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Il Manifesto Rassegna Stampa
10.07.2007 I "veri amici di Israele"
lo boiccottano, lo delegittimano, non si scompongono per l'atomica di Ahmadinejad

Testata: Il Manifesto
Data: 10 luglio 2007
Pagina: 5
Autore: Michele Giorgio - Michelangelo Cocco
Titolo: «Prodi in Israele, trincea comune - Lo stato unico accende il dibattito, ma la corsa è verso la partizione - «Una scelta morale», il boicottaggio scuote Tel Aviv»
Se Prodi fosse un vero amico d'Israele sarebbe a favore del nucleare militare iraniano, di Hamas, contrario al rilascio senza condizioni di Gilad Shalit.
E' quanto si evince dall'esilarante articolo di Michele Giorgio che riportiamo qui sotto:


Un paio di anni fa la nota pacifista italo-israeliana Manuela Dviri, a proposito della politica accondiscendente del governo Berlusconi nei confronti di Israele, commentò che «un vero amico è quello che non teme di dirti che stai sbagliando e non quello che ti esorta ad andare avanti anche se stai commettendo gravi errori». Parole che suonano bene anche per Romano Prodi. In visita ufficiale in Israele, il presidente del consiglio italiano ieri, superando generosamente ragion di stato e diplomazia, ha dato carta bianca a Israele su tutto: Iran, Abu Mazen, Hamas. Ha fatto capire che esiste una identità di vedute perfetta con lo stato ebraico anche a proposito del Libano, affrettandosi ad assicurare il parere favorevole dell'Italia ad un possibile cambiamento delle regole d'ingaggio per i militari dell'Unifil - il punto più delicato dell'intera missione - se a richiederlo saranno le Nazioni unite, evidentemente su pressione di Israele che desidera una linea più dura dei caschi blu contro Hezbollah. Olmert ha subito aggiunto che «i 2.500 soldati italiani della missione Unifil svolgono un lavoro importante e continueranno ad agire efficacemente, secondo il mandato dell'Onu, contro Hezbollah». Sull'Iran Prodi ha garantito il sostegno pieno dell'Italia alle posizioni (e anche ai piani?) di Israele. «Siamo assolutamente d'accordo: l'Iran non può e non deve avere nessuna capacità militare nucleare», ha detto il presidente del consiglio durante la conferenza stampa congiunta al termine dei colloqui bilaterali con Olmert, che da parte sua ha fatto una dichiarazione di guerra: «Non potremo mai consentire che uno Stato (Iran) che fa appello alla distruzione di Israele possa possedere un arsenale nucleare. Va fatto di tutto per impedirglielo». Di tutto cosa? Su questa frase di Olmert, che lascia intravedere un attacco militare contro Teheran, Prodi non ha sentito il dovere di precisare la posizione del suo governo. «Abbiamo scambiato idee - ha proseguito il presidente del consiglio - su come arrivare a questo comune obiettivo...Teheran che deve rinunciare a qualsiasi programma nucleare militare. L'Iran non ha alcun bisogno dell'arma nucleare per esercitare il suo ruolo di potenza internazionale. Se vuole esercitare quel ruolo, deve contribuire a stabilizzare la regione e la corsa al nucleare va proprio nella direzione opposta». E' ovviamente giusto che l'Italia dichiari la sua ferma opposizione alla proliferazione nucleare e, in questo caso, ad un possibile (ma non accertato) programma atomico segreto di Teheran. E' paradossale però che Prodi abbia scelto di riaffermare la contrarietà dell'Italia al nucleare militare mentre visita l'unico paese del Medio Oriente che possiede armi atomiche, che non ha firmato il trattato di non-proliferazione e continua a mantenere una pericolosa ambiguità sul suo arsenale non convenzionale. Come Prodi ha tenuto a sottolineare ieri mattina nel discorso tenuto durante la cerimonia di saluto al suo arrivo all'ufficio del premier Olmert, la politica dell'Italia nei confronti di Israele non cambia «a prescindere dal colore del governo». Ed impercettibili si fanno le differenze tra Berlusconi e Prodi quando al centro degli interessi dei due paesi c'è la cooperazione su sicurezza e militare. Di ciò il presidente del consiglio ieri non ha parlato ma è presumibile che abbia confermato a Olmert che il suo governo osserverà punto per punto il memorandum d'intesa che Berlusconi stipulò con Israele per la cooperazione nel settore militare e della difesa. Memorandum che il 17 maggio 2005 è divenuto una legge composta di 11 articoli e anche di un capitolo tenuto segreto al Parlamento per «motivi di sicurezza». La legge prevede la «cooperazione nella ricerca, nello sviluppo e nella produzione» di tecnologie militari tramite «lo scambio di dati tecnici, informazioni e hardware». Vengono inoltre incoraggiate «le rispettive industrie nella ricerca di progetti e materiali» di interesse comune. Un paio d'anni fa Voice of America, citando fonti israeliane, riferi' che Roma e Tel Aviv hanno concordato lo sviluppo congiunto di un nuovo sistema di guerra elettronica, con un primo finanziamento di 181 milioni di dollari. Sotto la cappa del segreto militare può avvenire di tutto, pertanto le tecnologie italiane potrebbero essere utilizzate per potenziare le capacità di attacco di Israele che è un paese un guerra e occupa territori arabi e palestinesi in violazione di risoluzioni dell'Onu. Oltre ad Olmert, Prodi ieri ha incontrato il leader dell'opposizione Netanyahu, i ministri della difesa e degli esteri Ehud Barak e Tzipi Livni e il capo dello stato Shimon Peres. Ha visitato il Museo dell'Olocausto e la cittadina di Sderot, bersaglio frequente dei razzi artigianali Qassam. Oggi vedrà a Ramallah il presidente palestinese Abu Mazen e il premier Salam Fayad e visitera' il campo profughi di Deheishe (Betlemme). Non avrà contatti con i leader di Hamas.

