Perché non dobbiamo fidarci di Tariq Ramadan - Parte terza l'articolo di Paul Berman : capitoli VI- VII
Testata: Il Foglio Data: 09 luglio 2007 Pagina: 5 Autore: Paul Berman Titolo: «Chi ha paura di Tariq Ramadan»
Molti lettori che lo hanno perso, ci hanno chiesto di pubblicare il lungo articolo di Paul Berman pubblicato dal FOGLIO il 4 luglio 2007. Lo pubblichiamo diviso in più parti Di seguito, i capitoli dal VI al VII
VI
Sul Times, Buruma si addentra in queste tre controversie (ebrei, violenza e donne) e, riguardo agli ebrei, lo fa soffermandosi sulla Francia del Ventunesimo secolo, invece che sull’Arabia del VII. E fa bene. Quattro anni fa, Ramadan ha lanciato una polemica contro sei noti intellettuali francesi, Pierre-André Taguieff, Alexandre Adler, André Glucksmann, Bernard-Henri Lévy, Alain Finkielkraut e Bernard Kouchner, che ha riunito in un unico gruppo il cui tratto comune era il fatto di essere ebrei. Lanciando delle accuse. Secondo il resoconto che Buruma fa della questione, Ramadan lamentava allora che i vari intellettuali avevano abbandonato principi universali per diventare, secondo l’espressione usata da Buruma, “difensori irriflessivi di Israele”. Buruma ritiene che l’affermazione fosse, come scrive, “ingiusta”, perché i vari intellettuali in questione “avevano tutti difeso tante cause diverse da quella israeliana, compresa la richiesta di porre fine agli omicidi di massa di musulmani in Bosnia”. Ma, nel suo spirito imparziale, Buruma continua paragonando gli intellettuali a “molti primi neoconservatori” statunitensi, tratteggiando una descrizione che sei o sette lettori del Times possono aver ritenuto neutrale e obiettiva, ma destinata a essere considerata da tutti gli altri dispregiativa, se non una condanna fulminante. E osserva che almeno alcuni di quegli intellettuali francesi avevano risposto a Ramadan in modo “aspro” e “ampiamente esagerato”, in particolare accusandolo di antisemitismo; cosa che, secondo Buruma, non avrebbero dovuto fare, perché questo tipo di attacchi “ha la tendenza a rimanere addosso all’obiettivo”. Ma Ramadan merita questi attacchi, in una forma invece più dolce e commisurata? Buruma si discosta dai più. Ramadan, dichiara seccamente, “è invece uno dei pochi intellettuali musulmani a levare la voce contro l’antisemitismo”. Questo è il resoconto del Times. Non è accurato. Nella sua polemica, quattro anni fa, il maggior rimprovero che Ramadan muoveva ai sei riuniti nella categoria di intellettuali ebrei non si riduceva all’appellativo di “difensori irriflessivi di Israele”. Egli lamentava che il gruppo avesse abbandonato quelli che chiamava valori universali per promuovere i propri, limitati interessi di ebrei. Un ritorno al tribalismo ebraico: questa era l’accusa, e le lealtà comunitarie avrebbero avuto a che fare, soprattutto, con la politica interna francese. Ramadan accusava gli intellettuali di creare ad hoc un inesistente antisemitismo nella Francia attuale, un rimprovero infondato a cui la bigotteria contro gli ebrei ultimamente sta dando nuova vita in una forma diversa dall’astio religioso cristiano del Medioevo, e diversa dall’odio dell’epoca fascista, anche se forse non del tutto diversa. Lo scrittore che ha più spinto l’idea è Taguieff, autore di un libro intitolato “La nouvelle Judéophobie” (la nuova giudeofobia, stranamente tradotto in inglese col titolo “Rising From the Muck: The New Anti-Semitism in Europe”, ovvero “di ritorno dal fango: il nuovo antisemitismo in Europa”); e il nome di Taguieff era il primo a figurare nell’attacco di Ramadan. Taguieff è il principale storico del razzismo nella Francia contemporanea, e si dà il caso che non sia ebreo; un errore di Ramadan, dunque, di cui Buruma prende debita nota. E però, la domanda rimane: indipendentemente dagli antenati di Taguieff o dall’appartenenza religiosa, la sua idea della crescita di un nuovo tipo di antisemitismo francese, di “una nuova giudeofobia”, riflette una qualche lealtà partigiana agli ebrei da parte sua, magari scelta liberamente per una ragione o per un’altra? L’odiosità di questa domanda dovrebbe essere ovvia. L’unica domanda corretta dovrebbe essere: Taguieff è un buono storico? A questo, almeno, è possibile rispondere. Sembra sia affiorata in Francia una nuova ostilità nei confronti degli ebrei, e le prove di quest’enunciato, penso, sono sfortunatamente travolgenti. E’ confermato dalla fuga di alcuni ebrei francesi dai sobborghi abitati dalla classe operaia immigrata; dalla tanto discussa difficoltà o incapacità degli insegnanti anche non ebrei di parlare agli studenti dell’Olocausto, per paura di una montante rabbia islamista; e da qualche crimine violento di cui si è molto detto. E’ vero che, per qualche anno, il governo francese e la maggioranza della stampa si sono attenuti all’opinione che nella maggior parte dei casi si trattasse di ampie esagerazioni. Eppure, dopo qualche tempo, poiché il problema non sembrava risolversi, il governo francese ha creato una commissione consultiva, che è arrivata alla conclusione, di cui abbiamo notizia sul New York Times del marzo 2005, che il 62 per cento dei crimini commessi per odio in Francia durante l’anno precedente avesse come obiettivo ebrei. Si tratta di quel tipo di statistiche semiprecise che possono sembrare un po’ dubbie, ma indica una tendenza, soprattutto se si pensa che la popolazione ebraica in Francia non arriva all’uno per cento del totale. Quanto poi