Perché non dobbiamo fidarci di Tariq Ramadan - Parte seconda l'articolo di Paul Berman : capitoli IV-V
Testata: Il Foglio Data: 09 luglio 2007 Pagina: 5 Autore: Paul Berman Titolo: «Chi ha paura di Tariq Ramadan»
Molti lettori che lo hanno perso, ci hanno chiesto di pubblicare il lungo articolo di Paul Berman pubblicato dal FOGLIO il 4 luglio 2007. Lo pubblichiamo diviso in più parti Di seguito, i capitoli dal quarto al quinto:
IV
Le varie interpretazioni e opinioni di Ramadan non devono essere fuse in un tutt’uno con l’islam stesso, e questo punto, come ho imparato da esperienze dirette, deve essere sempre sottolineato, e anche più di una volta. Quando, anni fa, scrissi di Ramadan, notai quanto troppi lettori non musulmani siano fin troppo veloci nel cogliere una qualsiasi dichiarazione inquietante o sgradita di un pensatore musulmano e nell’appiopparla a tutto l’islam, anche se vengono invitati a evitare atteggiamenti simili. Per questo lo sottolineo. Né Ramadan di per sé pretende di parlare per ogni singolo musulmano sulla faccia della terra. Egli identifica diverse correnti moderne del pensiero musulmano o con cui i musulmani si identificano, anche al di là delle antiche denominazioni che hanno ormai paralizzato l’attenzione del mondo intero, e sa che tutte queste correnti non concordano le une con le altre. Sul Times, Buruma ha chiesto a Ramadan, molto correttamente, di specificare quale sia la sua corrente, e Ramadan ha risposto molto semplicemente. La sua corrente di pensiero islamico è quella che va sotto il nome paradossale di “riformismo salafita”. E cioè? Buruma ha proposto una definizione che si rifà a una frase di Ramadan in “L’Islam in Occidente – La costruzione di una nuova identità musulmana”. Un “riformista salafita”, spiega Buruma, è una persona che mira a raggiungere i seguenti obiettivi: “Proteggere l’identità musulmana e le sue pratiche religiose, riconoscere la struttura costituzionale occidentale, impegnarsi attivamente come cittadino nella società e vivere con vera lealtà nei confronti del paese cui appartiene”. La citazione è accurata, in un certo senso (ho trovato la pagina precisa del libro di Ramadan, e anche in un contesto lievemente diverso in “Essere musulmano europeo”), ma, ancora una volta, tutt’altro che accurata per il modo in cui Buruma ha staccato le parole citate da altri commenti alla stessa pagina e a quella precedente. Prese da sole, quelle parole fanno sembrare il riformismo salafita uno sforzo onesto e lievemente sciatto ma benintenzionato di adattare l’islam al moderno mondo liberale. Ma si tratta di un errore. E’ un vecchio errore, tra l’altro, che i giornalisti continuano a fare, come sia Fourest che Landau scrivono con grande esasperazione nei rispettivi libri. In una nota a piè di pagina sulla questione del “riformismo” nel suo libro “Aux sources du renouveau Musulman”, nel 1998, Ramadan stesso riconosce parzialmente il potenziale equivoco, anche se ritiene di avere tutte le ragioni per utilizzare comunque quel termine. Il riformismo salafita, nell’utilizzo che lui ne fa, significa una cosa ben precisa, che non ha nulla a che vedere con il riformismo liberale nel suo significato convenzionale. Buruma ha chiesto a Ramadan di fare un elenco dei suoi filosofi musulmani preferiti. Ramadan ha debitamente citato Jamal al Din al Afghani e Muhammad Abduh, i grandi esponenti ottocenteschi che Ramadan considera progenitori del rinnovamento islamico di Hassan al Banna e dei Fratelli musulmani (anche se altri insisterebbero con un certo vigore sul fatto che l’islamismo di al Banna, nel suo radicalismo e nella sua rigidità, si allontanava fortemente da quei pensatori ottocenteschi). Comunque, la probabilità che molti lettori del Times abbiano riconosciuto nomi è piuttosto bassa. Ma se Buruma avesse pensato di chiedere a Ramadan i nomi di qualche filosofo più recente nella scia del riformismo salafita, egli avrebbe potuto continuare a fare una lista di nomi, alcuni dei quali, invece, sarebbero stati riconoscibili a molti. Ramadan ha già elencato quei nomi in “L’Islam in Occidente”, e l’ha fatto, guarda caso, nel paragrafo che precede immediatamente quello da cui Buruma ha tratto la sua fuorviante definizione. Qui troviamo Hassan al Banna, e Abul Ala Mawdudi dall’Asia meridionale, le cui attività erano coordinate dal padre di Tariq, Said Ramadan, insieme a quelle dei Fratelli musulmani; e Ali Shariati, il compagno di pensiero dell’Ayatollah Khomeini in Iran. E qui troviamo anche Sayyid Qutb, un altro influente riformista tra i tanti, citato senza commenti, anche se la