Nella stessa pagina, i veri amici di Israele propugnano la sua distruzione e il boicottaggio economico.
Ecco i due amichevoli articoli in merito:

Michelangeli Cocco propugna lo "Stato unico":

«Non si può rinviare ulteriormente, dopo sessanta anni, il momento della pace». Così ieri si è espresso il presidente del consiglio Romano Prodi alla presenza del primo ministro israeliano Ehud Olmert, nel corso dell'incontro tra i due capi di governo a Gerusalemme. Prodi ha aggiunto che la pace tra Israele e Palestina è una necessità e «una garanzia per i popoli della regione e per Israele ad esistere come stato ebraico». Anche il 13 dicembre scorso, quando il premier di Tel Aviv era arrivato a Roma in visita ufficiale, Prodi aveva concluso la conferenza stampa congiunta dichiarando in maniera netta che «Israele ha diritto a esistere come Stato ebraico». Olmert aveva apprezzato ricambiando con baci, abbracci e sorrisi a 32 denti. Era quello che l'ex sindaco di Gerusalemme voleva sentirsi dire, nel momento in cui c'era da isolare il governo monocolore di Hamas, che non riconosce esplicitamente Israele. Ma era e resta, soprattutto, il presupposto delle politiche di annessione territoriale de facto che - attraverso il completamento del muro costruito all'interno della linea armistiziale del 1949 (Linea verde) e l'accelerazione dell'edificazione delle colonie ebraiche nella Cisgiordania occupata - Olmert ha attuato in perfetta continuità con il suo predecessore Sharon. La necessità di mantenere il carattere ebraico dello Stato potrebbe giustificare, quando arriverà il momento di trattare - negoziati che il ministro degli esteri e grande favorita per la poltrona di premier, Tzipi Livni, auspica «in tempi brevi e direttamente sullo status finale» -, scambi territoriali che lascerebbero le colonie in territorio israeliano e il minor numero possibile di arabi (attualmente il 20% della popolazione) all'interno di Israele, grazie a «scambi territoriali». Ma la soluzione dei due stati, abbracciata dai palestinesi solo dalla seconda metà degli anni '70, per i suoi detrattori significherebbe, data la realtà creatasi sul terreno, la creazione di uno stato fortemente etnico-religioso (Israele) e di un altro, insieme di bantustan senza continuità territoriale (la Palestina). Il dibattito si sta accendendo nella stessa Israele, basti pensare alla recente polemica tra il sionista di ultra-sinistra Uri Avnery, favorevole ai due stati, e lo storico Ilan Pappe, che immagina uno stato unico laico e democratico, o al libro, in uscita, di Avraham Burg - figlio di uno dei fondatori dello Stato ed ex presidente dell'Agenzia ebraica - che nel suo Lenatzeach Hitler (Sconfiggere Hitler) definisce Israele uno stato «già morto» e dice che bisogna «superare il sionismo», perché «lo Stato ebraico è un'idea che non può funzionare». Al corso-convegno «Israele/Palestina: un paese, uno stato», svoltosi la settimana scorsa a Madrid, ne hanno discusso accademici e attivisti israeliani, palestinesi, sudafricani e statunitensi. Nell'analisi dei partecipanti, dopo il fallimento della Comunità internazionale a imporre un'ipotesi di partizione accettabile da entrambe le parti - a partire dalla risoluzione 181 dell'Onu - i movimenti politici e sociali transnazionali rappresentano lo strumento per imporre nell'agenda politica il discorso dello stato unico, laico e democratico, come unica soluzione del conflitto. E se per l'accademico sudafricano Steven Friedman «il sionismo ci pone di fronte ad alternativa: avere uno stato in cui proteggerci o stare in uno stato nel quale essere perseguitati», l'ex negoziatore dell'Olp Michael Tarazi ritiene che «non si deve essere prigionieri della storia, perché il passato può solo dividere palestinesi e israeliani, ma è il momento di lanciare un messaggio semplice: sì ai diritti, no all'apartheid».