questa “nuova giudeofobia” possa essere sinistra e pericolosa, è una questione a sé. Il nervosismo è la malattia francese moderna, e alcuni dei commentatori più nervosi hanno dato l’impressione che gli ebrei in Francia fossero sottoposti a una terribile ondata di odio e dovessero fuggire per il resto della loro vita in Israele. Ariel Sharon, non molto tempo prima del suo collasso sanitario, aveva consigliato agli ebrei francesi di farlo, giusto per sentirsi poi rimbeccare da André Glucksmann, come nessuno di quelli che si basasse sul saggio di Ramadan o, in questo caso, sugli scritti di Buruma, avrebbe certo potuto prevedere. Ad ogni modo, l’intervento di Ramadan non voleva mettere in dubbio la realtà sociale o l’accuratezza del sapere di Taguieff, ma sfidare le fedeltà partigiane ebraiche che egli pensava fossero all’opera; si tratta quindi di un altro aspetto, nel campo del dibattito intellettuale, di quanto Taguieff ha cercato con tanto studio di identificare. La seconda grande accusa mossa da Ramadan era collegata alla guerra in Iraq e le diatribe ad essa collegate, che ai suoi occhi erano un’ulteriore prova del fatto che gli intellettuali ebrei avessero agito sulla scorta delle loro lealtà tribali. Scrisse che “intellettuali tanto diversi, come Bernard Kouchner, André Glucksmann e Bernard-Henri Lévy, che avevano assunto posizioni coraggiose sulla Bosnia, il Ruanda o la Cecenia, hanno curiosamente dato il loro sostegno all’intervento angloamericano in Iraq”. In questa frase emerge un altro errore. Lévy, nel 2002-2003, quando si discuteva della guerra in Iraq, rifiutò di appoggiare l’intervento, anche se il suo appoggio avrebbe significato molto. (L’errore venne tra l’altro aggravato dal resoconto della stessa questione fatto da Stéphanie Giry sulle pagine del Times dedicate alle recensioni, che erroneamente citavano Alain Finkielkraut e un altro ebreo tra i sostenitori della guerra). Kouchner e Glucksmann hanno pur sempre offerto il loro sostegno, il primo per altro in modo fortemente modulato. Ma, per usare le parole di Ramadan, non c’era nulla di “curioso” in tutto questo, almeno nulla che indicasse una dipartita dalle posizioni espresse in passato. Kouchner, in qualità di attivista umanitario, per non dire di veterano delle campagne a favore dei curdi, ha perorato interventi umanitari in moltissime occasioni nel corso degli anni, e in questo senso c’è poco da stupirsi se, nel 2003, vedeva un bene nella caduta di Saddam. Lo stesso vale per Glucksmann. E né l’uno né l’altro hanno tenuto nascoste all’opinione pubblica le proprie riflessioni. Si tratta di uomini loquaci, a misura di libro. Hanno persino riconosciuto, entrambi, l’influenza delle origini ebraiche sulle proprie riflessioni più recenti, ma l’influenza non ha nulla a che vedere con Israele. Sono stati influenzati dalle loro esperienze di bimbi durante gli anni in cui i nazisti controllavano la Francia, esperienze che li hanno portati alla conclusione che i paesi potenti hanno il compito di proteggere le popolazioni vittime di dittature. Ramadan sostenne che, con l’intervento in Iraq, gli Stati Uniti “agivano certamente nel nome dei propri interessi, ma sappiamo che Israele ha sostenuto l’intervento e che i suoi consulenti militari hanno lavorato tra le truppe”. Di più: “Sappiamo anche che l’architetto dell’operazione nel cuore dell’amministrazione Bush è Paul Wolfowitz, noto sionista, che non ha mai nascosto che la caduta di Saddam Hussein avrebbe garantito maggiore sicurezza a Israele e i relativi vantaggi economici”. Non credo ci sia bisogno di un intelletto particolarmente fine per rintracciare la teoria della cospirazione all’opera in queste osservazioni. Mi rincresce dover aggiungere che Wolfowitz, quali che siano i suoi altri peccati, non è mai stato noto per il suo sionismo (anche se capisco che, data quella “z” finale e la consonanza con la “z” iniziale della parola “sionismo” in inglese, quasi nessuno mi crederà). La descrizione che Ramadan dà degli intellettuali in Francia è ben conciliabile, tra l’altro, con la sua descrizione degli ebrei americani in “L’islam in Occidente”: quegli ebrei americani che, in massa, egli sostiene formino una “lobby” (parola ormai internazionale) che propugna gli interessi ebraici e la promozione di Israele invece di schierarsi a favore del “diritto, della giustizia e dell’etica”, che sarebbe, a suo modo di vedere, il compito dei musulmani. Al che, sì, Glucksmann e Lévy hanno risposto per iscritto. Glucksmann inizia la sua risposta con queste parole: “Ramadan dice, in breve: Glucksmann non pensa con la testa, pensa con la razza” (anche se Buruma, sul Times, evita di citare quella riga, che contiene il nucleo dell’argomentazione, per passare direttamente alla citazione dell’insulto di Glucksmann: “Quel che sorprende non è che Ramadan sia antisemita, ma che osi dirlo apertamente”). Lévy, come dice Buruma, fa riferimento ai Protocolli dei savi di Sion. Ma queste risposte sono, come sostiene Buruma, aspre e esagerate? La polemica di Ramadan è suonata, a parere di alcuni, come una chiamata alle armi di estrema destra, in cui un leader demagogico additava al pubblico i nomi dei giornalisti ebrei, ma forse quest’eco non è stata particolarmente evidente al di fuori della Francia. Gli oppositori della globalizzazione in quel paese hanno inviato sul sito del loro European Social Forum un messaggio contenente la polemica di Ramadan, ma una volta