Paesi.
Infine: Prodi e Olmert, due leader la cui popolarità non è florida, si sono detti un po' ciò che ciascuno voleva sentirsi dire. Se la scelta dell'Unifil è stata ispirata a lodevoli criteri di pacificazione del confine sud del Libano, pure è altrettanto incontrovertibile che gli hezbollah si sono riarmati fino ai denti, che preparano una rivoluzione sciita-iraniana in Libano, che la Siria sobbolle una nuova guerra, che le armi sono passate dal confine siriano verso gli Hezbollah senza che nessuno fosse in grado di fermarle. Non è il caso di cantar vittoria, è il tempo invece dei dubbi, della cautela, della fantasia politica più innovativa. Olmert punta sulla visita di Condi Rice fra pochi giorni per cercare «un orizzonte per i palestinesi» tramite il rafforzamento di uno schieramento moderato, protettivo, rassicurante. Esso oggi, non esiste altro che nei sogni dei leader. Può funzionare solo le vecchie formule vengono rilette alla nera luce dell'odio che ha invaso il campo. Se Prodi lo vuole fare, sappia che «land for peace» può funzionare solo se si accompagna con la cocente sconfitta di chi sulla terra conquistata invece di scuole libere dalla propaganda della morte costruisce lanciamissili.

Da pagina 23  di LIBERO  il commento di Davide Giacalone:

C'è un marziano, furbetto e suonato, che s'aggira per il Medio Oriente: Romano Prodi. Incontra Olmert, capo del governo israeliano, e gli dice: noi siamo per due popoli due Stati. Bravo, l'avesse detto anni fa (quando i cattocomunisti negavano il diritto d'Israele ad esistere) sarebbe stato anche interessante, ma oggi è surreale. Fu Sharon a ritirare unilateralmente le truppe con la stella di David, per favorire quella prospettiva, mentre oggi c'è Abu Mazen che dice: aiutatemi a fronteggiare Hamas, perché quelli sono alleati con Al Qaeda. Dunque il popolo palestinese è in parte sotto la protezione israeliana. Si deve essere suonati per andare a dire: due popoli due Stati. Non solo, nel mentre Prodi volava il nostro ministro degli esteri, inviando l'ex extraparlamentare di sinistra Crucianelli a rappresentarlo, firmava una lettera al delirio, assieme ai colleghi mediterranei, con la quale invita a riprendere il dialogo con Hamas, che è l'esatto contrario di dare una mano a Mazen ed ai palestinesi non allineati con il terrorismo islamico. Lettera indirizzata a criticare l'unico leader europeo di sinistra: Blair. In altre parole, ed al di là dei convenevoli, in Medio Oriente l'Italia si trova più vicina ad Iran e Siria che alle democrazie occidentali, e per questo è spinta a non chiamare le cose con il loro nome, facendo finta di non sapere quale guerra è in corso. Il tutto mentre i nostri soldati in Libano dovrebbero spalleggiare l'esercito regolare che si batte contro Fatah al Islam e contro gli jihadisti del sud, ovvero contro gli alleati di quelli con cui vogliamo dialogare. Poi, magari, ci si sente furbetti quando si va da israeliani e palestinesi a dire: è l'ora della pace. No, l'ora della pace è scoccata da moltissimi anni, solo che a far prevalere il sangue e la guerra ci sono potenze regionali che minacciano la distruzione d'Israele. Per avere la pace occorre battere i suoi nemici, non parlare a vanvera.