E intervista Omar Barghouti , fondatore della Campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale d'Israele:

Il direttore per il commercio e gl'investimenti dell'ambasciata britannica a Tel Aviv ha scelto le colonne del quotidiano Ha'aretz per cercare di rassicurare il governo israeliano. «Siamo consapevoli dello shock e della rabbia causati qui in Israele da recenti tentativi di boicottaggio da parte di un gruppo di organizzazioni britanniche - ha scritto ieri Richard Salt -. Il governo britannico non può interferire nelle loro deliberazioni interne, ma certamente noi non appoggiamo tentativi di boicottare Israele». Ma il ministro degli esteri olandese, Maxime Verhagen, qualche giorno fa si è fatto portavoce del cosiddetto «disinvestimento». «Mi aspetto che la Riwal smetta di fornire gru per il muro», ha dichiarato Verhagen citando a sostegno del suo «invito» all'azienda di Rotterdam la risoluzione della Corte internazionale di giustizia che nel 2004 stabilì che il muro è «illegale». Delle prospettive del boicottaggio abbiamo discusso con Omar Barghouti, fondatore della Campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale d'Israele, Pacbi (www.pacbi.org), relatore al corso «Palestina/Israele: un paese, uno stato», concluso venerdì scorso a Madrid.

Come si giustifica il boicottaggio contro lo Stato ebraico?
Israele è uno stato che ha violato più principi e leggi internazionali del Sudafrica durante l'apartheid. Il boicottaggio è giustificato dalla violazione di principi legali (le risoluzioni delle Nazioni Unite). Politicamente pone l'accento sui diritti, che devono essere rispettati per entrambe le comunità se si vuole una soluzione giusta del conflitto. Uno degli strumenti più efficaci nelle nostre mani è la Convenzione dell'Onu contro l'apartheid. Proprio come nel Sudafrica segregazionista, in Israele ci sono leggi che discriminano apertamente i cittadini arabi dello Stato. La più importante è quella sulla proprietà della terra, che non attribuisce ai palestinesi alcun controllo su quest'ultima, affidandone la gestione interamente all'Agenzia ebraica.

Che risultati avete raggiunto finora?
Abbiamo iniziato solo tre ani fa, ma le istituzioni e i gruppi della società civile internazionale stanno rispondendo molto bene. La settimana scorsa la Tgwu, un sindacato britannico con 80mila iscritti, ha approvato una risoluzione molto dura di boicottaggio. Così aveva fatto la Unison, il principale sindacato (1.3 milioni d'iscritti), il Cupe dell'Ontario (200mila membri), che sta preparando dei corsi per educare i suoi iscritti al boicottaggio, per non parlare del Cosatu sudafricano che si è mobilitato in massa.

Quando è messo nell'angolo, Israele reagisce con durezza.
Voi europei dimenticate che anche il Sudafrica, quando le campagne di boicottaggio si fecero efficaci, reagì intensificando l'oppressione dei suoi cittadini neri. Il mondo allora si chiese: forse vi stiamo facendo del male invece di aiutare la vostra lotta? La risposta in quel caso fu: no, e continueremo fin quando non avremo abbattuto il sistema di segregazione razziale. Il boicottaggio è la pratica più morale e politicamente efficace, perché non aliena la parte umana della popolazione, da entrambi i lati. In questo modo prepara ebrei e palestinesi alla coesistenza pacifica.

Parlate di boicottaggio, disinvestimento, sanzioni (bds). Quali sono le differenze?
Con disinvestimento s'intende il ritiro degli investimenti da istituzioni o aziende che sostengono l'occupazione. Tutte le aziende israeliane sono complici, perché discriminano già nel momento in cui, per assumere un lavoratore, danno la precedenza a quelli che hanno servito nell'esercito, escludendo in questo modo la minoranza palestinese in Israele (1.2milioni di persone) che non presta servizio militare. Le sanzioni rappresentano l'ultimo gradino e vengono applicate dagli stati e dalla Comunità internazionale.

Il boicottaggio individuale funziona?
Anche non acquistare frutta o fiori prodotti in Israele, conta, e molto. L'Ue rappresenta per i prodotti agricoli israeliani un mercato di miliardi di dollari e lo Stato ebraico ha con Bruxelles un trattato d'associazione che ne fa quasi uno stato membro. Le prime campagne di boicottaggio contro Pretoria iniziarono negli anni '50, ma prima di diventare un fenomeno diffuso bisognò aspettare 30 anni. Noi palestinesi stiamo facendo molto meglio.

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