sentite le risposte, l’hanno tolto, in imbarazzo, e non perché qualcuno li avesse intimiditi. Ma lasciamo stare gli ebrei. Il commento più notevole del resoconto di Buruma sul magazine del Times è di tutt’altra natura, e cioè il suo appello a favore di Ramadan, secondo cui “egli in realtà è uno dei pochi intellettuali musulmani a levare la voce contro l’antisemitismo”. Come se, nel tratteggiare il moderno mondo musulmano, Buruma potesse immaginare solo un panorama di fanatici barbuti, quel tipo di persone che, come Qutb nei commenti al Corano o Hamas nel suo statuto, continuano a ciarlare del Protocollo dei savi di Sion. E, certo, ce ne sono tanti, come dice Taguieff. E Ramadan ha effettivamente espresso alcune perfette condanne dell’antisemitismo (che Hamel cita per esteso), anche indipendentemente dalla sua interpretazione, davvero encomiabile, del Profeta Maometto e degli ebrei nell’antica Arabia. Ma, per la miseria! A cosa mai stava pensando Buruma? Basta dare un’occhiata alla libreria di casa per vedere quanto sia assurdo il suo commento sul fatto che Ramadan sia un isolato intellettuale musulmano contrario all’antisionismo; librerie piene di libri di questo o quel romanziere o critico letterario o noto analista politico, un libro dopo l’altro, a dimostrare che la cultura liberale nell’età moderna è ormai animata da un numero non piccolo di distinti e riconosciuti intellettuali di formazione islamica. O forse Buruma pensava solo al mondo francofono? I francofoni non sono poi così diversi. Ma sospetto che, parlando degli intellettuali musulmani, Buruma si figurasse un qualcosa di diverso dagli intellettuali classici. Sospetto che stesse pensando al tipo di persone che possono vantare radici sociali più profonde di quanto non si curino di dimostrare normalmente gli intellettuali dediti alla scrittura di libri. Pensava a personalità che hanno seguiti massicci nei quartieri poveri, intellettuali il cui pubblico, nella sua autenticità popolare, potrebbe fare il suo ingresso nell’aula della conferenza da porte separate per uomini e donne. Da questo punto di vista, Buruma potrebbe anche avere ragione. Il numero di predicatori islamisti demagogici e capaci di mobilitare le masse pronti a denunciare l’antisemitismo non è davvero alto. Ma non siamo troppo affrettati nel presumere che qualcuno sia attendibile e qualcun altro no. Né dovremmo presumere troppo velocemente che i quartieri di immigrazione musulmana siano intrinsecamente sordi alle voci liberali, anche se la descrizione che Buruma fa di Ramadan come una voce musulmana isolata contro l’antisemitismo sembra implicare un qualcosa di simile. La “nuova giudeofobia” identificata da Taguieff è indubbiamente un fenomeno vasto, ma anche, come suggerisce il neologismo, nuovo. Eppure i quartieri dell’immigrazione musulmana sono relativamente vecchi. E allora è successo qualcosa; e Ramadan potrebbe persino aver avuto un qualche ruolo nel far succedere quel qualcosa. Ha iniziato a costruire la sua base sociale nei quartieri arabi di Lione nel 1992, ma questi quartieri hanno una storia, e quella storia non inizia con l’islamismo. Nel 1983, un piccolo gruppo di giovani arabi a Lione organizzò un qualcosa che chiamò “Marcia per l’uguaglianza” per denunciare la condizione sociale in cui quei giovani e altre persone come loro vivevano. Il piccolo gruppo si mise in cammino verso Parigi e la marcia divenne piano piano un grande avvenimento. I giovani di Lione catturarono l’immaginazione popolare. Quando arrivarono a Parigi, il loro numero era cresciuto fino a 100 mila, e la protesta era passata alla notorietà col nome di “Marcia dei Beur”, un termine del gergo giovanile, confidenziale e per nulla razzista, per indicare i giovani arabi. Era un movimento davvero di massa. Diede origine, l’anno successivo, all’organizzazione Sos Razzismo, che dimostrò a sua volta di essere estremamente popolare, per qualche tempo. Nel 1985 organizzò un raduno in Place de la Concorde a Parigi, di cui, casualmente, fui testimone. Centinaia di migliaia di giovani parteciparono, arabi e quant’altro, felici nel loro splendore multicolore, che Sos Razzismo tentò di rendere di moda. Questa, negli anni Ottanta, era l’incarnazione dell’antirazzismo e dell’uguaglianza sociale, giovani determinati a farla finita con la bigotteria antiaraba e antimusulmana dell’estrema destra francese, determinati a denunciare le disparità di ricchezza e dotata di buone ragioni per farlo. Ma Sos Razzismo si diede una definizione ampia dei suoi principi, e per questo era anche nemica dell’antisemitismo. Esplicitamente, niente di meno. Il suo slogan era “touches pas à mon pote!” (non toccare il mio amico!), un motto efficace e popolare per un movimento di tendenza dei giovani contro il razzismo. Portavano un’allegra spilla con quel motto e in alcuni quartieri le spille divennero di moda, appuntate ad ogni bavero. Molti scrittori, grandi esperti di media, seguirono da vicino il movimento, orchestrando gli interventi sulla stampa e offrendo un minimo di guida intellettuale. Chi erano queste persone? Marek Halter, famoso romanziere, era uno di loro. Il più noto era Bernard-Henri Lévy, lo stesso in cui i lettori dell’intervento polemico di Ramadan del 2003 non potevano non vedere un agente dei famigerati sionisti all’interno dell’Amministrazione Bush, e che i lettori del pezzo di Buruma non potevano non considerare un nascente neocon. Ma Sos Razzismo non era