Una lettera di Luigi Compagna al Foglio:

Al direttore - Le sanzioni nei confronti dell’Iran, ha detto Prodi, danneggiano pesantemente le imprese italiane. Fatta in Israele tale considerazione era inopportuna. Ma ancora più inopportuna era stata mesi addietro la decisione prodiana di porre al vertice dei nostri servizi segreti il generale Cucchi, antico collaboratore di Nomisma, il quale si era vantato di ritenere il nucleare di Ahmadinejad un utile fattore di riequilibrio rispetto a Israele. Sono cose che né Pollari né Pompa avevano mai detto, scritto, pensato e che non giovano all’onore e alla serietà dell’Italia. Luigi Compagna, Roma

Un commento di Giorgio Israel sulle dichiarazioni di Fassino su Hamas:

Mentre Abu Mazen dichiara che con Hamas non tratterà mai, non si siederà mai allo stesso tavolo, Piero Fassino dichiara (secondo quanto riferisce la stampa) che «bisogna provare a sedersi a un tavolo con Hamas, anche senza la pregiudiziale del riconoscimento dello Stato di Israele» perché «se ci siede a un tavolo, non è solo Israele che riconosce Hamas, ma viceversa». Da un lato si tratta di un’argomentazione risibile con la quale si potrebbe tranquillamente legittimare Monaco 1938: anche in quel caso, sedendosi a un tavolo, ci si è riconosciuti reciprocamente, e poi si è visto cosa è successo. Anzi, con questo criterio, il Congresso Mondiale Ebraico avrebbe dovuto partecipare a Monaco 1938, almeno in qualità di osservatore. Non è escluso che Hitler avrebbe accettato e sarebbe stato una bel riconoscimento, in attesa di passare alle camere a gas i “riconosciuti”. Infatti, quel che Fassino forse non ricorda – vogliamo credere che non lo ricordi, altrimenti la cosa sarebbe molto grave – Hamas ha un programma che non ha nulla da invidiare a quello di Hitler. Ha messo addirittura nel suo statuto – o costituzione, secondo come la si vuol chiamare – che bisogna andare ad ammazzare ogni ebreo che si nasconda dietro qualsiasi pietra, e che questo è un assoluto dovere di un buon palestinese che pretenda di essere considerato un buon musulmano. Che Hamas sia disponibile a sedersi e a trattare lo sanno anche i gatti del cortile della casa di Fassino. Il problema è che bisognerebbe convincere Hamas quanto meno a cancellare quei passaggi della costituzione, che predicano il dovere assoluto di distruggere Israele, di trucidare ogni ebreo e via elencando orrori. Che ne dice Fassino? È una richiesta troppo spinta? È intransigenza tipicamente israeliana? Che l’on. Fassino sia stressato appare chiaro, e che sotto stress dica cose che non vorrebbe dire, è cosa che può essere compresa. Ma c’è un limite a tutto, anche all’indulgenza. Soprattutto se lo stress deriva dal dover difendere l’impresentabile politica estera del suo impresentabile ministro degli esteri e, al contempo, alimentare la sua fama di amico di Israele, perché i due obbiettivi sono talmente incompatibili da spezzare la corda tirata oltre ogni limite. Mentre persino Solana bacchetta i 10 che hanno scritto a Blair chiedendo di prendere atto del fallimento della Road Map (non del fallimento della questione palestinese!) e di aprire una linea di credito a Hamas, la nostra politica estera si distingue come la riedizione del chamberlainismo più smaccato. D’Alema si dichiara preoccupato che vi siano ulteriori sanzioni all’Iran «perché vi è il rischio che tra pochi anni ci troviamo nello scenario peggiore: o accettare la bomba atomica iraniana, o avere una guerra contro l’Iran». Un esempio sopraffino di quell’uso della logica, per il quale il nostro ministro degli esteri va famoso e viene definito “intelligentissimo” dai suoi adulatori. Difatti, sopprimendo le sanzioni, l’Iran si farà l’atomica e la guerra non si farà perché nessuno vorrà fare una guerra atomica. Salvo magari l’Iran contro Israele. Ma di questo al nostro intelligentissimo ministro non importa un fico secco. Del resto quale sia il concetto di “equivicinanza” lui l’ha finalmente svelato nell’ultima intervista in cui ha parlato di Israele: il suo massimo desiderio è che in un modo o nell’altro si creino le condizioni perché si riapra il dialogo tra Hamas e Abu Mazen. Insomma, voi credevate che D’Alema fosse “equivicino” a Israele e ai suoi nemici? No, egli è “equivicino” a Abu Mazen e Hamas. Il guaio è che Abu Mazen, dando mostra di un’intransigenza di stile israeliano, non vuole riaprire il dialogo. Bisognerà forse imporgli delle sanzioni? Questa è la politica impresentabile che l’on. Fassino si è impantanato a difendere. Se lo fa credendoci o per disperazione, a causa di problematiche politiche casalinghe, è cosa che in fin dei conti non interessa più. Un’ultima domanda rivolta a “Sinistra per Israele”: se ci siete battete un colpo. Questo è il momento giusto.

