Molti lettori che lo hanno perso, ci hanno chiesto di pubblicare il lungo articolo di Paul Berman pubblicato dal FOGLIO il 4 luglio 2007.
Lo pubblichiamo diviso in più parti
Di seguito, i capitoli dall'ottavo al nono:
VIII
Buruma però non si è lasciato sfuggire un’altra questione, quella più sostanziale, anche se tale valutazione può sembrare strana, dato tutto quello che sentiamo sull’antisemitismo e la violenza terrorista. E’ la questione dei diritti delle donne. Ed è qui che il linguaggio dialettico di Ramadan ha mostrato tutta la sua flessibilità, andando a toccare tasti antichi e moderni allo stesso tempo: i tasti del rinnovamento musulmano e la volontà di innovare. Nella sua conversazione con Buruma, in merito alla questione del rapporto tra i sessi, ha detto: “Non possiamo dimenticare il corpo. Uomo e donna non sono uguali. Nella tradizione islamica, le donne sono viste come madri, mogli o figlie. Ora la donna esiste in quanto donna”. Queste parole fanno sembrare Ramadan un tradizionalista, cosa certamente vera. Ma le tradizioni in questione non sono l’equivalente di costumi popolari o vestiti contadini tradizionali. Quando parla di “tradizione islamica” in questo passaggio intende il diritto islamico: una questione religiosa, non un uso tradizionale. Ma se il diritto religioso è manifestazione dell’eterno, non c’è ragione per cui Ramadan non debba cercare di esprimere i propri pareri con un linguaggio pienamente moderno, aggiornato e facilmente comprensibile. Perciò si considera, va da sé, un femminista. Anzi: un “femminista islamico”, come tradizionalmente si definiscono i Fratelli musulmani. Nell’islam stesso, secondo le sue parole, si dovrebbe vedere una forza a favore dei diritti delle donne. Al tempo della rivelazione coranica, la considerazione culturale del ruolo della donna nella società era estremamente primitiva, e l’islam la migliorò. L’islam, almeno il suo islam, impone alle donne di portare il velo o il chador, e anche questo dovrebbe essere interpretato come un passo in avanti verso l’autonomia delle donne. Chador e velo, ingressi e settori separati, il divieto generale di mischiare i sessi sono tutte regole e comportamenti che sostengono uno spirito di pudore sessuale, che a sua volta toglie le donne dall’oppressione delle attenzioni maschili. Un pudore liberatorio, da questo punto di vista. E tutto questo, le tesi di Ramadan a favore dei diritti delle donne, si intuisce infine essere parte di una battaglia più vasta, che a sua volta egli esprime con il linguaggio moderno dei diritti. La battaglia per le libertà individuali, per i diritti religiosi, per il diritto di scegliere la propria strada. La sua posizione sulla legge francese sul velo (che nel 2004 ha proibito di portare il velo o il chador e altri simboli ostentatamente religiosi nelle scuole pubbliche) segue esattamente questa linea di pensiero. “I diritti sono diritti”, dice a Buruma. “E pretenderli è un diritto”. Da parte sua, questo tipo di tesi è perfettamente coerente. Ma è strano, o almeno può sembrare strano, vedere che i giornalisti adottino la stessa posizione, e persino lo stesso linguaggio. Ramadan si presenta come un difensore dei diritti delle donne musulmane, e sul Times Buruma lo presenta da par suo come un uomo che “ha promosso il diritto delle donne musulmane di portare il velo nelle scuole francesi”. Una descrizione che avrebbe potuto essere scritta da Ramadan stesso; e una volta che i termini del dibattito sono definiti, non c’è modo di sottrarsi all’impostazione che ne deriva. Così Stéphanie Giry, che si è occupata della recensione nell’apposita sezione del Times, ha esaminato la questione di Ramadan e del dibattito sul velo esattamente dallo stesso punto di vista. Ramadan, a quanto ci dice, si è opposto alla legge sul velo sulla scorta di quelli che definisce “motivi libertari classici, del diritto delle ragazze musulmane di scegliere per sé se coprirsi o meno”. Ma tutto questo dovrebbe lasciarci a bocca aperta. Un lettore, da queste righe, potrebbe anche dedurre che, nel dibattito francese sulla legge sul velo, non ci fossero altri modi di vedere la questione. Che però c’erano, invece. Alcuni erano stupidi, antimusulmani, folcloristicamente francesi e dozzine di altri aggettivi, come in ogni dibattito nazionale. Ma c’era una tesi seria, emersa nel corso dei vari incontri e che avrebbe persino potuto portare all’approvazione plebiscitaria della legge. Tutta questa controversia sul velo a scuola non è nulla di tradizionale o vecchio in Francia. Il problema è emerso solo nel 1989, ovvero nel momento in cui i movimenti islamisti hanno iniziato a prendere vigore, anche se, una volta venuto alla luce, è cresciuto rapidamente, finché le pressioni perché si approvasse una legge in merito sono diventate troppo forti. Ma qual era il punto? Il punto, quello vero, quello che tanta rispettosa attenzione avrebbe dovuto suscitare, era la pari istruzione delle donne, e, allargando, anche pari cure mediche: i fondamenti indispensabili per qualsiasi forma di acquisizione di diritti per le donne. Con la crescita del movimento islamista in Francia, le ragazze e le donne musulmane hanno cominciato a rifiutarsi di partecipare alle lezioni di educazione fisica per gli abiti impudici che l’attività sportiva impone; si rifiutavano di rimanere sole con insegnanti uomini; e di essere visitate o curate da dottori uomini. L’agitazione nei quartieri d’immigrati che mirava a proibire l’insegnamento di Voltaire, Darwin e dei crimini del nazismo attrasse il grosso dell’attenzione pubblica per un lungo periodo; ma forse quelle questioni non erano nemmeno lontanamente decisive come la campagna che allora stava iniziando, sulla base di obiezioni religiose, e che mirava a limitare l’istruzione delle donne e delle ragazze, così come il loro accesso alle cure mediche. Le inchieste hanno svelato un’altra realtà. Un numero piuttosto consistente di ragazze e donne musulmane non desideravano davvero vedere le proprie opportunità in termini di istruzione e assistenza medica ridursi per verecondia anche solo a un poco meno del massimo. Quelle donne e ragazze si rifiutavano di fare ginnastica e quant’altro per una sola ragione: erano sottoposte a pressioni affinché così facessero. Pressione esercitata talvolta dalle famiglie a casa, e altre volte dalla comunità islamica più ampia, in contrapposizione con le famiglie. Pressione che esigeva il rispetto dei precetti islamici, ma non di quelli definiti dalla tradizione esistente tra gli immigrati musulmani, né dalle grandi organizzazioni musulmane, vecchie o nuove, piuttosto di quelli imposti dai nuovi islamisti. Il velo era qualcosa di più che non il simbolo di questa pressione. Si trattava di un meccanismo islamista per il controllo dell’ordine. Era giusto quell’indumento che assicurava che ogni donna o ragazza musulmana che si fosse azzardata ad avventurarsi nella porta