sua eredità, in una delle sue diramazioni, ha portato ad al Qaida. Nell’uso che ne fa Ramadan, il riformismo salafita risulta essere il fondamento filosofico per l’islamismo moderno nelle varie versioni che derivano dall’idea originale di al Banna (e di Mawdudi). Naturalmente, queste varie versioni non si accordano sempre le une con le altre, e Ramadan chiarisce perfettamente anche questo. In “L’Islam e l’Occidente” divide i derivati dall’idea originale in sottocorrenti o tendenze, anche se per riuscire a distinguerli bisogna ispezionare il suo resoconto molto da vicino, fino all’ultima riga, e cioè le note in calce. Vale la pena di intraprendere un tale studio, non solo per gettare un minimo di luce sulla filosofia di Ramadan, ma anche per dare un ulteriore sguardo ad un altro tema, collegato ma differente, ovvero l’immagine di Ramadan sulla stampa. Ecco allora le sottocorrenti del riformismo salafita, secondo Tariq Ramadan. Scopriamo che una di queste è la sua: una variante esplicitamente occidentalizzata, una versione di cui egli definisce le peculiarità con quelle attraenti espressioni che Buruma ha erroneamente applicato a tutto il movimento; una formula che vuole mantenere l’identità musulmana e far diventare chi vi aderisce leale cittadino del paese democratico che lo ospita. La sottocorrente di Ramadan non è però la principale: questa prospera solo nel mondo musulmano (e, nel libro di Ramadan, solo nelle note a piè di pagina), anche se “prosperare” potrebbe dare un’impressione errata, considerato che, come egli stesso osserva con un tocco d’amarezza, le organizzazioni e i movimenti interni a questa sottocorrente “sono oggetto quasi ovunque, sebbene in diversa misura, di carcerazione, tortura e persecuzione”. Evidentemente Ramadan scrive dei Fratelli musulmani, e (immagino) delle loro numerose varianti e propaggini nazionali e settarie; i Fratelli musulmani nei paesi musulmani stessi, in cui il martirio è entrato a far parte dell’identità del movimento. L’obiettivo della corrente preponderante nel riformismo salafita è pienamente rivoluzionario: la creazione di una società islamica. Poi, nella sua onestà, Ramadan cita quasi mestamente un’altra sottocorrente che scorre dalla fonte del riformismo salafita, sebbene, a suo parere, quest’ultima tendenza abbia svuotato quel riformismo di quasi tutto il suo contenuto originale. E’ passata, ci dice, a un “attivismo strettamente politico”, unito a “una lettura letterale” dei testi sacri, che portano a “un’azione radicalmente rivoluzionaria”. Ramadan descrive questa tendenza col nome di “salafismo politico letterale”, che Buruma cita per nome nel suo testo, ma senza indicare che si tratta di un ramo del riformismo salafita. Ramadan spiega che il salafismo politico letterale ha attirato “l’attenzione del grande pubblico”, anche se nei paesi occidentali è rappresentato solo “da strutture e reti settarie”. Tale espressione è per me incomprensibile, ma dà l’impressione che, nonostante l’attenzione dell’opinione pubblica, il salafismo politico letterale non conti un granché. Ramadan disapprova questa tendenza a causa della sua letteralità e di non meglio precisate deviazioni rispetto ai principi del riformismo salafita, anche se si affretta ad ascrivere gli errori non ad elementi intrinseci alle radici del riformismo salafita, ma all’orribile modo in cui i governi musulmani hanno represso i principali riformisti salafiti. Sul perché poi i salafiti della corrente politica letterale abbiano attratto “l’attenzione del grande pubblico”, Ramadan non dice nulla nel corpo del testo. Solo in una nota menziona “azioni violente e spettacolari”, e nemmeno lì commenta in alcun modo un possibile allontanamento dalla moralità più basilare. Né definisce un’eventuale relazione tra questo genere di cose e il lascito di Qutb. Tutta la discussione è avvolta da un velo di timidezza ed eufemismo, che potrebbe indurre il lettore meno assonnato a non centrare il significato complessivo. Eppure è evidente quello di cui Ramadan sta parlando in questo passaggio. Il salafismo politico letterale è la dottrina che sta alla base del terrorismo emerso dal riformismo salafita, di quell’ampia ondata di assassinii casuali, di quella moda di “azioni violente e spettacolari” che si è abbattuta su tante regioni del mondo musulmano e non solo. Questo intende con “azioni radicalmente rivoluzionarie”. Fa un riferimento piuttosto cauto, in una nota, a “una sezione” del Fronte islamico di salvezza algerino, con cui probabilmente pensa a quelle persone che se ne andavano in giro a sgozzare interi villaggi