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Il Foglio Rassegna Stampa
09.07.2007 Perché non dobbiamo fidarci di Tariq Ramadan
l'articolo di Paul Berman : capitoli I-III

Testata: Il Foglio
Data: 09 luglio 2007
Pagina: 5
Autore: Paul Berman
Titolo: «Chi ha paura di Tariq Ramadan»

Molti lettori che lo hanno perso, ci hanno chiesto di pubblicare il lungo articolo di Paul Berman pubblicato dal FOGLIO il 4 luglio 2007.
Lo pubblichiamo diviso in più parti 
Di seguito, i primi tre capitoli


Tariq Ramadan è un filosofo islamico carismatico ed energico che vive in Europa e ha acquisito popolarità e influenza presso varie cerchie di musulmani europei negli ultimi quindici anni: prima a Ginevra, dove suo padre, nel 1961, fondò il Centro islamico; poi a Lione, la città francese più vicina alla Svizzera, dove Ramadan è riuscito a crearsi un seguito di giovani legati all’Africa del nord; poi tra i musulmani francesi oltre Lione, alla Fondazione islamica di Leicester, in Inghilterra, dove ha trascorso un anno come assistente, e poi ancora in altri circoli musulmani dell’Europa occidentale, dove si ascoltavano le sue registrazioni audio e si riempivano le aule dove teneva conferenze, di norma convenientemente separate in due sezioni distinte per uomini e donne, e ancora tra i musulmani di vari paesi francofoni in Africa e da lì in tutto il mondo. Ramadan ha un talento particolare nel plasmare le questioni culturali e presentarle all’opinione pubblica dal suo punto di vista, abilità di cui ha dato prova sin dall’inizio. Già nel 1993, quando aveva 32 anni, a Ginevra organizzò una campagna per cancellare l’imminente produzione dell’opera teatrale “Maometto, ovvero il fanatismo” di Voltaire. Quella cancellazione corrispose alla nascita di una stella; anche se Ramadan sostiene, al contrario, di non averci avuto nulla a che fare e che dire l’opposto sarebbe “una pura menzogna”. Non tutte le battaglie sono andate come sperava. Ha insegnato al college di Saussure, dove i colleghi si sono sentiti turbati dalle sue tesi a favore della biologia islamica rispetto a quella darwiniana. Anche in questo caso, Ramadan ha plasmato il dibattito secondo le proprie specifiche, insistendo sul fatto di non aver mai voluto cancellare il programma di biologia esistente, ma semplicemente di completarlo aggiungendo un altro punto di vista. Un’utile proposta creazionista. Ma i darwiniani, a differenza dei volteriani, non si sono affrettati a cedere. Tutto questo accadeva nel 1995, anno in cui Ramadan si era già creato una base sociale a Lione, all’Unione dei giovani musulmani e presso l’editrice e libreria Tawhid. Si trattava di organizzazioni d’immigrati vagamente raffazzonate, in qualche modo lontane dalle principali istituzioni musulmane francesi, ormai consolidate e forti di una lunga tradizione. Eppure, queste ultime sembrano aver salutato con favore l’arrivo di un giovane e brillante filosofo. Lui intanto costruisce alleanze. Partecipa a conferenze. I suoi editoriali si susseguono sui giornali. Prende parte ai dibattiti. Infine il suo volto compare alla televisione francese e sulle copertine dei periodici patinati, che lo presentano al grande pubblico in Francia, con enorme successo. Ciononostante – ed è questa la stranezza di Tariq Ramadan – col crescere dei suoi trionfi e la sempre maggiore diffusione del suo pensiero, non c’è alcun consenso in merito alla natura della sua filosofia o al suo significato per la Francia, o l’Europa, o il mondo. Qualche noto giornalista in Francia si fa attirare da lui sin dall’inizio. Il corrispondente del Monde in materia di islam e laicismo, colmo d’ammirazione, lo pubblicizza regolarmente e di tanto in tanto fa proprie le sue argomentazioni. Sul Monde Diplomatique diventa un caso, non solo una storia, e il direttore ne fa una celebrità. Ottiene l’appoggio della rivista Politis. Nell’estrema sinistra dei movimenti, alcuni radicali antiglobalizzazione e gli acerrimi nemici dei McDonald’s guardano a Ramadan come a un tribuno di un islam progressista, in virtù delle sue denunce contro l’imperialismo americano e il sionismo e delle sue pose da capo popolo a Lione, anche se il suo rigore religioso stride con la sensibilità della sinistra. I trotzkisti della Lega comunista rivoluzionaria stringono con lui una sorta di alleanza. Numerosi attivisti cristiani hanno una certa simpatia per quest’uomo, in cui vedono una controparte affidabile per il dialogo interreligioso. Una diga contro le ondate alluvionali del materialismo laicista. Una coscienza sociale con forti motivazioni religiose simili alle loro, che si adopera per il bene dei poveri e degli oppressi. Ramadan può anche essere sembrato a qualcuno, di tanto in tanto, elegantemente di moda, un campione dell’islam che, dato che l’islam era stato tanto demonizzato, offre un’ultima, fioca speranza di sconvolgere i borghesi. E ancora, alcuni esperti francesi d’islam, come lo stimato studioso Olivier Roy, che non ha certo alcun interesse a sconvolgere chicchessia, trovano a loro volta un che di ammirevole in lui: uno sforzo ragionato di modernizzare l’islam per adattarlo a un’età liberale. Ma in Francia altri fanno qualche passo indietro, e senza troppe esitazioni, prendendo le distanze anche da chi non le prende da Ramadan. Questi critici, profondamente convinti che i suoi