sbagliata o a sedersi nell’aula sbagliata fosse istantaneamente visibile a chiunque disapprovasse. Il punto, visto da quest’angolazione, non era che le donne e le giovani musulmane avessero o meno il diritto a indossare il velo a scuola. Il punto era piuttosto se avessero o non avessero il diritto di non indossarlo. L’obiettivo della proposta di legge contenente il divieto di portare il velo a scuola non era quello di annientare la religione musulmana. In quella legge, nulla vietava alle donne di avvolgersi nel proprio velo non appena lasciavano le scuole. L’obiettivo era di trasformare le scuole in una zona al di fuori del controllo islamista, non per un qualche capriccio ideologico, ma per proteggere e cementare una delle più grandi conquiste della società moderna, non ancora pienamente realizzata, ovvero i pieni diritti e benefici per le donne. La battaglia per garantire pari istruzione e servizi sanitari alle donne continua ormai da centocinquant’anni, sempre nella stessa forma, più o meno: una lotta contro sacerdoti oscurantisti, contro patriarchi reazionari e pregiudizi, contro usi sociali profondamente radicati. La controversia dovrebbe essere ormai chiaramente visibile a tutti nel suo insieme. I romanzieri ottocenteschi erano ossessionati da questi temi. E però in qualche modo, nel caso delle donne e delle giovani musulmane nelle scuole e negli ospedali non solo di Francia ma di tutta l’Europa occidentale (per non dire del resto del mondo), tutta la questione dei diritti delle donne, praticamente in ogni suo aspetto, è scomparsa da larga parte dei resoconti dei giornalisti. E il dibattito è stato presentato all’opinione pubblica secondo la versione di Ramadan: una questione di diritti da garantire ai musulmani. O, come ha detto a Buruma, senza che questi ritenesse di dover eccepire alcunché: “I diritti sono diritti”. Ma qui siamo lontani anche solo dall’aver scoperto metà della questione. Il punto davvero enorme riguardo alla questione delle donne è sempre stata la violenza e la brutalità, la violenza dei mariti contro le proprie mogli. Gli stupri di gruppo nei sobborghi francesi (un problema degli ultimi anni che ha portato alla formazione del movimento femminista musulmano Ni Putes ni soumises, “né puttane né sottomesse”, un’organizzazione che secondo Ramadan è ostile agli immigrati musulmani); la violenza dei padri contro le figlie, o dei fratelli contro le sorelle; le mutilazioni genitali imposte alle donne (a volte eufemisticamente descritte da chi non ne ha mai nemmeno sentita una descrizione come semplici “circoncisioni”), che pare ormai siano state perpetrate su 30 mila donne nella sola Francia; il potenziale latente, infine, di veri e propri omicidi: i cosiddetti omicidi d’onore da parte di padri e fratelli a causa di una qualche trasgressione al codice sessuale. Esiste qualcuno di istruito al mondo che non abbia riflettuto qualche istante su questi fatti tremendi? Anche su questa questione, sulla violenza contro le donne, e in particolare la violenza e l’omicidio come forma di punizione per atti di trasgressione sessuale, Ramadan ha assunto una posizione notevole in pubblico, anche se è sempre possibile che l’abbia fatto senza pensarci troppo, come se gli fosse sfuggito di bocca. La sua posizione è emersa durante un dibattito del 2003 con Nicolas Sarkozy (allora ministro dell’Interno francese, ora neopresidente) nel corso del programma televisivo “Cento minuti per convincere”. Sarkozy è arrivato al programma con un espediente da polemista nella manica, e, al momento che più gli pareva propizio, l’ha messo in tavola. Si trattava di una domanda sulla famiglia di Ramadan, in particolare sul fratello maggiore Hani, che ha sempre assunto posizioni più aspre rispetto a Tariq. Le differenze tra i due sono note. Ma la domanda rimane: quanto sono grandi le differenze tra il moderato Tariq e l’estremista Hani? Sarkozy ha citato quella che secondo il maggiore sarebbe la giusta punizione per le donne ree di adulterio. Hani si è detto favorevole alla lapidazione, secondo la legge del VII secolo, di cui è fautore. Che ne pensa Tariq Ramadan, ha chiesto Sarkozy? Qual è la sua posizione? Ian Hamel, in “La vérité sur Tariq Ramadan”, sostiene che la risposta, nella sua franchezza, dimostri che Ramadan non usa alcuna doppiezza linguistica ma dice quel che pensa, senza il minimo sforzo di nascondere le proprie opinioni. E forse è così, anche se si potrebbe sempre ragionevolmente pensare che Sarkozy abbia colto Ramadan alla sprovvista, per cui non avrebbe avuto tempo di elaborare un’espressione moderna e progressista a sostegno delle sue convinzioni religiose e i pensieri gli sarebbero usciti di bocca senza essere prima ripuliti e lucidati. Ad ogni modo, secondo il racconto di Buruma, Ramadan “ha risposto di essere a favore di una ‘moratoria’ su tali pratiche, ma si è rifiutato di condannare apertamente la legge”. Aziz Zemour fornisce una trascrizione di quanto detto in quell’occasione in “Should Tariq Ramadan Be Silenced?”, Tariq Ramadan dev’essere messo a tacere?, che tra l’altro esemplifica molto bene la passione francese per le ellissi, usate come punteggiatura espressiva:
Sarkozy: Una moratoria... Ramadan, parla seriamente? Ramadan: Aspetti, mi faccia finire. Sarkozy: Una moratoria, cioè noi dovremmo, per un po’, astenerci dal lapidare le donne? Ramadan: No, no, aspetti… cosa significa moratoria? Una moratoria vorrebbe dire mettere fine del tutto all’applicazione di quelle pene, in modo da poterne discutere seriamente. La mia posizione è questa: se raggiungiamo un consenso tra i musulmani, avrà necessariamente fine. Ma non si può, lo sa, quando si è in una comunità… Oggi in televisione posso ingraziarmi i francesi all’ascolto dicendo “io, la mia posizione”. Ma la mia posizione non conta. Quel che importa è indurre un cambiamento nella mentalità musulmana. Lei deve capire... Sarkozy: Ma, Ramadan… Ramadan: Mi faccia finire. Sarkozy: Solo una cosa. Io la capisco, ma i musulmani sono esseri umani che vivono nel 2003 e in Francia, dato che stiamo parlando della comunità francese, e lei ha appena detto una cosa del tutto incredibile, cioè che la lapidazione delle donne, sì, la lapidazione è un po’ impressionante, ma basta dichiarare una moratoria, poi possiamo pensarci e decidere se è bene… Ma è mostruoso! Lapidare una donna per adulterio! Non si può non condannarlo! Ramadan: Ascolti bene quello che dico. Io dico, ed è la mia posizione, che la legge non è applicabile, è chiaro. Ma oggi parlo ai musulmani di tutto il mondo e faccio parte, anche negli Stati Uniti, del mondo musulmano…. Bisogna assumere una posizione pedagogica, che porti la gente a discutere. Lei può decidere da solo di essere un progressista nella comunità. E’ troppo facile. Oggi la mia posizione è questa, “dobbiamo smettere”. Sarkozy: Ramadan, se non voler lapidare una donna è regressista, ammetto di essere regressista.