in Algeria durante gli anni Novanta e che evidentemente non hanno ancora finito. Ma di norma fa la sfinge. Quantomeno non nega la relazione come da fratelli in rotta tra la sua ala del riformismo salafita e i campioni delle “azioni radicalmente rivoluzionarie”, tra due diverse correnti che derivano dalla stessa fonte. Ramadan, su questo tema, è più diretto dell’articolista del Times che tratteggia il suo ritratto. Ma Ramadan ha tralasciato diversi dettagli, che, sommati, formano un insieme notevole. In merito ad al Banna e Qutb, per esempio, è vero, sì, che nonostante il fatto che fossero esattamente contemporanei, i due non si sono mai incontrati di persona. Al Banna fu un riformista salafita sin dall’inizio, mentre Qutb, da giovane, fu un intellettuale laico, poeta e critico letterario, il che significa che al Banna e Qutb disapprovavano la condotta l’uno dell’altro. E comunque non vivevano ai due estremi del mondo. Qutb, come apprendo dalla biografia di Adnan A. Musallam intitolata “From secularism to jihad: Sayyid Qutb and the foundations of radical islamism” (Dal laicismo alla jihad; Sayyid Qutb e i fondamenti dell’islamismo radicale), aderì a una scuola di poesia romantica in Egitto, influenzato, tra gli altri, da Coleridge, e le sue idee sulla poesia lo portarono a cercare la verità nel proprio cuore (invece di seguire la tradizione delle scuole consolidate) e contemporaneamente a bramare romanticamente la morte. Qutb impresse una svolta apocalittica anche alla sua poesia, che, anche se l’autobiografia non si sofferma su questo punto, potrebbe essere paragonata strofa dopo strofa ad alcune poesie dei simbolisti europei di fin de siècle. Tutto questo, gli impulsi romantici e simbolisti, si ritrova nel pensiero islamico di al Banna senza grandi modifiche. Cos’era il riformismo salafita, dopotutto, se non la fede nel fatto che la verità si potesse raggiungere direttamente dal Corano e dal VII secolo, invece di seguire le tradizioni delle scuole già esistenti nella giurisprudenza islamica? E cos’erano le espressioni di al Banna sulla “morte come arte” e “l’arte della morte”, se non una variante islamica dei vagheggiamenti di Qutb sull’eternità della tomba derivati dalla poesia romantica? E per quel che riguarda le fantasie apocalittiche della poesia simbolista di Qutb, ebbene! era l’islamismo stesso, con la brama mussoliniana, da Terzo Reich, della resa dei conti finale. Da questo punto di vista, il laicismo romantico di Qutb e l’islamismo romantico di al Banna erano varianti dello stesso tema. Poi, verso la metà degli anni Quaranta, anche Qutb iniziò la deriva verso l’islamismo, e al Banna era tutt’altro che ostile. Sayyid Qutb e Naguib Mahfouz costituirono una società di mutua ammirazione nello stesso periodo (Qutb, nel suo ruolo di critico letterario, contribuì notevolmente ad accrescere la fama del talento di Mahfouz presso il pubblico), e nel 1948 i due, insieme ad altri, diedero vita a una rivista, di cui Qutb era direttore. Al Banna cercò di corteggiare la rivista portandola a schierarsi coi Fratelli musulmani. L’anno seguente, al Banna venne assassinato. Qutb si trovava casualmente negli Stati Uniti, e in uno dei passaggi più strani del suo rendiconto di quell’esperienza americana racconta di come gli americani gioissero della morte di al Banna, il che probabilmente è frutto della sua fantasia, dato che nel 1949 praticamente nessuno negli Stati Uniti aveva mai sentito parlare di lui. Quella fantasia però indica che, nonostante il fatto che non si fossero mai incontrati, la stima che al Banna provò per Qutb nell’ultima parte della sua vita cominciava a essere corrisposta, poiché al Banna stava diventando una figura storica di profilo mondiale. Poi Qutb tornò in Egitto, entrò a far parte dei Fratelli musulmani, e si fece strada fino al genero di al Banna, “il piccolo Hassan al Banna”, Said Ramadan, direttore di Al Muslimun. La rivista presentava le idee di Abu Ala Mawdudi al mondo di lingua araba, e Qutb adottò alcune di quelle idee per quella che stava diventando la sua dottrina ultrarivoluzionaria. Qutb iniziò a scrivere mensilmente su Al Muslimun. Alcuni di quegli articoli vennero poi raccolti in un libro intitolato “Toward an Islamic Society” (verso una società islamica). Ma il contributo più importante di Qutb ad Al Muslimun consisté in commenti del Corano, fortemente originali, scritti non con lo spirito dell’analisi giurisprudenziale tradizionale ma, al contrario, con lo spirito della critica letteraria romantica, tratta più dal cuore che dai testi di studio. Furono proprio questi