Far rientrare Hamas nel gioco politico e negoziale da cui si è autoesclusa con il suo cieco fanatismo è la linea di un editoriale del RIFORMISTA (pagina 2). Una visione che coincide perfettamente con quella che ispira la sciagurata politica estera del governo italiano:

Tra dossier regionali e alta diplomazia, Romano Prodi è riuscito a parlare con il presidente palestinese Mahmoud Abbas anche di qualche migliaio di “invisibili”. Dai quattro ai seimila palestinesi, a seconda delle fonti, che da un mese sono accampati alla bell'e meglio in un angolo di mondo sconosciuto ai più. Al Arish, pieno Sinai egiziano, qualche centinaio di chilometri più a nord di Sharm el-Sheikh. Temperatura insostenibile, di questi tempi e in pieno deserto. I quaranta gradi sono la norma, l'acqua scarseggia, il cibo anche. E i palestinesi che non riescono da un mese a rientrare a casa, nella Striscia di Gaza, si sono già venduti tutto, compresi i telefonini. «Ci resta solo da vendere noi stessi», hanno detto a una delle rare telecamere - Al Jazeera english - a cui il governo del Cairo ha concesso il permesso di filmare una tragedia sinora quasi priva d'immagini. Se non per il coraggio di qualche fotografo egiziano.
La questione ci tocca da vicino. Siamo noi, con sedici carabinieri e il generale Piero Pistolese, ad avere il comando della missione di osservatori europei al valico di Rafah, che dal novembre del 2005 doveva supervisionare l'unica porta che unisce Gaza al mondo, attraverso l'Egitto. Doveva. Perché da un anno il valico è stato quasi sempre chiuso. Cause di sicurezza, dicono le autorità israeliane che su Rafah non hanno giurisdizione, ma possono far chiudere, nei fatti, il confine. Da giorni si parlava di un possibile ridimensionamento della missione. Prodi, ieri, lo ha smentito. La missione, rinnovata il 24 maggio per un altro anno, continua. Ma da lì gli invisibili di Al Arish non possono passare. Sono ostaggio della grande politica. Perché solo se la guardia presidenziale di Abbas tornasse a Rafah, per gli accordi di un anno e mezzo fa, il valico potrebbe riaprire. E Hamas, dal canto suo, non vuole che le migliaia di palestinesi passino da Kerem Shalom, il passaggio poco più a nord gestito totalmente dagli israeliani, che potrebbero dunque decidere chi fare entrare e chi no.
Gli invisibili, intanto, muoiono. Dieci, alcuni dicono ventotto, sono già deceduti per le condizioni insostenibili in cui si trovano. Erano malati, andati in Egitto per farsi curare. La crisi, ha detto ieri Prodi con l'enfasi che gli è nota in questi casi, ha raggiunto «dimensioni smisurate». Si tratta di un «caso umanitario al di là di ogni immaginazione» che bisogna risolvere al più presto. A quando, però, la soluzione? La nostra credibilità di italiani ed europei si misura anche su tragedie di questo tipo. Senza riflettori, ma determinanti per i nostri valori. E possono anche avere un senso diplomatico forte: potremmo riuscire a far di nuovo parlare Hamas e Fatah, per il bene supremo del popolo palestinese.