Circa sei milioni di francesi hanno assistito a questo dibattito. Di questi, il numero di immigrati musulmani doveva essere enorme, proprio quelle persone che avrebbero potuto trarre vantaggio dal sentir parlare qualcuno con la massima chiarezza contro la violenza sulle donne. Ramadan non l’ha saputo fare. Questo è stato il momento qutbiano, un momento da brivido. Il VII secolo è apparso improvviso, spuntato da dietro la retorica moderna del femminismo e dei diritti. Un momento di barbarie. Un sussulto. Tutto il mondo delle donne musulmane improvvisamente dispiegato sugli schermi televisivi della Francia intera: un mondo di violenza tollerata, santificata e persino ordinata dalle più alte autorità. Ed ecco Sarkozy, che indietreggia inorridito: il borghese, finalmente sconvolto. Comunque, Sarkozy ha avuto modo di aggiungere altro. Ramadan ha scritto un’altra prefazione, a introduzione di un libro che cita passaggi del Corano in cui si comanda ai mariti di picchiare le mogli in determinati casi, anche se il libro sosteneva che picchiare significasse solo un lieve schiaffo, senza arrivare alle ferite fisiche. “Siamo grati di questi consigli e raccomandazioni”, ha commentato causticamente Sarkozy. Eppure, ecco un’altra peculiarità, alcuni, non solo i riformisti salafiti, si sono convinti del fatto che Ramadan sia uscito piuttosto bene da quel dibattito. E’ il caso per esempio di Olivier Roy, uno dei maggiori esperti mondiali in quanto a islam e cultura musulmana. Nel suo ultimo libro, “Islam mondialisé”, (l’islam globalizzato), Roy sostiene la tesi secondo cui la posizione di Ramadan sulla lapidazione non sarebbe solo comprensibile, per ragioni che gli esperti supremi sanno riconoscere, ma, in senso assoluto, positivamente progressista: una bella spinta in avanti per il laicismo, niente di meno, fondata sul principio di separazione tra stato e chiesa; Ramadan stava quindi affermando l’autonomia della sua sfera separata, ma sempre con quel giusto tocco di ammirevole ipocrisia che evita di entrare in collisione con il diritto laico. Da questo punto di vista, Sarkozy nel dibattito è stato un oppressore tirannico, e Ramadan il progressista; ma, poi, lasciamo stare i ragionamenti. Il fatto è che Ramadan ha fatto una buona cosa. Buruma sul Times è un po’ più guardingo:
Parlando con lui a Londra, la semplice menzione della parola “lapidazione” lo ha portato a una lunga spiegazione. “Personalmente – mi disse – sono contrario alla pena capitale, non solo nei paesi musulmani, ma anche negli Stati Uniti. Ma se vogliamo far sentire la nostra voce nei paesi musulmani, quando si discute di questioni religiose, non possiamo limitarci a dire che deve finire. Io penso che debba finire. Ma dobbiamo discuterne all’interno del contesto religioso. Ci sono i testi di mezzo. Non parlo solo ai musulmani d’Europa, ma mi riferisco all’attuazione dell’huddud in tutto il mondo, in Indonesia, in Pakistan e nel medio oriente. E parlo ai musulmani da dentro. Parlare loro dal di fuori sarebbe controproducente. E Buruma, nel suo articolo, si limita a questo. Per ora. Non aggiunge nemmeno un commento di suo pugno, nemmeno un’osservazione scettica che dica qualcosa come “questo potrebbe non essere del tutto vero”, come aveva fatto per il ritratto di Hassan al Banna e del suo parlamentarismo di stampo britannico tratteggiato da Ramadan, anche se in questo caso il commento avrebbe dovuto essere qualcosa di simile a “questo può essere civile o meno”. E però Buruma si dilunga su di un aspetto del pensiero di Ramadan nell’articolo, e cioè il principio secondo cui egli parlerebbe ai musulmani da dentro, invece che da fuori. Una questione di pragmatismo. Buruma invita i lettori a passeggiare con lui lungo Brick Lane, nell’East End di Londra, l’antico quartiere tradizionalmente luogo d’immigrazione, che, come nota con un tocco di pathos, “era una volta un povero quartiere ebraico, dove i rifugiati in fuga dai pogrom russi tiravano avanti coi loro mercati domenicali, i negozi d’abbigliamento a basso costo e refettori kosher”. Gli immigrati di Brick Lane, oggi, vengono dal Bangladesh e dal Pakistan. Tra queste scene colorate e toccanti, Buruma osserva Ramadan e lo mette a confronto con un altro intellettuale musulmano, Ayaan Hirsi Ali, la donna somala che, dopo aver subito tante esperienze raccapriccianti in Africa e in Arabia Saudita, è fuggita in Olanda per darsi a una nuova vita di studi accademici e attivismo liberale, con film e libri, uno dei quali intitolato “Infedele”, un altro il cui sottotitolo recita “un proclama di liberazione per le donne e l’islam” (in Italia tradotto liberamente con “Non sottomessa. Contro la segregazione nella società islamica”). Secondo Buruma, Ayaan Hirsi Ali e Tariq Ramadan si assomigliano molto, da un certo punto di vista. “Anche la missione della Ali è di diffondere dei valori universali. Anche lei parla di riforme”, anche se sono costretto a interrompere questa citazione per ricordare che l’idea di Buruma dei valori universali di Ramadan si fonda su di un’incomprensione filosofica, e la sua nozione del riformismo di Ramadan riflette un semplice errore fattuale. Continua: “Ma ha rinunciato alla sua fede nell’islam. Dice che è retrogrado e perverso. Di conseguenza, ha avuto più successo presso i laici non musulmani che non presso quel tipo di persone che fanno la spesa dalle parti di Brick Lane”. Mentre, questo sottintende Buruma, lo stesso non vale per Ramadan, la cui credibilità è rimasta intatta. In breve, Ramadan ha preso la decisione giusta quando si è rifiutato di condannare la pratica della lapidazione femminile, non per le ragioni addotte da Roy (una spinta in avanti per il laicismo sulla base di principi forti) ma per ragioni politiche: preservare la propria attendibilità in luoghi come Brick Lane. Si tratta in fondo di un’argomentazione nota, all’incirca la stessa usata da Sartre per spiegare perché si rifiutava di condannare l’Unione Sovietica. Sartre invitava il pubblico a pensare ai sobborghi industriali di