articoli, raccolti in un libro, a sbocciare nel colossale capolavoro di Qutb, “In the shade of the Quran” (all’ombra del Corano), considerata la più grande opera singola mai prodotta dal movimento islamista mondiale. Per cui, sì (per la terza volta, sì), Qutb e il nonno di Tariq Ramadan non si sono mai incontrati, non fosse altro che per l’assassinio di al Banna. Ma il padre di Ramadan, Said, direttore di Al Muslimun, non solo conosceva Qutb; egli fu, al momento decisivo, il più importante sostenitore di Qutb nel mondo degli intellettuali egiziani. Said Ramadan era il direttore che avviò Qutb a quello che sarebbe diventato il suo lavoro più importante. E nel peggior momento della vita di Qutb, nel 1954, quando venne accusato per l’ultima volta di stare organizzando una rivoluzione, capo d’accusa per cui fu impiccato l’anno seguente, la presunta cospirazione comprendeva, evidentemente, anche Said Ramadan, l’uomo che sfuggì a quello stesso destino solo perché, nel 1954, si trovava casualmente fuori dal paese. Ian Hamel in “La vérité sur Tariq Ramadan” ribadisce che, negli ultimi anni di vita, Said Ramadan prese in parte le distanze dall’eredità di Qutb. Ma si tratta di un dettaglio di vecchiaia. Le biografie di Said Ramadan e Sayyid Qutb sono intrecciate anche per altre ragioni. E in questo caso il passato, in realtà, non è passato, e Tariq Ramadan ha legato la sua carriera a quell’eredità. Said Ramadan aveva lavorato tempo addietro con Mawdudi in Pakistan; i seguaci inglesi di Mawdudi avevano creato una loro Fondazione islamica, e Tariq Ramadan ha pubblicato i suoi primi due libri in lingua inglese presso la Fondazione islamica e trascorso gli anni di studio al campus di quell’istituzione per ragioni del tutto naturali e familiari. La Fondazione islamica sta lentamente pubblicando una bella edizione del commento del Corano in più volumi di Mawdudi, “Toward understanding the Quran” (verso la comprensione del Corano) tradotto dall’urdu in inglese. E la fondazione sta pubblicando anche “In the shade of the Qur’an”, di Qutb, in un’edizione altrettanto bella, dieci dei cui 18 volumi promessi dalla casa editrice fanno bella mostra di sé nella mia libreria. Tutto ciò è perfettamente sensato, dato che il riformismo salafita costituisce un movimento sufficientemente vasto da estendersi da al Banna al suo genero, da Mawdudi a Qutb e, infine, a Tariq Ramadan. La Fondazione islamica, col suo campus britannico e la Al Banna Hall, non ha fatto nulla di speciale scegliendo di pubblicare Mawdudi, Qutb e Ramadan, perché questi intellettuali gravitano nella stessa costellazione. Ma perché nulla di tutto questo compare nel ritratto di Ramadan sul Times? Non è che Buruma abbia tralasciato la questione della relazione tra Ramadan e Qutb tramite il nonno di Tariq. Buruma ha posto la domanda, anche se si è accontentato di pubblicare la risposta secondo cui il nonno al Banna e Qutb non si erano mai incontrati. Né Buruma manca d’informazioni. In “Occidentalismo” tratta di Qutb e fa presente l’influenza nazista sul suo pensiero. I responsabili del New York Times Magazine (che qualche anno fa hanno pubblicato un mio saggio su Qutb) avevano tutte le ragioni per aspettarsi che Buruma, come su molte altre questioni, sapesse cosa stava facendo. Egli deve essere giunto alla conclusione, per una qualche ragione, che sul Times andava bene porre quella domanda sulla relazione con Sayyid Qutb, ma che non andava bene dare la risposta. In ogni caso, i legami familiari tra Tariq Ramadan e Sayyid Qutb offrono la possibilità di un’analisi. La reputazione di Ramadan per la sua mancanza di franchezza diventa un problema di non poco conto per chiunque voglia cercare di capirlo. Se volessimo sapere quali sono opinioni e convinzioni di moltissimi personaggi pubblici, potremmo semplicemente chiedere a loro stessi e poi pubblicare le risposte con la ragionevole certezza di avere in mano le informazioni giuste. Lo stesso non si può dire di Ramadan, che crea una difficoltà, ovvero la possibilità costante di un significato esoterico. Eppure c’è un modo di inserire la sua dottrina in una sorta di prospettiva storica e intellettuale, e ciò è possibile affiancando Ramadan a Qutb: il figlio del padre vicino all’autore del padre, lo scrittore per la Fondazione islamica vicino allo scrittore per la Fondazione islamica, il riformista salafita vicino al riformista salafita. Ramadan stesso dedica un capitolo di “Aux sources de renouveaux Musulman” a Qutb, tanto per dimostrare che non c’è nulla di illegittimo in un paragone simile. E, ponendo Ramadan di fianco a Qutb, dovrebbe essere possibile, ancora una volta, porre la domanda che non ha ricevuto risposta: che cosa rappresenta, alla fine? Il riformismo salafita, cosa significa in fin dei conti?