In una lettera aperta a Massimo D'Alema, pubblicata dal MANIFESTO in prima pagina, Rossana Rossanda propone significativi peggioramenti alla politica trattaggiata nella lettera dei ministri europei. Dalla trattativa "senza precondizioni" si potrebbe passare alla trattativa con precondizioni, ma solo per Israele (che dovrà tornare ai confini del 67). Abu Mazen non dovrebbe essere sostenuto "contro Hamas". E si dovrebbe tornare a finanziare il gruppo islamista.  Il tutto, ha il coraggio di argomentare la Rossanda, per non rafforzarlo.
Infine, si dovrebbe prendere in considerazione l'idea dello "Stato unico", cioè della fine di Israele.
Ecco l'articolo:

Caro D'Alema, dato che la politica passa per lettere più o meno aperte, permettimi di indirizzarti questa - anche se non sono nessuno rispetto ai ministri degli esteri che assieme a te si sono felicitati con Tony Blair per l'incarico di mediatore fra palestinesi e istraeliani. Non so se, essendo stato il falco più falco d'Europa nella guerra all'Iraq, egli sia il più adatto a metter fine all'origine di tutti i fuochi del disastro mediorientale. Ma difficilmente potrà far peggio di quel che l'Europa ha fatto finora e voi riconoscete nel fallimento della road map. E chissà che il compito non risvegli in quell'uomo spregiudicato una voglia di riscatto. Ma gli avete dato i consigli migliori? Il primo di essi - negoziare senza condizioni preliminari - è saggio, ma, date per ammesse tutte le tappe e fasi e prudenze possibili, si può non evocare almeno come orizzonte, il rientro di Israele nelle frontiere del 1967, come invano deciso dall'Onu, senza privare di concretezza la già abbastanza vaga «soluzione politica per i popoli della regione»? Quanto al secondo, se io capisco - e non tutti capiscono - che gli israeliani si sentono minacciati nella loro sicurezza, non va ricordato che i palestinesi sono negati da quaranta anni nella loro stessa esistenza, e se tanti loro giovani si sono spinti ad atti di terrorismo è perché non hanno vissuto un solo giorno se non in stato di crudele occupazione straniera? Ad ambedue le parti va restituita la fiducia, tutte e due vanno rassicurate. Una forza delle Nazioni unite potrebbe essere accettata nei territori soltanto se in pari tempo liberati dalle colonie. Sharon è ben stato capace di rimuoverle da Gaza per sfidare l'Anp a farsi carico in condizioni impossibili di quella striscia disastrata. Quanto al terzo invito pare provocatorio e contraddice il quarto: Hamas ha fatto un colpo di stato, ma giocare Abu Mazen contro Haniyeh significa rafforzare Hamas. Che è stato votato a grande maggioranza in libere elezioni in tutta la Palestina e ha vinto perché è socialmente radicato ed è onesto, cosa che di Fatah non si può dire. Questa è del resto la radice del diffondersi dell'islamismo in tutto il Medio Oriente. La lista degli errori reciproci sarebbe lunga, non ci manca che perseverare in essi. Per ultimo, non pensi anche tu che nulla permette a dieci ministri europei di privare quella parte dei palestinesi che ha scelto Hamas dei soldi che le sono dovuti e Israele ha sequestrato? Non è credibile un mediatore che non cerchi di mettersi al di sopra delle parti. Infine, non dimentichiamo che si fa sempre più strada, fra i palestinesi e importanti minoranze israeliane, la soluzione di uno stato laico e binazionale. Resta a mio avviso, la scelta più razionale e lungimirante per ambedue i popoli. Ma oggi essa non è praticabile, non ultima conseguenza dello sbaglio di Nasser e della guerra dei sei giorni che Levi Eskol aveva cercato di evitare. Né l'una né l'altra delle due nazioni sa più staccarsi dal suo fondamentalismo identitario. Ci vorranno due o tre generazioni che abbiano vissuto in pace perché gli ebrei possano ricordare con qualche distanza che li abbiamo deportati e sterminati soltanto perché ebrei, e i palestinesi che la sola terra che gli ebrei abbiano sentito sicura da quasi due millenni è quella che a loro, palestinesi, è stata tolta. Ben venga dunque qualsiasi forma di mediazione in grado di fare smettere che scorra il sangue, che dia un respiro alle vite e lucidità alle menti. Ti auguro buon lavoro