Parigi, Billancourt, dove lavoratori ignoranti credevano nel comunismo e nel futuro dell’Unione Sovietica. Non voleva demoralizzare gli oppressi, non voleva désespérer Billancourt. Per questo si mordeva la lingua. Se mai i lavoratori fossero venuti a sapere la verità sui sovietici, non sarebbe stato dalla sua bocca. Quindi Ramadan ha ragione a non voler désespérer Brick Lane con una condanna semplice e diretta della violenza contro le donne. Inutile dire che nella colonna della Giry nella sezione dedicata alle recensioni del New York Times troviamo un’altra valutazione positiva. La Giry sostiene che il rifiuto di condannare la lapidazione può trovare la nostra solidarietà, perché, come scrive, “è espressione della sua posizione, secondo cui ogni società deve decidere da sola come attuare i valori dell’islam”. Un’argomentazione a favore dell’autodeterminazione. Vien quasi da ridere a notare che Roy, Buruma e Giry sono in pieno disaccordo sui motivi per cui Ramadan avrebbe fatto bene ad assumere quella posizione, ma del tutto d’accordo sul fatto che, indipendentemente dalla logica soggiacente, abbia fatto bene. Andare in televisione e condannare in modo inequivocabile la lapidazione di una donna musulmana: ciascuno vede certamente quanto sarebbe stato sbagliato, tanto più per un progressista che ha a cuore i valori laici e si preoccupa dell’oppressione, della povertà e del colonialismo. Impressionante. Ma c’è dell’altro, collegato all’intellettuale musulmano che Buruma ha così impietosamente paragonata all’ammirevole Ramadan, e cioè con l’autrice di “Infedele” e del proclama d’emancipazione per le donne e l’islam, Ayaan Hirsi Ali. Le critiche che le dirige sul Times non nascono dal nulla. Un anno prima aveva pubblicato un articolo di terza pagina, sempre sul Times, in cui criticava Hirsi Ali, anche se su di una base più ampia, ovvero perché, a suo modo di vedere, avrebbe gettato benzina sul fuoco del razzismo antimusulmano della destra. Più recentemente ha recensito “Infedele” per il Times attaccandola una volta di più e suggerendo che l’appassionato fervore con cui denuncia l’aumento dei delitti d’onore nel mondo poteva essere collegato al fondamentalismo musulmano. La critica più ampia appare in “Assassinio ad Amsterdam”, il libro sull’omicidio di Theo van Gogh, collega di Hirsi Ali nella produzione di film, trovato morto per strada con un coltello nel petto a fermare un foglio di carta che recava minacce di morte rivolte a lei. Nell’articolo sul Times, Buruma fa solo un riferimento indiretto a questo delitto e alle minacce, dicendoci che “dopo aver fatto il pieno di controversie in Olanda”, non solo si è trasferita a Washington, ma ha anche iniziato a lavorare all’American Enterprise Institute. Un modo particolarmente aggraziato di descrivere gli eventi, ben impacchettato con l’allusione furtiva che la signora si è venduta ai neocon. Almeno in “Assassinio ad Amsterdam”, Buruma spende una buona parola di circostanza per lei; il libro si conclude così: “Ayaan Hirsi Ali ha dovuto lasciare le scene. Il mio paese sembra più piccolo senza di lei”, riconoscendo almeno con un minimo di decenza che forse se n’è andata dall’Olanda per motivi che vanno oltre il risentimento e la voglia di ripicca. Ma il volume è infarcito di argomentazioni e insulti in rapida successione, con accuse di fanatismo, di usare argomentazioni intellettuali non diverse da quelle dell’assassino di Theo van Gogh (“due fondamentalismi”), di usare lo stesso zelo dei Fratelli musulmani nelle sue teorie contro di loro, di esagerare i pericoli che deve affrontare, di essere veemente e arrogante, e aristocraticamente snob (“è stato proprio questo cenno, questo grazioso gesto di sdegno, questo rifiuto quasi aristocratico di fronte a un inferiore pernicioso a infastidire i suoi critici più di ogni altra cosa”) e così via: pagine scritte in un potente lampo di rabbia, rispetto al modo solitamente flemmatico di Buruma. Alcuni capitoli di “Non sottomessa” (il libro nel cui sottotitolo compare l’idea di “proclama di emancipazione”), tra gli altri, sono intitolati “Le mutilazioni genitali non devono essere tollerate”, “Come affrontare con maggiore efficacia la violenza domestica”, e “Musulmane, fate rispettare i vostri diritti!”. Un altro ancora è intitolato “Concedeteci un Voltaire”, e questo è davvero troppo per Buruma. Che scrive: “Ayaan Hirsi Ali non è stata un Voltaire. Perché Voltaire ha scagliato i suoi insulti contro la chiesa cattolica, una delle due istituzioni più potenti del XVIII secolo francese, mentre Ayaan si è presa il rischio di offendere solo una minoranza che già si sentiva vulnerabile nel cuore dell’Europa”. Voltaire è stato coraggioso, ma questa Hirsi Ali? Un bullo. Perché l’ha fatto, Buruma? Perché così ampiamente e ripetutamente? Perché tre articoli a condanna di Hirsi Ali solo sul Times, anche tralasciando il libro? Le critiche che sembra sollevare sul Times, anche le più consistenti, sono assurdamente esili. Nota che, dati gli insulti voltairiani all’islam, Hirsi Ali ha vanificato tutte le possibilità eventuali di farsi degli amici e di influenzare la gente di strade come Brick Lane. E’ vero? Mi domando se le donne musulmane appassionate di lettura che popolano le zone d’immigrazione in Europa non sbircino di soppiatto i suoi libri, prendendo qualche coraggiosa decisione per loro stesse. Anne Applebaum ha riflettuto su questa possibilità sul Washington Post, facendo tra l’altro notare che contro Hirsi Ali è stata montata una grande campagna. In Olanda, la scrittrice Margriet de Moor, chiamata a dire la sua sul recente dibattito in merito all’intervento di Buruma, ha insistito sul fatto che in realtà Hirsi Ali è stata incredibilmente efficace nel rivolgersi alle donne musulmane. “E qualcuno sostiene che non abbia raggiunto coloro a cui voleva parlare?”