V
Il riformismo salafita, a giudicare da Qutb e Ramadan, risulta essere una sorta di teoria rousseauiana: c’è un modo puro e autentico di vivere, il modo musulmano. Ma i musulmani, nati liberi, ovunque sono in catene. Oppressi da quella che Ramadan chiama “un’invasione culturale occidentale aggressiva”, con quel tipo di espressioni che Qutb amava usare mezzo secolo fa (e al Banna prima di lui). Un grande pericolo deriva dalla “colonizzazione delle menti” dall’occidente, secondo le parole di Ramadan, con cui designa l’influenza della televisione. Questo era precisamente un timore di Qutb, anche nell’era precedente alla televisione, che descriveva come “le influenze culturali che sono penetrate nella mia testa”. Per questo è necessario ritrovare la strada verso quel modo di vita puro e autentico. La strada è testuale, e porta ai documenti fondanti dell’islam del VII secolo, in cui si ritrovano la purezza e l’autenticità dei tempi precedenti all’aggressione culturale occidentale e alla colonizzazione delle menti. Ma nessuno di questi uomini vuole ricostruire il VII secolo pietra su pietra. Entrambi sono convinti che, nella sua onnicomprensività, la rivelazione coranica sia più grande del mondo moderno e possa berselo tutto; convinti che, invece di ricostruire il VII secolo, possano ricostruire l’età moderna, e che lo possano fare secondo i precetti salafiti. Possono dare a ciascun elemento della vita moderna il corretto significato islamico. Perciò devono leggere i testi antichi tenendo d’occhio il mondo moderno e pensare a nuove interpretazioni: risposte islamiche, punto per punto, alla sfida dell’occidente, come l’islam convenzionale non è riuscito a fare. Ecco perché sono “riformisti”: a differenza dei tradizionalisti accademici (per usare le parole di Ramadan), che si limitano a ripetere l’antica giurisprudenza islamica; e a differenza dei fondamentalisti nudi e crudi, che vogliono ricostruire il VII secolo. Bisogna dire che, rispetto all’idea di una lettura dei testi antichi che tenga in considerazione il mondo moderno, Qutb è molto più interessato ai testi antichi, mentre Ramadan sembra essere prevalentemente assorbito dal mondo moderno. Ma il principio rimane immutato. Di più, visto che entrambi mirano a ottenere un risultato pratico, ovvero la ricostruzione di una vera comunità musulmana, non hanno alternativa, se non quella di dare al loro progetto un aspetto politico, secondo la dottrina di al Banna. E quest’orientamento all’antico e al moderno induce un altro tratto comune, e cioè la tendenza da parte di entrambi ad impossessarsi del vocabolario politico moderno e convertirlo ai propri scopi: come se il vocabolario politico potesse essere visto come un’altra entità moderna vuota che attende di essere infusa di un significato coranico. I pensatori politici moderni parlano di questo e di quello? Qutb e Ramadan si affretteranno a fare lo stesso, solo in una versione che a loro parere è fedele al Corano. Qutb, seguendo questo istinto, a volte sembra un anarchico rivoluzionario d’inizio Novecento. Altre volte sembra (in uno dei suo primi libri) un fautore del New Deal. La “previdenza sociale” rientra nei suoi ideali. Si tratta di un vocabolario proprio del suo tempo. Ramadan, uomo dell’età postmoderna, preferisce dare l’impressione di essere un teologo della Liberazione dell’America latina, o sembrare uno dei suoi alleati antiglobalizzazione, che si scagliano contro la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale. Cita il filosofo grecofrancese Cornelius Castoriadis, il filosofo dell’“autonomia” di sinistra, che è il suo modo di indulgere in voli della fantasia simil-anarchici. Altre volte sembra un riformista moderato nel senso tradizionale, civico, e non salafita, come chi voglia presentare alcune proposte pratiche e benintenzionate a nome della popolazione emarginata. Ma la retorica moderna rivela poi sempre la sua natura, in una veste o nell’altra, di traduzione di concetti coranici. Si tratta di contenitori mondani di contenuti islamici. Qutb, quando lancia le sue anarchiche odi alla libertà, vuole dirci che, sotto la sua proposta di ritorno al califfato islamico, gli esseri umani non saranno più tiranneggiati da altri esseri umani, ma solo da Dio, nell’interpretazione dei suoi rappresentanti. La retorica libertaria finisce per essere un argomento teocratico contro la democrazia. Con “previdenza