Per Michele Giorgio la colpa di Romano Prodi è essere troppo vicino alla posizione di Abu Mazen.
Secondo Giorgio il raìs è il nemico dell'unità palestinese. Meglio i ministri degli esteri europei che raccomandano il dialogo con Hamas.
Ecco la cronaca dal MANIFESTO (pagina 4):

Nella Muqata di Ramallah, sede del quartier generale dell'Anp in Cisgiordania, ieri Romano Prodi è stato prodigo di suggerimenti per i palestinesi, ha promesso fondi ad Abu Mazen e al premier «d'emergenza» Salam Fayad - come l'apertura di una linea di credito di 25 milioni di euro - e aiuti umanitari per gli abitanti di Gaza, ma si è tenuto a distanza dai temi più scottanti, specie quelli che urtano la suscettibilità d'Israele. Più di tutto ha ignorato la lettera inviata da dieci ministri degli esteri dell'Ue, tra cui Massimo D'Alema, al nuovo inviato del Quartetto, Tony Blair, in cui si afferma che la «Road Map» è fallita e che «l'immobilità timorosa della Comunità internazionale ha provocato troppi danni» in Palestina. Il Presidente del Consiglio, che lunedì a Gerusalemme aveva dato pieno appoggio a Israele, si è guardato bene dall'approvare alcune delle richieste presentate dai dieci ministri degli esteri europei nella loro lettera: il trasferimento della totalità dei fondi dell'Anp che Israele tiene ancora congelati, la liberazione di migliaia di prigionieri politici e la ripresa del dialogo tra Hamas e Fatah per mettere fine alla crisi di Gaza. Ha dell'incredibile, eppure non tutti i punti della lettera trovano l'approvazione di Abu Mazen che ieri, durante la conferenza tenuta con Prodi alla Muqata di Ramallah, ha ribadito con tono perentorio che il dialogo con Hamas potrà riprendere solo quando i «golpisti» riporteranno la situazione al punto precedente al 15 giugno, giorno in cui il movimento islamico ha preso il controllo dell'intera Striscia di Gaza. A quanto pare i dieci ministri degli esteri dell'Ue hanno a cuore più di Abu Mazen l'unità dei palestinesi e l'integrità dei Territori occupati. Abu Mazen in questo momento vuole soltanto l'isolamento totale di Hamas e della Striscia (dove vivono 1,4 milioni di palestinesi) e anche ciò serve a spiegare le assurde dichiarazioni che ha fatto sulla presunta autostrada che Hamas avrebbe messo a disposizione di al-Qaeda a Gaza, mentre tutti sanno, inclusi i servizi segreti israeliani, che proprio Hamas ha impedito sino ad oggi il diffondersi capillare nella Striscia di cellule che si ispirano ad Osama bin Laden. «Non abbiamo mai consentito alla rete di al-Qaeda e ai suoi uomini di infiltrarsi a Gaza», ha replicato ad Abu Mazen il portavoce di Hamas, Sami Abu Zuhri. «Non c'è alcun rapporto tra Hamas e al Qaeda. Con queste accuse Abu Mazen tenta di metterci in cattiva luce davanti all'opinione pubblica internazionale». Proprio ieri, Abu Mazen ha chiesto che l'Italia sostenga la sua richiesta di invio di un contingente militare internazionale nella Striscia. Prodi ha ribadito che non è possibile, perché prevede un accordo tra tutte le parti coinvolte, che al momento manca. Mentre la lettera dei dieci ministri degli esteri dell'Ue lo descrive più come interposizione tra israeliani e palestinesi a salvaguardia di un cessate il fuoco totale. Intanto, sebbene sia stato snobbato da Prodi, il premier deposto Ismail Haniyeh (Hamas), ha voluto ugualmente esprimere la gratitudine all'Italia e al suo popolo «per il sostegno che ha sempre dato alla causa palestinese». Intervistato dal TG3, Haniyeh ha ribadito la sua contrarietà all'invio di una forza internazionale a Gaza - «verrebbe considerata come un'interferenza nelle decisioni palestinesi» - ed ha risposto all'esortazione di Prodi che lunedì aveva chiesto la liberazione del caporale israeliano Ghilad Shalit, nelle mani di Hamas da oltre un anno. «Noi abbiamo a cuore la necessità di porre fine all'umana sofferenza di Shalit, ma tutto il mondo deve comprendere anche la nostra richiesta di porre fine alle sofferenze di 11.000 prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane». Haniyeh ha infine smentito che sia intenzione di Hamas proclamare un Emirato islamico a Gaza. Intanto a sostegno dell'unità nazionale palestinese, è finalmente scesa in campo la sinistra palestinese. Ieri il Fronte popolare per la liberazione della Palestina ed Iniziativa nazionale di Mustafa Barghouti hanno chiesto la fine immediata della guerra, anche mediatica, tra Fatah e Hamas, il dissolvimento del governo d'emergenza nominato da Abu Mazen e di quello di Hamas a Gaza in modo da nominare un esecutivo transitorio incaricato di convocare in tempi stretti elezioni anticipate presidenziali e legislative. Prodi ieri ha concluso la sua visita in Palestina, recandosi alla scuola dell'Unrwa del campo profughi di Deheishe (Betlemme). Ad accoglierlo ha trovato anche un gruppo di cooperanti di Ong italiane che al suo passaggio hanno esposto uno striscione con la scritta «40 anni di occupazione, basta!».