. Lei la pensa diversamente: “Segretamente, però, tutte loro hanno bevuto avidamente quello che ha detto, con le orecchie in fiamme”. Ramadan stesso ha osservato mestamente che la stragrande maggioranza dei musulmani europei è tutt’altro che devota. Anche se bisogna aggiungere che in molti luoghi la minoranza di devoti ha intimidito la maggioranza. E’ tuttavia innegabile che Hirsi Ali si trovi ora in una posizione non proprio ideale per via delle critiche mosse all’islam e indirizzate proprio a questa minoranza religiosa e a tutti i suoi seguaci. Ma resta difficile spiegarsi il perché di tanta animosità da parte di Buruma. Neanche Salman Rushdie ha mai fatto molto per ingraziarsi la simpatia di certi ambienti – e non gliene faccio una colpa, visto il trattamento ricevuto in cambio. Hirsi Ali è una memorialista e una tractariana (una seguace, cioè, del Movimento di Oxford per il rinnovamento della chiesa anglicana di cui fece parte anche il cardinal John Henry Newman prima di convertirsi al cattolicesimo, ndr), e non vedo perché dovrebbe sottostare a regole diverse. Come lei stessa ha dichiarato più volte, la sua fuga in Olanda ha avuto come unico scopo quello di sottrarsi ai giudizi di un certo fanatismo e di battersi in nome della libertà individuale, e il suo continuo impegno ne è una dimostrazione evidente. Quindi, perché è oggetto di certi attacchi? Provando a sfogliare uno qualsiasi dei suoi libri e leggendo qualche riga qua e là, si scopre un mondo in netto contrasto con quello descritto dai suoi detrattori. Buruma – ma non è il solo – dipinge Hirsi Ali come un’acerrima nemica dell’islam, sempre pronta a scagliare insulti. Cosa che, a essere sinceri, Hirsi Ali non perde occasione di fare, e con grande foga. Ma non è questo il tema principale delle sue battaglie. Nei suoi libri, e nel film che ha realizzato con Van Gogh, è impegnata a descrivere e a condannare la miseria che le donne sono costrette a subire in quella porzione del mondo musulmano a lei più familiare – l’Africa orientale e l’Arabia Saudita, insieme a quelle zone dell’Europa ad alta concentrazione di immigrati. Il suo resoconto di quando, ancora ragazzina, dovette subire la mutilazione dei genitali; e di quando la stessa sorte toccò alla sorella, la cui tragica vita si spense con il suicidio; l’adolescenza e il matrimonio, gli anni in Somalia, Kenya ed Etiopia, senza contare il matrimonio contro la propria volontà e da cui infatti scappò via; il ritratto della nonna, il nomade somalo, i costumi patriarcali del passato, che tuttavia sembrano voler perdurare; l’orrore che provò, da ragazza, la prima volta che vide le donne saudite, donne senza volto e senza corpo, prigioniere del velo e del burka, tanto che per capire da che parte sia il volto c’è da guardar loro le scarpe; la descrizione dei centri d’accoglienza olandesi riservati alle donne musulmane fatte oggetto di abusi; il racconto degli orrori che costellano le vite dei rifugiati, ancor più atroci per le donne – tutto ciò esprime qualcosa che mai potrà essere colto da un certo giornalismo intellettuale. E’ rabbia viscerale contro l’oppressione. E’ indignazione morale e non nostalgico pragmatismo. Nei suoi libri, Hirsi Ali solleva principalmente la questione dei diritti delle donne, e il suo non è il punto di vista di un’outsider, nonostante sia stata accusata di presentarsi come una figura estranea al mondo musulmano. La sua è una storia fortemente segnata dai coltelli – utilizzati per la mutilazione dei suoi genitali e quelli della sorella; il coltello che ha ucciso l’amico e collega Van Gogh, usato dall’omicida per fissare sul petto della vittima un foglio con le minacce di morte indirizzate a lei. Non ci troviamo di fronte a un professore svizzero, ma a un vero insider! Immagino che tutta questa seria indignazione possa solo risultare noiosa a un certo tipo di sensibilità raffinate. C’è qualcosa in questi coltelli che si porta via quella qualità di astrazione necessaria affinché si possa minimizzare un problema sociale. Il linguaggio ricercato e sottile è sempre ben accetto, ma Hirsi Ali e i suoi scritti hanno il potere di far apparire ridicole tutta una serie di sfumature e sottigliezze. Nel caso di Hirsi Ali, la sua posizione riguardo alle donne vittime della lapidazione o delle percosse dei loro mariti è netta e chiara a tutti, basta leggere una pagina a caso dei suoi libri; è poi sufficiente leggerne un paio per sospettare che l’uomo intervenuto sugli schermi francesi per difendere gli oppressi abitanti dei quartieri più poveri d’Europa è Nicolas Sarkozy. Deve essere proprio questo il problema, visto dalla prospettiva di Buruma. Questo gran parlare di diritti delle donne – non porta forse a concludere (ed è questo il grande mistero dei nostri giorni) che si tratta di posizioni care ai conservatori? Meglio il VII secolo che Sarkozy. Se esiste un establishment intellettuale, e io credo di sì, è esattamente da quel nucleo che partono gli attacchi a Hirsi Ali. E tutta questa propaganda contro di lei – come anche l’aggressione antisemita subita dalla folla durante la manifestazione per la pace nel 2003, a Parigi; o lo spettacolo offerto da milioni di cittadini del Regno Unito che marciano sotto la leadership di un’organizzazione islamista; o i dibattiti che ci regala il New York Times sul perché sarebbe sbagliato condannare senza appello la morte per lapidazione inflitta alle donne – tutto questo rappresenta una novità assoluta. Da qui nasce la nuova tendenza che si è diffusa tra giornalisti e intellettuali, una strada che l’ascesa di Ramadan ha contribuito a illuminare. Solo fino a qualche anno fa, una campagna accusatoria come quella sostenuta contro Hirsi Ali non avrebbe trovato posto. Un forte attacco a un’autentica dissidente liberal impegnata a denunciare le innumerevoli ingiustizie perpetrate in angoli remoti del pianeta e perfino nelle periferie dell’Europa occidentale; un attacco che sembra quasi aver cancellato da ogni dibattito le vessazioni subite dalle donne e la lotta per i loro diritti – no, tutto questo non sarebbe potuto accadere, eccetto che nell’estrema destra. Siamo di fronte a un evento del tutto nuovo, una rivoluzione copernicana per tutto il mondo intellettuale.