sociale”, Qutb indica il dovere tradizionale islamico di pagare una tassa di elemosina; Ramadan richiama i principi libertari civili per difendere l’autonomia della sua ricostituita comunità musulmana. Richiama la retorica antiglobalizzazione dei suo alleati di sinistra per difendere i principali movimenti islamisti nel mondo musulmano. E così via, attraverso tutta la terminologia moderna. Niente di tutto questo è fatto per ingannare chicchessia. Queste persone stanno tentando di “riformare” a fondo non il mondo, ma l’islam, una campagna che vuole far sì che il pensiero islamico si espanda e vada a coprire tutte le nuove innovazioni della vita moderna senza perdere contatto con la rivelazione iniziale. Per questo cercano i concetti moderni e i loro equivalenti coranici, e riempiono il moderno con il coranico. E così facendo, iniziano a lanciare le proprie sfide ai musulmani non riformati e al mondo moderno non musulmano. Le sfide che essi pongono però, risultano essere diverse. Qutb scrisse le sue opere principali nei decenni tra il 1940 e il 1966; e, come i fascisti dell’estrema destra in quegli anni, o i marxisti e gli anarchici dell’estrema sinistra, dipinse un mondo che rotolava verso una crisi catastrofica, cui dava un’interpretazione paranoica e apocalittica. La sua visione del collasso imminente sia dell’occidente che del blocco comunista a oriente, la sua visione di un’avanguardia rivoluzionaria islamica che avrebbe creato da qualche parte nel mondo uno stato islamico per poi esportare la rivoluzione islamica al mondo musulmano e in tutto il mondo, la sua visione dell’utopia coranica che sarebbe venuta, tutto quanto era quasi delirante: una versione grandiosa dell’idea mussoliniana e di quella già stralunata di al Banna che voleva la resurrezione dell’Impero islamico. Forse la visione di Qutb godeva di un grande vantaggio, rispetto agli altri progetti rivoluzionari di metà Novecento, e cioè l’islam, una base eccezionalmente solida su cui collocare le sue tante nuove idee. Ma anche così, la sua visione si collocava pienamente nello spirito di metà secolo. Ramadan non ha alcuna relazione con tutto ciò. E’ post paranoico e post apocalittico. Pensa che la globalizzazione dominata dall’occidente produca la povertà del “sud” sottosviluppato, compreso il mondo musulmano, e che per questo debba essere combattuta. E’ furioso di fronte agli attacchi occidentali al mondo musulmano, che ai suoi occhi sembrano avvenire indipendentemente da quanto faccia o non faccia l’occidente, che per lungo tempo è stato incapace di intervenire in Bosnia e poi ha scelto di intervenire in Afghanistan (una scelta che balza ai suoi occhi come “vendetta contro il popolo afghano”). Negli anni Novanta si gonfia di indignazione nel vedere le sanzioni imposte all’Iraq di Saddam Hussein, e oggi si gonfia ancora di più d’indignazione di fronte all’invasione che ha rovesciato Saddam. Qualsiasi cosa facciano gli Stati Uniti è ai suoi occhi una sorta di complotto; ma non c’è nulla di strano. Non sembra ossessionato dall’imminente catastrofe. Non ha intenzione di lanciare una guerra rivoluzionaria. Aderisce alla scuola di preghiera, o dawa, del riformismo salafita e vuole raggiungere i suoi obiettivi con la persuasione e metodi legali. I suoi sogni non vanno verso un climax utopico. Innanzitutto, vuole creare una controcultura islamica all’interno dell’occidente, ovvero la sua comunità musulmana ricostruita, che invece di ritirarsi nelle mura del ghetto occupi il proprio spazio all’interno della più ampia società non musulmana. Ramadan vuole una parte dello spazio pubblico, non solo di quello privato. Anzi, non vuole: rivendica una parte dello spazio pubblico. Una vita veramente musulmana è una vita fisica e pubblica, che deve essere vissuta in uno spazio fisico, il che impone delle modifiche al laicismo europeo esistente. Per questo vuole, e deve, creare uno spazio pungolando coi gomiti nella più ampia società, chiedendo il suo spazio in più. Sogna forse segretamente qualcosa di più? Può essere, a un qualche livello teologico, non sarebbe strano. Tutte le grandi religioni hanno sogni grandi (e pericolosi). Però, la Fourest, Landau e altri tra gli spaventati critici di Ramadan sospettano l’esistenza di un qualcosa di molto più laico. Sospettano cioè che, clandestinamente, anche Ramadan si culli in quel progetto più vasto, stralunato e non esclusivamente teologico: un mondo dominato dall’islam, per cui la controcultura musulmana fungerebbe da quinta colonna del futuro impero all’interno dell’Europa, sotto il controllo sostanziale dei