La "muraglia" israeliana, il "felino" che artiglia "un’aquila bianca della pace avvolta nella kefiah", dipinto a Betlemme, le richieste dell'Autorità palestinese, il successo della visita di Prodi in Israele: la linea politca dell' UNITA' , che emerge chiaramente dalla cronaca  di Ninni Andriolo (pagina 12), è più ambigua di quella del MANIFESTO 
Da un lato vuole presentare il governo italiano come amico di Israele, dall'altro vuole riproporre i temi della propaganda antisraeliana di sempre.
Al punto che il richiamo in prima è "Sequestrato a Prodi un regalo dei palestinesi" (perché non controllato dagli israeliani come richiedono le norme di sicurezza, ndr) "Aereo bloccato a Tel Aviv"
Ecco il testo dell'articolo:


DAL VERSANTE palestinese della lunga muraglia israeliana che circonda qui «l’enclave» di Betlemme, mani sconosciute hanno dipinto un enorme felino che arti-
glia un’aquila bianca della pace avvolta nella kefiah. «Welcome to Gerusalem», annuncia il cartello verde fissato pochi metri più in là, a due passi dal check point presidiato dai soldati di Tel Aviv. Il lungo corteo di jeep di militari Anp che accompagna Romano Prodi dal campo profughi di Dheisheh e dalla Basilica della Natività verso il «confine», cede il passo alla scorta israeliana. Il viaggio del presidente del Consiglio in Israele e Cisgiordania sta per concludersi. Tra poco il premier italiano giungerà all’aeroporto di Tel Aviv per volare a Roma. Giornata dedicata all’Anp, ieri: incontro con Abu Mazel a Ramallah e visita a Betlemme. Poi le considerazioni amare del premier su quel muro di cemento che «fa impressione» perché sancisce una «separazione che pesa nella testa e nel cuore». Vista da qui la pace che «non è più rinviabile», non sembra a portata di mano. Al conflitto israeliano-palestinese si è aggiunto il conflitto tra palestinesi. Tra Anp che governa in Cisgiordania e Hamas che regge la Striscia di Gaza.
Ieri sia Abu Mazen che Haniyeh - il premier (destituito) di Hamas che ha consesso un’intervista al Tg3 - hanno ringraziato l’Italia per l’impegno a favore della causa palestinese. Ma da fronti opposti e oggi inconciliabili. Abu Mazen, al cospetto di Prodi, attribuisce ad Hamas la responsabilità del «golpe sanguinoso» della presa del potere a Gaza. I «golpisti devono restituire al legittimo governo palestinese tutto ciò che hanno tolto e riportare la situazione a come era prima della crisi - scandisce con tono ultimativo il presidente Anp - Prima di questo non può esserci alcun dialogo». Tra Abu Mazen e Haniyeh - com’è apparso evidente ieri, anche visivamente, alla Muqatà di Ramallah, nel quartier generale dell’Anp che circonda la tomba di Arafat - Prodi sceglie decisamente il primo. «Gli sforzi di Abu Mazen e del governo Fayyd vanno sostenuti con convinzione», afferma il capo del governo italiano, pur consapevole della frattura che si registra in Palestina. E che non può essere rimarginata facendo ricorso soltanto agli appelli all’unità del popolo palestinese. «La fine dell’esperienza del