IX
Questa svolta ha tuttavia provocato una reazione a catena dagli sviluppi piuttosto avvincenti. In Europa, negli ultimi mesi, abbiamo assistito allo scatenarsi di un’aspra polemica sul giornalismo praticato da Buruma, scoppiata in Germania sulle pagine online di un giornale in lingua inglese, il signandsight.com (il nome è un gioco di parole che rimanda al più noto Sein und Zeit di Heidegger, benché ignoro cosa Heidegger abbia a che fare con tutta questa storia); e dalle zone oscure del cyberspazio la polemica si è spostata sulle pagine dei quotidiani, diventando presto un tormentone in mezza Europa: Olanda, Danimarca, Svezia, Ungheria, Italia, Svizzera e Francia. Un primo libro che accenna allo scandalo è già apparso in Germania, “Welche Freiheit: Plädoyers für eine offene Gesellschaft” (“Quale Libertà: Argomenti a Favore di una Società Aperta), un’antologia edita da Ulrike Ackermann, cui lo stesso Buruma ha contribuito con un adattamento dal suo “Omicidio ad Amsterdam”. Un secondo libro è in fase di stesura. A dare il via alla polemica, in linea con il lavoro di tutta una vita, è stato lo scrittore francese Pascal Bruckner. Il gruppo di intellettuali francesi noti come i Nuovi Filosofi divenne famoso, circa trent’anni fa, per aver criticato il comunismo e tutto l’insieme di dottrine totalitarie – un duro colpo per il comunismo e per gli ideali che lo sostenevano in Europa. Ma il contributo di Bruckner a questa letteratura ha virato, seppur lievemente, in un’altra direzione. Bruckner ha scritto una critica della dottrina di sinistra, al tempo nota come “terzomondismo” – e cioè la speranza che i paesi più poveri, ex colonie e semicolonie, in conseguenza della lotta contro l’imperialismo occidentale, avrebbero fornito un’alternativa rivoluzionaria su scala mondiale, una sorta di nuovo e appassionato socialismo, una cultura innovativa. Questa dottrina venerava i leader rivoluzionari come Mao, Ho Chi Minh e Fidel Castro non perché comunisti, ma quali leader della rivoluzione del Terzo Mondo. Ma Bruckner, scrivendo dell’idea “terzomondista”, notò che tra la brava gente di sinistra dei paesi occidentali, la simpatia per gli oppressi delle ex colonie si era tramutata in un disprezzo impietoso, senza che nessuno se ne fosse accorto. Il libro, intitolato “Il Singhiozzo dell’Uomo Bianco”, offre un magnifico resoconto della sinistra europea e dei suoi clichés sui poveri e sugli oppressi di terre lontane – un vasto assortimento di fantasticherie sulla figura del Buon Selvaggio e del popolo oppresso e corrotto dai ricchi colonialisti europei. Il libro è una dimostrazione di come, partendo da una combinazione di senso di colpa e compiacente ignoranza, gli intellettuali europei abbiano finito col ridare vita alle peggiori fantasie razziste e colonialiste nel dipingere i popoli diversi da noi, con il colore della pelle diverso dal nostro: la loro saggezza, le virtù, il loro altruismo, l’acume e, soprattutto, la preziosa qualità dell’essere diversi. Nel corso degli anni, Bruckner è tornato su questi temi e proprio l’anno scorso è uscito il seguito di “Il Singhiozzo dell’Uomo Bianco”, aggiornato ai nostri tempi e intitolato “La Tirannia della Penitenza”, in cui il “Terzo Mondo” è stato rinominato “Sud” e gli imperialisti sono diventati le forze della globalizzazione. Bruckner torna ad analizzare gli intellettuali progressisti dei paesi occidentali e il modo in cui, ormai privi di ogni senso di colpa per i crimini commessi in passato, hanno aggiornato le loro fantasie sui popoli di altre regioni senza averle realmente modificate. Data la varietà dei suoi libri, Ian Buruma è stato giudicato la persona ideale a tracciare il profilo di Tariq Ramadan per il New York Times Magazine; allo stesso modo, Pascal Bruckner è risultato la persona ideale per scrivere di Ian Buruma. Bruckner ha sottolineato alcuni elementi peculiari nella campagna di Buruma contro Hirsi Ali e ha preso nota del contributo fornito a questi attacchi da Timothy Garton Ash sulla New York Review of Books. Ne ha quindi ricavato una vera e propria analisi filosofica, concludendo che Buruma e Garton Ash sono caduti nella trappola dei miasmi intellettuali della sensibilità postmoderna, e che questi miasmi li hanno portati, attraverso errori di relativismo e di un multiculturalismo esasperato, al più lapalissiano tra gli sbagli filosofici: l’impossibilità di tracciare anche la più elementare delle distinzioni. Nel pensiero postmoderno, l’Illuminismo viene visto come l’ennesima serie di pregiudizi culturali, forse anche peggio – un tipo di fanatismo incapace di controllare i propri eccessi. Da questo punto di vista, Hirsi Ali, cresciuta all’ombra del radicalismo islamico e dei Fratelli musulmani in Africa, fedele al razionalismo e alla libertà individuale, è semplicemente passata da un tipo di fondamentalismo a un altro – e dunque non così diversa dall’assassino di Van Gogh. Ma queste critiche indicano solo che certa gente non è più capace di distinguere tra un fanatico omicida e chi, come Hirsi Ali, sostiene razionalmente le proprie tesi. Come sottolineato da Bruckner, si tratta del “razzismo degli antirazzisti”. Un razzismo che pretende di battersi in favore degli oppressi, ma allo stesso tempo si rifiuta di concedere a una donna venuta dall’Africa il diritto di avvalersi degli strumenti di analisi propri dell’Illuminismo e prerogativa degli europei. Bruckner ha notato il tono volgare utilizzato nei confronti di Hirsi Ali – un esempio su tutti, la condiscendenza “maschia” con cui Garton Ash suggerisce sulle pagine del New York Review che il successo letterario di Hirsi Ali sia fondamentalmente dovuto al suo aspetto fisico. “E’ sbalorditivo – scrive Bruckner – che a 62 anni dalla caduta del Terzo Reich e 16 anni dopo la caduta del Muro di Berlino, un importante segmento dell’intellighenzia europea sia impegnato contro i sostenitori della democrazia”. Una critica piuttosto dura, la sua, ma supportata da tanti altri. Chissà cos’avrà pensato Buruma della scrittrice turca Necla Kelek e di Bassam Tibi, e delle feroci critiche con cui sono intervenuti nel dibattito. Stando al giudizio di Necla Kelek, gli scritti di Buruma presentano una serie di nuovi stereotipi sui musulmani, che gli impediscono di notare tutto un insieme di pericoli – in primis, il problema sempre più urgente dei musulmani in Europa che proibiscono alle loro donne di ricevere assistenza sanitaria da medici maschi. Bassam Tibi, pur non stimando particolarmente Hirsi Ali, è indignato perché ritiene che Buruma non sia in grado di distinguere tra islam e islamismo, tra religione e ideologia totalitaria. E’ indignato perché Buruma ha concesso a Tariq Ramadan il diritto di parlare a nome dell’islam; ed è indignato perché Buruma non riconosce le virtù di un nuovo e genuino islam europeizzato, che mai avrà qualcosa in comune con il movimento salafita. Inoltre, con grande sorpresa, Buruma e Garton Ash si sono rivelati oltremodo impacciati nel fornire una risposta appropriata a queste critiche, respingendole in maniera piuttosto confusa. Garton Ash non ha dato il meglio di sé. La prima delle sue repliche a Bruckner iniziava così: “Pascal Bruckner è l’equivalente intellettuale di un ubriaco che vaga barcollando nella notte” e via dicendo, con l’intento principale