Fratelli musulmani. Dovrebbe essere facile capire perché, esattamente, quegli spaventati critici covino tali sospetti. L’emigrazione musulmana si è rivelata uno dei più grandi avvenimenti della storia, e in tanti luoghi diversi sparsi in tutta l’Europa occidentale gli abitanti di vecchia data scoprono d’un tratto che il mondo musulmano improvvisamente domina questo quartiere o quella città, e che l’arabo o il turco hanno iniziato a soppiantare qualcuna delle lingue europee minori, e che qui e là i gruppi islamisti invocano la censura di questo o quello, o spiagge separate per uomini e donne, o lo stralcio dai programmi di Voltaire o Darwin, o che si smetta di insegnare la storia dei crimini nazisti. E c’è sempre un sermone di un qualche studioso islamico con un bel vestito esotico che fantastica di una conquista musulmana dell’Europa e del mondo, che quindi può essere citato a dimostrazione di una cospirazione globale. Ed è vero che, in Europa, i Fratelli musulmani e gruppi simili stanno prosperando tra la popolazione immigrata, per non dire dei gruppi della frangia radicale di Qutb, affatto terrificanti; come è anche vero che Ramadan teorizza l’avanzata musulmana; ed è pure vero che egli vuole che la sua controcultura islamica promuova i principali islamisti nel mondo. Ma non è necessario vedere in tutto questo una quinta colonna al servizio dei piani segreti dei Fratelli musulmani. In gran parte, le ambizioni di mondialità di Ramadan sembrano essere cosa del tutto diversa: il sogno di un islam occidentale nella sua versione riformista salafita che si erga a capo delle varie correnti musulmane nel mondo; il sogno di un islam occidentale secondo la sua versione, che divenga il fulcro, smettendo quindi di essere un posto di guardia lontano, di tutto il mondo musulmano. Ma questa non è un’escatologia millenaria. Se giudichiamo in base a criteri strettamente letterari, non c’è paragone tra questi due uomini. Qutb, anche tradotto, padroneggia uno stile di prosa tutto suo, tipicamente sereno e discorsivo, e ciononostante capace di esternazioni sulfuree. Ha il vantaggio di una formazione nel mondo della critica letteraria, che gli permette di commentare con agio il Corano, il suo stile e il suo tono complessivo. E soprattutto ha il vantaggio del Corano, che occupa tutta la sua attenzione. Qutb non mostra alcun imbarazzo nel commentare le barbarie del VII secolo ogni qualvolta sembrino appropriate, dalle crudeli amputazioni alle altre punizioni ordinate dall’huddud, il codice penale, di cui discute meticolosamente (“Nel caso di un terzo o quarto furto, gli studiosi hanno opinioni divergenti in merito alla parte da amputare”, e così via). I passaggi barbari aggiungono un brivido particolare alla sua scrittura, un fremito di strano e proibito che sembra tanto più potente perché il suo tono di voce non cambia mai: è il tono di un uomo che parla con tranquillità e familiarità di cose che sono universalmente vere. E Qutb è, non da ultimo, uno scrittore capace di chiamare a sé le passioni dell’odio. Riversa colpi formidabili sugli ebrei dell’antica Arabia. Riconosce scrupolosamente che, qui o là, il Corano contiene passaggi che mostrano compassione o gentilezza nei confronti di questo o quel singolo ebreo, ma preferisce gli altri passaggi, assai più numerosi: le descrizioni della perfidia e dell’ostilità durante gli anni di Maometto a Medina, che a suo parere rappresentano i tratti immutabili degli ebrei. Nei suoi commenti (così come nell’Al Muslimun di Said Ramadan, a quanto dice Hamel), qui e là si inciampa in riferimenti ai Protocolli dei savi di Sion, in una chiara dimostrazione della continua influenza nazista e similnazista dall’Europa, anche nel periodo successivo alla sconfitta nazista; e in un’altrettanto chiara dimostrazione di quello che sarebbe il riformismo di Qutb, per usare la parola giusta, ovvero la volontà di interpretare i testi antichi sulla base delle idee moderne. Non tutte le idee moderne sono buone, dopotutto; e non tutte le riforme costituiscono un passo avanti. Il professore svizzero, al contrario, che non ha mai languito in una prigione egiziana, non è mai riuscito a elaborare uno stile di prosa affidabile. A volte scrive con un tono emotivo, acceso, personale, appena arcaico, tenebroso, a denti stretti, ed è stupefacente. La primissima frase di “Il riformismo islamico” offre una descrizione mozzafiato di una persona senza nome, che poi si scopre essere il padre dell’autore: “Ho ancora il ricordo intimo della sua presenza e dei suoi silenzi. A volte, dei lunghi silenzi sprofondati nei