governo di unità nazionale e la spaccatura territoriale non devono far venire meno la determinazione a promuovere negoziati di pace, basati sulla soluzione che prevede la presenza di due stati - sottolinea Prodi - Il popolo resti unito per raggiungere l’obiettivo condiviso di uno Stato palestinese indipendente, democratico e vitale, che possa operare in pace e in sicurezza con Israele e gli altri Stati vicini». Gaza? L’obiettivo immediato, per il capo del governo italiano, è quello di «evitare una crisi umanitaria che alimenterebbe ulteriormente estremismi e fanatismi».
L’Italia farà la sua parte: con il lancio di una linea di credito per le piccole e medie imprese pari a 25 milioni di euro, con il sostegno all’azione della Commissione europea per una politica di aiuti; facendo avanzare la grande sfida della ripresa dello sviluppo e degli investimenti. Contribuire all’isolamento internazionale di Hamas e dare credito a Fatah per rilanciare il negoziato tra israeliani e palestinesi; e, nel contempo, costruire un legame di fiducia con Gerusalemme che smonti i preconcetti su un governo italiano più filo arabo che filo israeliano: lungo questo doppio binario si è sviluppata la tre giorni di Prodi tra Tel Aviv, Gerusalemme, Ramallah e Betlemme. «Un viaggio storico», lo definisce già il portavoce della comunità ebraica romana, Riccardo Pacifici. La visita di Prodi al villaggio di Sderot, colpito dai missili Qassam, l’omaggio al museo dell’Olocausto, l’incontro con i familiari dei soldati israeliani rapiti, hanno trovato riscontro positivo anche sulla stampa israeliana. Abu Mazen ne è consapevole e preme sul premier italiano perché convinca Israele «a sedersi al tavolo per avviare con noi un vero negoziato».
Le richieste dell’Anp? Fermare la costruzione del muro israeliano, far cessare le restrizioni e le chiusure imposte al popolo palestinese, porre fine alla politica degli «assassinii mirati», eliminare i posti di blocco israeliani sul territorio palestinese, risolvere la questione dei profughi, liberare i prigionieri e riportare la situazione «a prima del settembre del 2000».
C’è un’altra richiesta che Abu Mazen torna a rivolgere a Prodi: l’impegno italiano per una forza multinazionale di pace a Gaza. Su questo, però, il presidente dell’Autorità palestinese e il presidente del Consiglio non hanno la stessa posizione. «Non ritengo oggi maturo questo problema», sottolinea Prodi. «Per avere una forza multinazionale - aggiunge - Occorre un accordo stretto tra tutte le parti in causa e un accordo sul mandato. Non siamo ancora arrivati a questo punto». Diversa, quindi, la situazione di Gaza da quella del Libano. «Lì - spiega Prodi - c’era una comune richiesta da parte di tutti. Qui, invece, non c’e’ una situazione di questo genere».
La pace, in ogni caso, va perseguita con ostinazione. E Prodi lancia un appello «a Blair e al quartetto Usa, Russia, Ue e Onu sul Medio Oriente» per «un approccio che rafforzi l’Autorità palestinese e migliori le condizioni di vita del suo popolo».