un movimento neocon. Era una novità a sinistra, un’ala della più ampia sinistra popolare che, negli anni Ottanta, sviluppò una passione per Amnesty International, i dissidenti del Blocco orientale e il soccorso ai popoli colpiti dalle carestie; come se l’antirazzismo, i diritti umani, i diritti arabi, i diritti delle donne, l’antitotalitarismo, la consapevolezza umanitaria, lo spirito ribelle dei giovani, la moda di abiti dai colori brillanti e certi tipi di musica e il culto delle moto potessero essere considerati, in un impeto modaiolo, un tutt’uno. E però, cos’è successo a quel movimento negli anni seguenti, al movimento che era nato dai Beur di Lione? E’ stato sconfitto. Questa è la grande storia che aleggia intorno a tutto il dibattito odierno su Tariq Ramadan e il riformismo salafita. Sos Razzismo è stata sconfitta dai suoi stessi errori e passi falsi, nessuno particolarmente terribile, ma che hanno dato l’impressione che i politici del Partito socialista ne fossero i burattinai, ed è finita per essere un esercizio placa-coscienze per tonti. Ma soprattutto il nuovo movimento è stato sconfitto da un movimento ancora più nuovo, che gli faceva concorrenza nella ricerca del sostegno nelle strade degli immigrati. Anche questo movimento (come apprendo dalle varie biografie di Ramadan) ha avuto inizio dalle zone abitate da immigrati a Lione. Si trattava dell’Unione dei giovani musulmani, fondata nel 1987, quattro anni dopo la Marcia dei Beur, proprio con l’obiettivo di lottare contro tutto quanto era emerso da quella marcia. L’Unione dei giovani musulmani era, esattamente come Sos Razzismo, un movimento a favore della giustizia sociale, solo che, invece di essere animato dal minestrone modaiolo del liberalismo di sinistra degli anni Ottanta, il nuovo movimento si richiamava all’islam del VII secolo, secondo lo stile ereditato da al Banna. E i due movimenti, quello nuovissimo islamista e quello dei liberali di sinistra, si impegnarono in un testa a testa per la conquista del sostegno. Sos Razzismo organizzò campagne per evitare che i locali notturni discriminassero i giovani arabi e di colore. Gli islamisti per evitare che i giovani musulmani andassero nei locali notturni. Quando Ramadan arrivò a Lione, l’Unione dei giovani musulmani esisteva da cinque anni, e la casa editrice-libreria Tawhid aveva una posizione sostanzialmente solida sul mercato; si trattava però sempre di istituzioni immigrate, un po’ poco smussate agli angoli, la libreria colma (secondo Paul Landau e il suo “Le Sabre et le Coran”) di tratti antisemiti, le audiocassette piene di sproloqui. Ramadan diede una lustrata e aggiunse un tocco di eloquenza a quei tentativi, anche se, essendo un borghese di Ginevra, non riuscì mai a fare delle strade proletarie la sua casa. E nei quartieri abitati dagli immigrati a Lione, gl’impetuosi islamisti, ripuliti e decisi, cominciarono a superare in numero gli ingenui liberali di sinistra, ormai cavalcati dai politici. Ancora una volta, è qualcosa di più di una storia locale. Gli islamisti hanno sconfitto gli attivisti di sinistra in tutto il mondo. C’è un altro lato della storia, però, ovvero quanto è successo a sinistra a seguito di quelle sconfitte. L’avanzata dell’islamismo negli anni Ottanta e Novanta ha indotto una crisi tremenda nella sinistra europea e persino americana, anche se, per la maggior parte degli esponenti della sinistra di quegli anni, la crisi non fu mai nominata né discussa. Ma era inevitabile. Cosa significa essere di sinistra, dopotutto? Intendo la sinistra in senso lato, quella che comprende chiunque porti i segni anche più leggeri e attenuati della sinistra: i progressisti e quanti, in modo ancora più sofisticato, rabbrividiscono d’un sapiente ribrezzo di fronte a una qualsiasi etichetta ideologica. Essere a sinistra non significa in fondo essere solidali con i poveri e gli oppressi? La Marcia dei Beur ottenne sostegno e plauso in Francia nel 1983 proprio perché, per la prima volta su scala nazionale, giovani sinceramente antirazzisti della vecchia Francia avevano modo di manifestare solidarietà agli immigrati oppressi. Ma una volta che Sos Razzismo perse il suo lustro, chiunque si identificasse anche solo vagamente con la sinistra dovette fare una pausa e pensare a che atteggiamento adottare: ecco gli islamisti, gomito a gomito con la sinistra liberale e, contemporaneamente, con le principali organizzazioni musulmane; gli islamisti che sostenevano di essere, alla fine, i veri e propri rappresentanti dei poveri e degli oppressi. Gli islamisti, nonostante migliaia di principi altrimenti impensabili per la sinistra. C’era bisogno di una risposta di sinistra. In Francia, come in Inghilterra e in altri paesi, i primi a sinistra a riconoscere che si stava muovendo qualcosa di grosso furono gli appartenenti alla piccola setta trotzkista, quasi ridicoli a vedersi, che intuirono un’apertura. Da un punto di vista marxista, l’islamismo era strano, ed è vero che i trotzkisti, negli anni Quaranta, avevano una propria letteratura (in particolare un famoso saggio di Tony Cliff) sulla natura fascista dei Fratelli musulmani. Ma quei tempi erano lontani, e inoltre si vantavano di non essere sofistici: così tesero la mano. E non furono gli unici. La rivoluzione islamista dell’Ayatollah Khomeini in Iran giunse al potere nel 1979 stringendo un’alleanza con i marxisti iraniani, ovvero i gruppi pro soviet; questo portò i partiti comunisti