ricordi, nei pensieri, e, spesso, nell’amarezza. Aveva una vista acuta e uno sguardo penetrante che ora diffondevano il suo calore, la sua cortesia e le sue lacrime, ora armavano la sua determinazione, il suo impegno e la sua rabbia”. In altri punti si abbandona a un tono goffamente esoterico ed ecumenicamente guru, buono per qualsiasi stile. Ecco la prima frase del suo ultimo libro, “Maometto”: “Nelle ore del tramonto, quando questo libro è stato scritto, c’era silenzio, una solitudine meditativa, e l’esperienza di un viaggio, oltre il tempo e lo spazio, verso il cuore, l’essenza della ricerca spirituale, e l’iniziazione al significato”. Più spesso, Ramadan produce una solida prosa espositiva di stampo professorale, ordinaria e chiara, a parte per alcune ovvie traduzioni infelici. Né mai gioca con l’idea che pulsa così insistentemente nei commenti coranici di Qutb, l’idea che solo sfogliando le sue pagine si compia un atto religioso, o ci si impegni in una missione soldatesca, impavida e pericolosa. Ancora una volta, se Ramadan fa pochissimi sforzi per ispirare un senso di elevazione spirituale, non fa nemmeno nulla per incitare i lettori. Ramadan non odia, sicuramente non secondo gli standard di Qutb. Dalle sue pagine non si leva alcun odore di zolfo. Ma i suoi libri possono sembrare castrati. Il resoconto della vita e degli insegnamenti del Profeta in “Maometto” sono inesorabilmente blandi, come se avesse voluto in tutti i modi evitare i toni coranici dell’esaltazione infiorettata. “La vita a Medina continuava”, “la situazione si era fatta difficile per i musulmani di Medina”, “i musulmani erano ritornati a Medina e la vita quotidiana aveva ripreso il suo corso in un’atmosfera assai meno tesa di prima”. Il Profeta stesso è una cara persona. Maometto adora la prima moglie: “La amava così tanto”. Anche le altre mogli. Maometto è ragionevole. Le piccole contraddizioni che emergono nel Corano, che Qutb dipana pazientemente, praticamente scompaiono nella descrizione di Ramadan. Sulla questione degli ebrei, per rimanere alle controversie di Medina, Ramadan presenta Maometto come un personaggio ponderato e giusto. Anche quando ordina il massacro di tutti i maschi di una tribù ebraica, Ramadan chiarisce che Maometto ha impartito quell’ordine non perché la tribù ebraica ostile esemplifichi una caratteristica eterna del demonio sionista, ma perché deve impartire ai suoi numerosi nemici, ebrei e non, una dura lezione. E poiché il massacro riesce nel suo intento, non è necessario commettere altri massacri di quella sorta, il che dimostra la saggezza e persino la moderazione del Profeta. Gli ebrei stessi non suscitano alcun astio nella narrazione che Ramadan fa della vita di Maometto e dell’esperienza della rivelazione. Anzi, egli sottolinea l’unico Dio venerato da musulmani, ebrei e cristiani. Naturalmente riconosce che, a Medina, le relazioni di Maometto con le tribù ebraiche prendono una piega infelice. Ciononostante, secondo la sua versione, “quegli sviluppi non hanno alcun effetto sui principi che soggiacciono alla relazione tra musulmani ed ebrei: riconoscimento e rispetto reciproci, oltre che giustizia davanti alla legge o nella composizione delle controversie tra singoli o gruppi”. Dal punto di vista politico attuale, la rappresentazione di Ramadan è più che superiore, addirittura encomiabile. Alcuni passaggi del suo scritto potrebbero far pensare che se gli studiosi del Corano volessero mai formulare una dettagliata base scritturistica per il riconoscimento da parte musulmana di uno stato ebraico, le rivelazioni profetiche potrebbero risultare, ad un attento esame, più elasticamente flessibili di quanto si potesse immaginare precedentemente. Comunque, una buona storia, come un arto di un ladro inveterato, può essere sempre utilmente amputata, per eliminare qualche spiacevole aspetto asociale. Ma le amputazioni chirurgiche, lo spirito di miglioramento di Ramadan e i suoi atti di devozione multiculturale potrebbero portare il lettore scettico a domandarsi se, come nei vari commenti in risposta a quel sempliciotto di Buruma, non si sia tralasciato ad arte qualche elemento fondamentale. Forse qualcosa sugli ebrei? La violenza? Le donne? Non sollevo questo domande per essere provocatorio. La vita di Ramadan negli ultimi anni, l’elenco delle polemiche e controversie da lui suscitate, hanno già messo sul tappeto questi aspetti particolari, il che mi riporta un’ultima volta alla doppia domanda sulle sue opinioni ginevrine e i loro flebili riflessi sulla stampa e le acque del lago di quella città. lettere@ilfoglio.it