Considerazioni analoghe si possono fare per la cronaca di Marco Marozzi su La REPUBBLICA (pagina 14)

GERUSALEMME - Dichiarazioni di speranza. «E´ il momento della fiducia e dell´impegno». Aperture di Ehud Olmert ed Abu Mazen. Ma durezze e paure che restano. Da Gaza all´Iran.
Romano Prodi rientra in Italia da Israele e dalla Palestina con questo quadro.
Simbolico che il suo aereo sia stato bloccato a Tel Aviv dai servizi segreti israeliani. Un pacco non controllato: un ricamo della Palestina, regalo delle donne del campo profughi di Deheishe, a Betlemme. Aereo fermo, con Prodi già a bordo, regalo consegnato all´ambasciatore, «mandatemelo a Roma». E partenza in ritardo, simbolo di un clima che Olmert e Abu Mazen hanno detto a Prodi di voler superare. «E´ inaccettabile considerare non utile il dialogo» ha dichiarato il presidente dell´Anp a Ramallah, il suo quartier generale, con il presidente del Consiglio italiano a fianco a Ramallah. Un messaggio di pace ma anche un duro ammonimento verso Hamas, i «golpisti» palestinesi che occupano Gaza. E se il premier dell´Anp accusa Hamas di far infiltrare Al Qaeda, il leader dell´organizzazione, Ismail Haniyeh, contrattacca. «Bugie». Ma allo stesso tempo apre «Sì al dialogo con Al Fatah».
Giochi di guerra e di pace. Abu Mazen ha richiesto a Prodi un contingente internazionale a Gaza «per la consegna di aiuti umanitari e consentire ai cittadini di entrare e uscire». Israele per la prima volta ha dimostrato una certa disponibilità, ma Hamas rifiuta «truppe di occupazione». «Oggi non ci sono le condizioni» ha risposto Prodi. «Occorre un accordo tra tutte le parti. La situazione è completamente diversa rispetto al Libano, dove c´era una comune richiesta. I tempi non sono maturi». Anche gli Usa si sono schierati contro.
E in Israele non tutti condividono le aperture di Olmert. Avigdor Lieberman, ministro per gli Affari strategici, capo del partito di destra «Israel Beitenu» attacca sull´Iran. «Prodi e gli europei a Bruxelles vogliono far credere che Israele possa accettare un programma nucleare iraniano di pace». I servizi segreti israeliani dicono che l´Iran avrà il nucleare civile nel 2009, quello militare tre - quattro anni dopo. Hamid Reza Haji-Babai, della commissione Sicurezza nazionale iraniana, ha smentito El Baradei, direttore generale dell´Agenzia internazionale sull´energia nucleare, e il suo annuncio che Teheran aveva rallentato le operazioni di arricchimento dell´uranio.
Pressioni e contropressioni. Gli Usa hanno inviato la portaerei «Enterprise» nel Golfo, ad aggiungersi ad altre due navi.
L´Italia con Massimo D´Alema cerca di non chiudere al negoziato: «C´è il rischio di trovarsi, tra pochi anni, nello scenario peggiore: o accettare la bomba atomica iraniana, o avere una guerra contro Teheran. Noi consideriamo entrambe le ipotesi inaccettabili». Ma trovare accordi è complicatissimo. L´Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza dell´Unione europea, Javier Solana, ha criticato la lettera dei dieci ministri degli Esteri del Mediterraneo, tra cui l´Italia, al nuovo inviato speciale per il Medio Oriente Tony Blair, per rilanciare il processo di pace. «Credo che ci siano strumenti migliori, molto più utili ed efficaci che le lettere aperte ai giornali per esporre le idee di ognuno». E ha ricordato una ferita aperta nell´Europa, la lettera di vari Paesi, Italia di Berlusconi compresa, per sostenere la guerra in Iraq: «Alcuni di voi si ricordano della ‘Lettera degli 8´ e delle sue conseguenze? Da quell´evento si sarebbero dovute trarre delle lezioni».

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