di tutto il mondo, all’inizio degli anni Ottanta, a guardare agli islamisti iraniani come a un movimento progressista: una forza a favore dell’antimperialismo e della giustizia sociale. Durante la sfilata del Primo Maggio, il Partito comunista francese marciò attraverso Parigi con una delegazione iraniana di nome Hezbollah, come ha ricordato Ladan Boroumand; una cosa che non sarebbe mai potuta succedere prima. Questi sviluppi della vecchia sinistra marxista possono parere del tutto insignificanti, dato che, negli anni Ottanta, la vecchia scuola marxista stava iniziando a scomparire sempre più velocemente nel passato. In Francia i comunisti subivano le prime fasi del collasso e il trotzkismo era, quasi per definizione, una causa microscopica. Ma nessuno poteva essere escluso. Nella prima tornata delle presidenziali del 2002, molti progressisti francesi di sani principi volevano esprimere un voto di protesta, così che i candidati trotzkisti ricevettero il dieci per cento dei voti (ragion per cui, nel 2002, Jean-Marie Le Pen riuscì, seppure a fatica, a superare il candidato socialista alla prima tornata e finì secondo). Qualcosa di simile affiorò nelle grandi marce contro la guerra del febbraio 2003: le immense dimostrazioni di Parigi e Londra, per non dire di New York, Washington, San Francisco e tante altre città. I piccoli gruppetti marxisti ebbero un ruolo sproporzionato nell’organizzazione di quelle dimostrazioni, che fosse dietro le quinte, come negli Stati Uniti (dove i gruppetti erano davvero straordinariamente piccoli) o, in Europa, ben visibili in prima linea. E gli organizzatori marxisti con le nuove alleanze aggiunsero una nota particolare e nuova a quegli enormi eventi. La marcia di Parigi fu l’esempio più scandaloso, non solo perché un contingente di baathisti marciava con i cartelloni a favore di Saddam Hussein, ma anche perché un gruppo di dimostranti pacifisti si staccò dalla marcia per picchiare alcuni ebrei; un caso limitato, universalmente condannato, ma che indicava qualcosa di nuovo nell’aria. Nei tanti decenni precedenti in una qualsiasi dimostrazione di sinistra in Francia non sarebbe mai potuto succedere nulla di anche solo vagamente simile a un attacco contro ebrei scelti a caso. La marcia di Londra si concluse senza che accadesse nulla di cui vergognarsi, ma questo non ha fatto che semplificare il compito di chi vuole inquadrare la situazione, visto che tutti si sono comportati così bene. La coalizione inglese Stop the War, che ha organizzato la marcia del 2003 e molte altre dimostrazioni negli anni seguenti, era evidentemente guidata dal Socialist Workers Party (Partito socialista dei lavoratori), alleato con l’equivalente inglese dei Fratelli musulmani, ovvero la Muslim Association of Britain. Trotzkisti e islamisti: “Uno strano matrimonio”, come ha scritto l’Economist. Tony Cliff deve essersi rigirato nella tomba. Ma la stranezza coniugale non ha impedito a milioni di non trotzkisti e non islamisti di scendere nelle strade e farsi guidare da quest’alleanza, come se quei milioni fossero certi, indipendentemente dal risultato della marcia, di poter ignorare i lavoratori socialisti (ipotesi inoffensiva) se non addirittura di poterli guardare con irritato affetto, e come se gli islamisti, che nessuno poteva ignorare, rappresentassero effettivamente gli oppressi e sopraffatti, e quindi conferissero prestigio alla marcia. Almeno, questo era sottinteso. Mai prima di allora una sorta di alleanza tra trotzkisti e islamisti avrebbe potuto mobilitare milioni di inglesi. E tra gli intellettuali progressisti, quelli che dissertano sulle riviste e scrivono libri? Anche qui ci fu uno spostamento, e Buruma (non per pestare l’acqua nel mortaio) ne ha dato l’esempio più chiaro, passo passo. In “Occidentalismo”, del 2004, lui e il suo coautore Avishai Margalit ce la misero tutta per dimostrare l’influenza delle idee fasciste e naziste su vari pensatori radicali nel mondo, compresi gli islamisti. Ma questo tipo di sofisticata analisi ideologica è praticamente scomparsa nel libro seguente, “Assassinio ad Amsterdam”, pubblicato nel 2006, che descrive l’omicidio di Theo van Gogh da parte del fanatico islamista Muhammad Bouyeri. Buruma non sembra più interessato alle dottrine estremiste, alle loro origini e traiettorie, anche se, a giudicare dalle saltuarie descrizioni, l’omicida Bouyeri sembra un ideologo piuttosto coerente, che si appiglia alle dottrine islamiste derivate da Qutb. E nel febbraio 2007, sul Times, messo di fronte a Tariq Ramadan e alle sue relazioni familiari vagamente complesse con Qutb, Buruma riesce a malapena a indursi a scrivere anche solo poche righe sulle idee estremiste e le loro conseguenze. Ramadan dà la sua fuorviante spiegazione, secondo cui Qutb e il nonno al Banna non si sarebbero mai incontrati, e Buruma non aggiunge nulla. Il riformismo salafita? A Buruma sfugge la prominenza di Qutb tra le sue guide intellettuali. L’antisemitismo? Ramadan è “uno dei pochi intellettuali musulmani a levare la voce contro l’antisemitismo”. E perché uno dei pochi? Come se, senza capire cos’era successo, Buruma avesse pacificamente accettato la tesi generale di Ramadan, e via vedesse in lui la voce delle masse, e nelle masse una popolazione disperatamente impregnata di fumi della verità; e avesse anche cominciato a ritenere che gli intellettuali liberali di origine musulmana fossero insignificanti perché, nel loro