di dimostrare che Bruckner, nella sua ubriachezza, aveva fallito nel tentativo di provare l’esistenza di un qualsiasi tipo di problema. Il secondo intervento di Garton Ash lo ha portato a barcollare un po’ più lontano, in Germania. Ulrike Ackermann lo ha duramente criticato e questo non deve avergli fatto molto piacere. Anni fa, Garton Ash era considerato un eroe del movimento dissidente anticomunista nel Blocco dell’est. Di sicuro era un eroe per molti di quelli che, come me, leggevano i suoi articoli nei paesi occidentali – un giornalista che, forte della propria inclinazione per le vicende drammatiche, portò alla luce le lotte interne al Blocco sovietico durante gli ultimi anni del regime comunista. Garton Ash era un’indiscussa autorità per quel che riguardava la natura e la necessità di esistenza del movimento dissidente. Ma anche la Ackermann ne faceva parte ed era considerata un’eroina, avendo preso le difese dei partigiani dell’organizzazione cecoslovacca Charter 77 e segnando così uno dei momenti più importanti nella storia del movimento dissidente, in un tempo in cui quasi nessuno nella sua Germania ovest, o nel mondo occidentale in genere, prestava attenzione a questi avvenimenti. E per questo fu arrestata dalle autorità comuniste a Praga e incarcerata per sei settimane. Ulrike Ackermann ha riconosciuto in Hirsi Ali l’erede dei dissidenti del Blocco sovietico – mentre Garton Ash si è trasformato in quel tipo di persona che, non avendo apprezzato le conquiste ottenute dalla democrazia liberale nei paesi occidentali, non ha mai desiderato la fine del comunismo. “Proprio per aver sostenuto i dissidenti dell’Europa centrale – qualcosa che mi riguarda da vicino – trovo assurdo che Timothy Garton Ash sia diventato un simpatizzante di Tariq Ramadan”, scrive la Ackermann. La replica di Garton Ash è apparsa sul Guardian, con una critica ancora più aspra contro Hirsi Ali. Di ritorno da un breve soggiorno in Egitto, Garton Ash ha voluto sottolineare l’esistenza di altri dissidenti e intellettuali nel mondo musulmano, di gran lunga migliori della femminista voltairiana. E ha citato un esempio di prim’ordine: il prozio di Tariq Ramadan, Gamal al Banna, fratello minore di Hassan al Banna. Garton Ash e Tariq Ramadan sono stati colleghi al St. Antony’s College di Oxford, e Garton Ash si era già espresso in favore di Ramadan sulle pagine della New York Review of Books, all’interno di un articolo in cui esaltava il brillante giornalismo di Ian Buruma, e quindi, qualunque sia stata la strada, il cammino dal St. Antony al prozio di Ramadan non deve essere stato difficile da seguire. Sul Guardian, Garton Ash descrive l’abitazione di al Banna, parla di come si sia trovato in soggezione di fronte alla quantità di testi religiosi presenti in casa: un segno tangibile di grande erudizione, è sembrato voler suggerire. Garton Ash contrappone all’erudizione del teologo egiziano l’ignoranza abissale di Hirsi Ali, mettendo a confronto una dichiarazione di al Banna con uno dei commenti critici sull’islam di Hirsi Ali. A questo punto, fuori di sé, denuncia l’assoluta inferiorità della scrittrice. Non contento, si rivolge ai lettori e chiede: “Dei due, chi pensate che riveli una maggiore conoscenza dell’islam? Chi ha maggiori possibilità di persuadere il popolo musulmano che si può essere fedeli ad Allah e allo stesso tempo membri di una società libera?” Garton Ash avrà pensato di aver smascherato finalmente la presunzione di Hirsi Ali. Che peccato! Sul serio, è veramente un gran peccato! Lo stesso giorno in cui l’articolo usciva sul Guardian, il Middle East Media Research Institute (Memri) rendeva pubblico il rapporto su Gamal al Banna, offrendo un’immagine del teologo molto meno lusinghiera di quella proposta da Garton Ash. Gamal al Banna, infatti, ha elogiato – è terribile dover riportare queste notizie – gli autori degli attacchi terroristici dell’11 settembre e, parole di al Banna, “l’estremo coraggio della loro azione,” che è stata “terrificante e splendida,” in contrapposizione al “capitalismo barbaro” degli Stati Uniti. E non è tutto. Al Banna ha anche espresso parole di sostegno agli attentatori suicidi palestinesi. Queste dichiarazioni sono state riprese dalla televisione; le sue opinioni non erano un segreto. Si potrebbe obiettare che l’errore di indicare in al Banna un modello di dissidente sia comprensibile, e che l’errore sia stato causato (è una mia supposizione) dall’urgente bisogno di tirar fuori un nome, uno qualunque, da usare per sferrare l’ennesimo attacco all’autrice del proclama di emancipazione per le donne e l’islam.” E tuttavia c’è qualcosa di misterioso, quasi inquietante, in relazione a quanto spesso la necessità di fare giornalismo su questi temi abbia portato i critici di Hirsi Ali e i sostenitori di Tariq Ramadan sullo stesso territorio dei grandi teorici del terrorismo suicida. La difesa di Buruma non è stata altrettanto disastrosa, e tuttavia si è ostinato nel non voler ammettere i motivi che hanno spinto Bruckner e gli altri giornalisti e scrittori a intervenire nel dibattito. Non è stato in grado neanche di riconoscere le cause per cui qualcuno abbia pensato che lui, l’affabile autore di “Omicidio ad Amsterdam”, avesse promosso una lunga, inspiegabile e facinorosa campagna contro l’icona liberal africana più rappresentativa tra i difensori dei diritti delle donne. Buruma ha scritto: “Se è vero che Bruckner è stato così gentile da leggere il mio libro, non mi è chiaro come sia arrivato a concludere che si tratta di un attacco contro Ayaan Hirsi Ali”. E ha aggiunto: “Sono un estimatore di Ayaan Hirsi Ali, e condivido la maggior parte delle sue opinioni”. Ma certo, lui condivide! Questo è esattamente ciò che ha detto di Ramadan: “Condivido la maggior parte delle sue opinioni.” C’è qualcosa di estremamente fastidioso in tutta questa cordialità. Se almeno Buruma avesse trovato il coraggio di ammettere che le sue critiche potevano essere lette da qualcuno come dei veri e propri attacchi, e che in questo modo si attribuiva a Hirsi Ali la responsabilità di aver scaldato pericolosamente gli animi tra i musulmani d’Europa. Avesse avuto il coraggio di assumersi la responsabilità di aver consacrato Ramadan come interlocutore ideale nel dialogo tra islam e occidente – “un ritratto esaltante,” stando alle conclusioni di Bruckner, che “rasenta l’agiografia, seppur con minori riserve”. Mi accorgo solo adesso, seguendo la logica di quanto scritto finora, di aver tirato in ballo l’orribile parola “coraggio”. Questo potrebbe essere il nocciolo della questione. Bruckner sembra pensarla così: “Probabilmente la cultura del coraggio è ciò che più manca agli intellettuali moderni.” Questo è esattamente il tipo di commento che Buruma trova detestabile. La parola “coraggio” lo rimanda ai tempi del fascismo. Per tutta risposta, Buruma ha bofonchiato: “Quando mai si è parlato di coraggio prima d’ora? Di fronte al bisogno di difendere l’Europa dallo straniero; dalla voce di intellettuali frustrati, insicuri, smidollati…” Buruma vuole rimandare i suoi lettori alla retorica fascista nell’Europa degli anni Trenta, agli slogan degli intellettuali nazisti. E tuttavia qualcosa sembra essergli sfuggito. Nel suo “Omicidio ad Amsterdam”, descrive un tormentato viaggio su un’auto