liberalismo, sono provatamente inautentici. Ramadan finisce per esser “uno dei pochi intellettuali musulmani” perché gli altri, essendo liberali, non contano. O peggio, gli altri, essendo liberali, a volte sono stati gomito a gomito con i liberali non musulmani, che Buruma ha deciso di rifiutare perché neocon. Si tratta di un processo decisamente importante, se ci si sofferma a riflettere, e spiega gli interventi piuttosto ingenui comparsi sulla stampa in merito a Ramadan. Perché se gente come lui e altri islamisti parlano per gli oppressi e i sopraffatti, e se Ramadan è un bravo ragazzo, paragonato alla maggior parte dei suoi amici riformisti salafiti, perché mai non dovremmo fare ogni sforzo possibile per vederlo sotto la miglior luce? In fondo è meglio di Qutb, e allora perché far emergere le parti preoccupanti? E poi, anche se Qutb è un incubo, non sarebbe meglio per noi evitare di indagare troppo da vicino sulle opinioni di gente come l’assassino di Van Gogh? Non sarebbe meglio per noi se cercassimo di essere, da un punto di vista sociologico, almeno parzialmente comprensivi? Quei milioni di partecipanti alle marce contro la guerra hanno fatto esattamente questa scelta, almeno quel giorno del febbraio 2003: guardare alla prima linea islamista di quelle marce come ai veri rappresentanti di una comunità oppressa. Non dovremmo cercare di scovare una definizione ottimista di riformismo salafita? Non dovremmo trovare un modo di concludere, insieme a Buruma, che “ci siamo trovati d’accordo quasi su tutto”? Chi si ponesse in tutta sincerità queste domande potrebbe passare parecchio tempo a lambiccarsi il cervello. Ma in fondo, le domande esprimono un’attitudine, destinata a ridursi a una lente, prima o poi, che potrebbe impedire di produrre un reportage giornalistico ai vertici dell’acume. E se, nel giornalismo di Buruma, una certa incapacità di mettere a fuoco sembra aver offuscato il suo punto di vista su Ramadan e gli intellettuali ebrei, cosa potrà mai essere successo alla questione, tanto più vasta, della violenza? Quella domanda che egli aveva risolto con il semplice e fiducioso commento che Ramadan offre “un’alternativa alla violenza”?
VII
E’ vero che Ramadan, in alcune occasioni, ha condannato ogni tipo di violenza terroristica, ed è bellissimo che l’abbia fatto. E’ ancora meglio che queste condanne sembrino essere coerenti con il più ampio programma di Ramadan per la comunità musulmana in Europa, che dovrebbe richiedere molto, ma nulla che possa anche solo lontanamente assomigliare a una campagna violenta. Comunque, tutto il corso seguito dalla carriera di Ramadan finora, l’energia che ha speso nel proiettare le sue idee e la sua personalità davanti agli occhi di tutti nell’Europa occidentale e oltre, invece di tenersi il tempo e l’energia per un pubblico esclusivamente musulmano, non avrebbe alcun senso se il proposito ultimo fosse di forgiare i suoi seguaci in una sorta di forza capace di aprire uno squarcio violento nella società. Si dice che sia stato influenzato dall’esempio di Malcolm X negli Stati Uniti, o quantomeno dal Malcolm X di Spike Lee, un Malcolm la cui ultima lettera della vita reale, mai spedita, pare fosse indirizzata a Said Ramadan al Centro islamico di Ginevra. Ma Tariq Ramadan, che ha qualcosa dell’aria di dignità suscettibile di Malcolm, non ha nulla del suo contegno da minacce non espresse. E però, a volte è utile indagare un po’ più a fondo il significato che ciascuno dà a violenza e terrorismo. Le bombe nella folla nei sistemi di trasporto di massa a Madrid o Londra ovviamente rientrano negli attacchi terroristici. Ma che dire delle bombe fatte esplodere a caso sui pullman in Israele? Ramadan si è espresso anche in merito a questi fatti. E’ entusiasticamente antisionista. Plaude alla resistenza palestinese. Ma a volte ha sollevato obiezioni di fronte ad alcuni dei metodi usati da quella resistenza: una distinzione attenta, ben delineata. Però, ancora una volta, Ramadan ha rilasciato più di un commento su questioni antisionistiche, e, mi pare, uno di questi, nell’introduzione a “Il riformismo islamico”, balza quasi fuori dalla pagina. E’ inserito in un tributo accalorato al padre, e alla sua devozione ai princìpi del nonno al Banna. Di suo padre, Tariq Ramadan scrive, in un passaggio tradotto in inglese quantomeno con scarsa eleganza: “Spesso, parlava della determinazione del suo impegno, in tutti i momenti, contro il colonialismo e l’ingiustizia e per il bene dell’islam. Questa determinazione però non era un imprimatur alla violenza, perché egli rifiutava la violenza così come rifiutava l’idea di una ‘rivoluzione islamica’”. Il rifiuto di una “rivoluzione islamica” in questo contesto significa il rifiuto delle rivolte armate o colpi di mano a favore invece di metodi più lenti, più cauti e comunque militanti dei Fratelli musulmani. La violenza non apre la strada verso il successo, da questo punto di vista. Ma il testo continua. L’orizzonte temporale è evidentemente quello della fine degli anni Quaranta:
L’unica eccezione era la Palestina. Su questo, il messaggio di al Banna era chiaro. La resistenza armata era un dovere, in modo da far fronte ai progetti dei terroristi di Irgun e di tutti i colonizzatori sionisti. Aveva imparato da Hassan al Banna, come disse un giorno, “a chinare la fronte al suolo”. Perché il vero significato della preghiera è quello di dare forza, con l’umiltà, al significato di una vita intera.
Ecco, allora c’è un’eccezione. E’ la violenza contro i sionisti, contro i progetti di tutti i sionisti e non solo di quelli di estrema destra, l’Irgun (che era effettivamente un gruppo terrorista, come dice al Banna). Ma la peculiarità del passaggio deriva da una sola parola, “dovere”, che indica che la violenza antisionista è obbligatoria. Un dovere, non una tattica. Di più, un dovere legato alla preghiera, fronte a terra. Un dovere che riempie di significato una vita intera. Un dovere religioso. E’ un passaggio mozzafiato. Tutta la tragedia del popolo palestinese si manifesta in dichiarazioni come questa: il dogma ideologico che ha portato così tanti palestinesi a guardare alla violenza come a un principio, e quindi come a un qualcosa che non può essere abbandonato. Se solo il movimento nazionale palestinese fosse stato in grado di guardare alla violenza come a una mera tattica, le sue guide, e non solo pochi liberi pensatori e pragmatisti, avrebbero potuto notare dopo qualche tempo, che, realisticamente, la tattica della violenza si rivelava controproducente e doveva essere sostituita con una tattica migliore; magari con un qualcosa che riuscisse davvero a costruire uno stato palestinese a fianco d’Israele, come probabilmente sarebbe già stato possibile anni fa. Ma se la violenza è obbligatoria, se è un dovere dei partigiani del rinnovamento islamico di al Banna, se è un obbligo che (come osserva al Banna) distingue gli sforzi antisionistici da tutti gli altri sforzi contro il colonialismo e l’ingiustizia, be’, allora non si può nemmeno pensare di lasciar cadere un principio, indipendentemente dai costi pratici. E così è stato, nella storia del movimento palestinese; e i costi sono stati terribili, per i palestinesi prima di tutto. C’è un altro elemento in quella parola, “dovere”, insieme alla fronte piegata in atto di preghiera. Le tattiche rispondono a una data circostanza, ma i doveri religiosi sono rivolti all’universo. La nozione di violenza con mandato religioso, una violenza obbligatoria, perciò, apre tutta una strada, ed è difficile vedere cosa possa evitare obblighi anche più forsennati ma ugualmente pii dal farsi strada fino a uscire allo scoperto. Il contributo di Qutb alla nozione di violenza religiosa consiste in larga misura nel determinare che i musulmani “ipocriti”, più o meno come per i sionisti e altri nemici giurati dell’islam, meritano la resistenza violenta. Questa nozione ha aperto la strada al massacro di musulmani nel nome dell’islam. C’è poi l’esempio dello sceicco Yusuf al Qaradawi, uno dei grandi studiosi dell’islam sunnita, uomo dal grande e illustre passato nei Fratelli musulmani, che, dopo essere emigrato in Europa, ha continuato la sua opera aiutando a fondare il Consiglio europeo per la Fatwa e la Ricerca, sempre in parallelo con lo sviluppo di un’altra carriera, grazie ad al Jazeera, che ne ha fatto il più noto esperto mondiale di giurisprudenza islamica. E’ stato al Qaradawi a recitare la preghiera funebre ai funerali di Said Ramadan, nel 1995 al Cairo, come fieramente ricorda Tariq Ramadan in “Aux sources de renouveaux Musulman”. Eppure al Qaradawi è anche la persona che, nel 2003, ha pronunciato la fatwa più famosa, quella che autorizzava il terrorismo suicida da parte palestinese. Ha pronunciato quella raccapricciante che permette alle donne di commettere attacchi terroristici suicidi e contemporaneamente dispensa le donne terroriste dal normale obbligo di nascondere i capelli sotto la hijab, una mossa bizzarra da parte sua, che sottolinea la natura rituale di questi atti e perfettamente in linea con le questioni erudite di cui al Qaradawi di norma si occupa: se per esempio le donne debbano restare tra loro quando sono mestruate (posizione che rifiuta, e con autorevolezza) o se possano avere rapporti col marito durante quel periodo (non possono, anche se altri tipi di piacere fisico sono permessi). Tra le autorità religiose che negli ultimi anni hanno dato un qualche sostegno alla moda del terrorismo suicida ritualizzato nel mondo arabo e musulmano, al Qaradawi, grazie alle sue conoscenze giuridiche, sembra essere in prima linea, il che evidentemente non può fungere da argomentazione per sminuire il ruolo svolto da Hassan al Banna anni orsono. Al contrario, il vecchio al Qaradawi stesso ha ricordato, in uno dei suoi sermoni, la memoria di al Banna mentre si dilungava su quanto fosse opportuno morire per la causa di Dio. In quanto a Tariq Ramadan, egli ammira al Qaradawi più di tutti gli altri studiosi dell’islam e in un libro dopo l’altro non lascia spazio a dubbi sulla sua fedeltà. Se c’è qualcuno al mondo che dà un modello dell’islam moderno e illuminato, Ramadan ritiene evidentemente che sia lui. Egli ha steso le prefazioni di due volumi che raccolgono le sue fatwa nell’edizione francese, per non dire di altri