blindata in compagnia di Hirsi Ali e delle sue guardie del corpo, nervosamente impegnate a proteggere la loro assistita da un possibile attacco omicida. A giudicare dal libro di Buruma, lo sbaglio più grave di Hirsi Ali sarebbe stato quello di partecipare a un dibattito ripreso dalla televisione olandese e organizzato all’interno di un centro di Amsterdam per l’accoglienza alle donne immigrate, dando di sé l’immagine di una snob. Tuttavia sarebbe stato forse più giusto concentrarsi sul fatto che la maggior parte delle donne presenti al dibattito indossava maschere nel timore d’essere riconosciute; e difatti, di lì a poco, Hirsi Ali è stata costretta a cercare rifugio nei centri di accoglienza a causa delle minacce di morte ricevute. Quando l’ho incontrata l’anno scorso, durante una conferenza in Svezia, Hirsi Ali era scortata da almeno cinque guardie del corpo. Perfino negli Stati Uniti riceve protezione. Ma ormai questa dei bodyguard è una pratica diffusa. Lo stesso Buruma in “Omicidio ad Amsterdam” cita l’esempio di un ministro olandese, il socialdemocratico Ahmed Aboutaleb, costretto a vivere sotto scorta 24 ore su 24. Sempre in occasione della conferenza in Svezia, mi è capitato di incontrare Ibn Warraq (pseudonimo adottato per nascondere la propria identità), lo scrittore britannico di origine musulmana che, a causa delle sue convinzioni filosofiche fortemente influenzate dall’opera di Bertrand Russell, è finito nel mirino dei fondamentalisti islamici. Qualche giorno prima, intervenendo a una conferenza in Italia, avevo incontrato l’italo-egiziano Magdi Allam, coraggioso giornalista del Corriere della Sera costretto a girare con cinque guardie del corpo a causa delle sue critiche pungenti rivolte alla nuova ondata di totalitarismo. La giornalista italiana Fiamma Nirenstein, nota simpatizzante dello stato di Israele, era accompagnata dalle proprie guardie del corpo. Caroline Fourest, autrice del più importante atto d’accusa contro Ramadan, ha vissuto un breve periodo sotto scorta della polizia. Il francese Robert Redeker, professore di Filosofia, si è visto costretto a far perdere le sue tracce. Non so che tipo di precauzioni possa aver preso Flemming Rose, direttore delle pagine culturali del quotidiano danese Jyllands-Posten, famoso per aver pubblicato le vignette satiriche su Maometto. E poi Van Gogh… Come una metastasi, Salman Rushdie ha coinvolto un’intera classe sociale, un sottoinsieme dell’intellighenzia europea – soprattutto della sua ala destra – tenuto in vita grazie a guardie del corpo e misure di sicurezza faida- te. Una situazione che non ha precedenti nella storia dell’Europa occidentale, almeno non negli ultimi sessant’anni. E tuttavia se qualcuno come Bruckner osa spendere qualche parola sulla necessità di ricorrere al coraggio in simili circostanze, subito viene schernito (“Quando mai si è parlato di coraggio prima d’ora?”) fino ad arrivare alla solita litania sul fascismo. E sul Times? Neanche un piccolo accenno da parte di Buruma circa il peso che il fascismo ha avuto nella vita di Hassan al Banna, il fondatore del culto moderno della morte artistica. Invece Bruckner il liberal, lui sì che è vicino al fascismo! Anche in questo caso, ci troviamo di fronte a un fatto senza precedenti. Diciotto anni fa, all’epoca delle minacce di morte a Rushdie, quando un suo traduttore venne assassinato e un altro fu ferito; quando un paio di librerie norvegesi saltarono in aria, e un attentatore suicida si fece esplodere all’interno di un hotel in Inghilterra, per non citare le oltre cinquanta persone rimaste uccise dall’ondata di tumulti che si sollevò contro Rushdie in tutto il mondo – ecco, in quel preciso momento storico, buona parte degli intellettuali dei paesi occidentali si schierò istintivamente in difesa di Rushdie, nonostante fossero evidenti i rischi che tale reazione poteva comportare, e raggiunse anche molti colleghi arabi e musulmani, e uniti celebrarono il coraggio di coloro che rifiutavano di farsi intimidire. Mentre scrivo, mi cade l’occhio su un volume del 1993 pubblicato dalla casa editrice francese La Découverte, che contiene le testimonianze di cento intellettuali arabi e musulmani a favore di Rushdie: un toccante esempio di solidarietà fraterna da parte dell’editore e di chi vi ha partecipato. Sfogliando il volume, mi soffermo sul contributo offerto da Orhan Pamuk, costretto oggi a vivere sotto protezione, benché nel suo caso il pericolo sia rappresentato non dagli islamisti ma dai nazionalisti turchi. Continuo a sfogliare e inciampo nella testimonianza di Antoine Sfeir, lo storico libanese che, anni fa, osò criticare Tariq Ramadan e per questo fu portato in tribunale (ma almeno vinse la causa). Nel suo contributo, Sfeir ricorda il recente assassinio dell’intellettuale Farag Foda, avvenuto in Egitto, e la brutale aggressione subita da Naguib Mahfouz, vittima della stessa ondata di violenza islamista che all’epoca perseguitava Rushdie e i suoi sostenitori. Sfeir scriveva: “Non ci stancheremo mai di ripeterlo: attaccare gli islamisti, denunciare le loro azioni e le loro menzogne, non equivale ad attaccare l’islam. Al contrario, vuol dire difendere gli stessi musulmani, che sono le vittime principali, ma non le uniche, degli islamisti”. Come sono cambiati i tempi! I “Rushdie” dei nostri giorni si ritrovano a essere bersagliati dalle critiche, accostati dalla stampa al filosofo islamista che scrive le prefazioni alle fatwe dello sceicco al Qaradawi, teologo degli attentatori suicidi. Hirsi Ali viene dipinta oggi come una minaccia per la società, e insieme a lei tutti coloro che ne condividono il pensiero, e sono tanti: i sostenitori musulmani di John Stuart Mill, per esempio, giudicati alla stessa stregua dei fanatici. Il coraggio, all’epoca dei “Versetti Satanici”, era qualcosa di cui andar fieri. Oggi viene accostato al fascismo. Com’è potuto accadere? La serenità di certi giornalisti e intellettuali di fronte alle minacce di morte da parte degli islamisti, così numerose da costituire una vera campagna propagandistica; la mancanza di una presa di posizione netta riguardo alle donne condannate a morte per lapidazione; l’incapacità giornalistica quantomeno di riconoscere che nei dibattiti sull’islamismo c’è in gioco il futuro dei diritti delle donne; l’incapacità di sottolineare le difficoltà che le donne musulmane devono affrontare negli ospedali europei; l’incapacità di mettere in risalto l’importanza del ruolo giocato da un antisemitismo rinvigorito e sempre più attivo; gli innumerevoli errori di valutazione commessi sui giornali nel riportare gli interventi di Tariq Ramadan e le sue posizioni; il rifiuto di discutere con assoluta franchezza del ruolo ricoperto per anni dalla famiglia di Ramadan; lo “sfortunato” elogio, apparso sul Guardian, del prozio che ha speso parole di ammirazione per gli attentatori implicati negli attacchi terroristici dell’11 settembre – cosa può giustificare tutta una serie di simili pasticci, incertezze, gaffe, omissioni, fraintendimenti e calunnie? Due le possibili spiegazioni: la prima è l’inimmaginabile ascesa dell’islamismo dai tempi della fatwa che colpì Rushdie. La seconda si chiama terrorismo.
Traduzione di Elia Rigolio e Natalino Parrella.
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