libri scritti da altre personalità collegate, in un modo o nell’altro, alla moda terrorista; tutte edizioni pubblicate dalla Tawhid di Lione, la casa editrice, tra l’altro, anche di Ramadan. Nulla di tutto questo toglie il fatto che Tariq Ramadan disapprovi il terrorismo. Ma tenere il piede in due scarpe ha un costo. Affermare a gran voce il proprio spazio all’interno della tradizione riformista salafita mentre si finge che le componenti terroriste del movimento appartengano solo a una scheggia distante; o affermare che si disapprova la violenza mentre si esalta la memoria del nonno; o condannare gli aspetti terroristici della resistenza palestinese mentre si riverisce al Qaradawi e addirittura, scrivendo le sue prefazioni, decorarsi della sua gloria e decorare al Qaradawi con la propria; tutto questo ha un costo. E il costo è una piccola sbavatura d’ambiguità nella posizione di Ramadan. E’ quella piccola sbavatura che fa sì che le accuse mosse alla sua famiglia (in relazione alla banca islamica al Taqwa in Svizzera, accusata, e peraltro poi prosciolta, di aver finanziato al Qaida, anche se gli avvocati di alcune famiglie delle vittime dell’undici settembre hanno intentato causa; in relazione a un finanziatore di al Qaida incarcerato in Spagna dal 2002, su richiesta del giudice spagnolo Baltasar Garzón, lo stesso che aveva ordinato l’arresto di Augusto Pinochet; in relazione a un militante di al Qaida proveniente dalla regione di Lione, e così via), fa sì, dicevamo, che queste accuse sembrino non dico più convincenti, ma meno strampalate. Il problema sta nel terribile fatto che l’ambiente personale in cui si muove Ramadan, il nonno, la sua storia e i contatti familiari, la tradizione intellettuale, corrisponda a quello che è il maggior responsabile della giustificazione teorica moderna del terrorismo suicida religioso. Ma cosa può fare Ramadan di fronte a questa terribile realtà? Rivoltarsi contro la sua famiglia? E’ il principe della famiglia. Ha timidamente avanzato delle proposte giuridiche appena contrarie a quelle di al Qaradawi; ma a differenza di questi, è un filosofo universitario, una figura laica (nonostante tutto), e non un autorevole teologo. Le sue opinioni sono opinioni; le opinioni di al Qaradawi sono legge. Cosa deve fare allora? Sfidare la sua autorità significherebbe sfidare il sistema di autorità tutto, che va molto oltre l’idea riformista salafita. Per questo Ramadan scrive articoli di terza pagina che non sono fatwa. E dedica la vita a lucidare il prestigio di suo padre e suo nonno e del loro lavoro, e a promuovere la causa del riformismo salafita, ovvero l’autorità di veri, autentici studiosi islamici, come al Qaradawi. E questo messaggio finale, quindi, si conclude in una chiamata; ma qual è il suo messaggio finale in merito alla violenza? E’ un doppio messaggio. Il primo condanna il terrorismo. Il secondo si prodiga in lodi ai teorici del terrorismo. Immagino che esprima anche un terzo messaggio, che ci dice che qui nessuno sa nulla di nessuno, qui nessuno si sognerebbe mai di fare la spia sulla famiglia, e cos’è, sei razzista? Caroline Fourest, in “Frére Tariq”, sostiene che, in fondo, le ambiguità della prospettiva di Ramadan possono servire e legittimare l’idea islamista rivoluzionaria, che, volente o nolente, è destinata, a sua volta, a innalzare, per quanto poco, il prestigio del terrorismo. La Fourest immagina un giovane nordafricano in Francia che partecipa a una conferenza con Ramadan e si chiede con che idee una persona del genere potrebbe uscire da quell’incontro. Hamel, in “La vérité sur Tariq Ramadan”, si fa beffe delle sue argomentazioni e osserva che, nonostante tutte le accuse, nulla è mai stato dimostrato e delle molte migliaia di persone che hanno partecipato alle sue conferenze, solo una, un uomo di un quartiere di Lione, è finito per certo nei campi di addestramento di al Qaida in Afghanistan. Chi ha ragione in questa controversia? Davanti a un tribunale la spunterebbe Hamel lo sbeffeggiatore. E’ però facile immaginare che, nel suo piccolo, la Fourest abbia scoperto qualcosa. E qual è la posizione di Buruma nel dibattito? All’autore di “Assassinio ad Amsterdam” sembra essere sfuggita questa controversia in particolare, il che è strano. L’omicida di Theo van Gogh è esattamente il tipo di giovane disorientato che la Fourest ci chiede di immaginare: un immigrato nordafricano della seconda generazione che ha dovuto farsi strada tra tutte le ideologie che gli venivano incontro, alla ricerca dei segni di prestigio e tendenza e cercando di valutare quale delle tante idee poteva essere particolarmente onorevole, legittima, degna. Persino obbligatoria. La Fourest ha pubblicato “Frére Tariq” nel 2004, Muhammad Bouyer ha ucciso Van Gogh più tardi lo stesso anno, e Buruma ha pubblicato il suo libro nel 2006. lettere@ilfoglio.it