amici, ammiratori e sostenitori nella stampa si stiano illudendo e che quelle alleanze si sarebbero un giorno ritorte contro di loro, sostengono che, sotto una maschera dignitosa e presentabile, egli rappresenti l’islam peggiore, non il migliore. Le voci critiche non si levano solo dalle file dei conservatori cristiani e della destra. Il più noto tra i suoi alleati cristiani della sinistra gli si rivolta contro con furia, sentendosi tradito. Alcune importanti figure musulmane si fanno sempre più schive. Anche gli attivisti antiglobalizzazione francesi hanno opinioni divergenti in merito. Ha i suoi sostenitori, ma molti assistono con sgomento allo spettacolo delle folle dei suoi pii seguaci che riempiono le poltrone degli incontri dei no global e all’accalcarsi delle donne coperte col velo intorno al podio dell’oratore. In Francia i suoi nemici più visibili sono le femministe di sinistra, che, data un’occhiata, rabbrividiscono allarmate. Le femministe con un retroterra musulmano lo denunciano su Libération, il quotidiano della sinistra. I politici del Partito socialista francese, che hanno tutto l’interesse a scovare gli elettori arabi e musulmani, non gli prestano alcuna attenzione. Incominciano a diffondersi voci che dipingono un quadro a tinte fosche. La polizia spagnola conduce delle indagini sulla sua rete a Lione. Nel 1995 il ministero dell’Interno francese gli nega il permesso di ritornare in Francia, il che dà il la a una petizione che raccoglie tante firme da far revocare l’ordinanza. I suoi detrattori sul la carta stampata, a cominciare da Lyon Mag, il magazine locale di Lione, avanzano ipotesi piuttosto tetre sui suoi contatti personali. Ramadan risponde con una doppia querela, contro Lyon Mag e contro uno dei critici, lo storico libanese Antoine Sfeir. Il verdetto finale è duplice: contrario a Lyon Mag ma a favore di Sfeir. Il giornale ha poi comunque continuato la sua martellante campagna. Nelle librerie, i testi su Ramadan si susseguono con un ritmo notevole. “Frère Tariq” (fratello Tariq), di Caroline Fourest, del 2004, è sicuramente il più influente: un libro arrabbiato, allarmato, energico nel fare la lista completa dei tropi semplicistici e dei luoghi comuni della stampa francese, sdegnato nei confronti dei giornalisti che continuano ad abboccare alle stesse manipolazioni, sdegnato nei confronti dei progressisti che ritenevano che Ramadan fosse un progressista. Ma è soltanto il primo di vari libri, seguito da altri sei nei tre o quattro anni successivi, tra i quali “Le Sabre et le Coran”, la sciabola e il Corano, di Paul Landau, del 2005, non meno accusatorio del libro della Fourest; “Faut-il faire taire Tariq Ramadan?”, Tariq Ramadan deve essere messo a tacere?, di Aziz Zemouri, dello stesso anno, che dà a Ramadan la possibilità di dire la sua; e “La vérité sur Tariq Ramadan”, la verità su Tariq Ramadan, di Ian Hamel, di quest’anno, vagamente solidale con Ramadan, a tratti scettico e sdegnato di fronte all’ostilità espressa da Fourest e Landau. E anche i libri, partecipando alla controversia, hanno anche contribuito ad accrescere la sua popolarità. Ramadan sembra sapere per istinto come ribattere alle accuse e alle insinuazioni, e le sue repliche riescono a trasformare ogni battuta d’arresto in un passo avanti. Ha insinuato l’esistenza di una certa bigotteria dei suoi critici nei confronti dell’islam, una bigotteria che avrebbe quasi sfiorato il razzismo. Ha sostenuto che quelle critiche rappresentano un residuo della mentalità colonialista del passato. Si è mostrato arrabbiato, distinto, padrone di sé e inamovibile. La combinazione delle risposte date e del contegno tenuto è risultato efficace nella moderna Francia post-imperialista, resa incapace d’agire dai rimorsi della coscienza. Moltissime persone, ascoltando le sue risposte, si sono fatte più pensose. I suoi sostenitori hanno alzato i pugni. E i critici sono diventati sempre più agitati, non solo di fronte a Ramadan, ma anche a quanti, coi loro applausi o il loro tentennare, sembravano aver accettato le sue categorie d’analisi, come storditi. Il suo ingresso nel mondo anglofono inizia in sordina. La Fondazione islamica di Leicester, dove ha studiato e scritto nel 1996-97, gode dell’onore di essere stata la prima istituzione islamica britannica, e la più determinata, a scaldare gli animi contro Salman Rushdie nel 1988, ancor prima che l’Ayatollah Khomeini pronunciasse il suo decreto religioso con cui autorizzava l’assassinio dello scrittore. La fondazione pubblica il suo “Essere musulmano europeo” nel 1999, con risultati modesti. Molti vedono in quell’opera una buona base per stabilire nuove, sane relazioni tra la vecchia Europa non musulmana e la nuova popolazione immigrata musulmana. Daniel Pipes, negli Stati Uniti, è uno degli osservatori che acclamano l’opera, anche se, visitando il suo sito, si scopre che, da quella prima recensione, egli continua ad inviare contrite osservazioni aggiuntive su quanto lui stesso si sia sbagliato e in cui si chiede cosa mai gli fosse venuto in mente. (E si scopre anche che Ramadan, da parte sua e insieme a uno o due giornalisti solidali, ha promosso Pipes, mettendolo al centro della cospirazione anti Ramadan di matrice giudaica). Nel 2001 la Fondazione islamica pubblica “Islam, the West and the Challenges of Modernity” (in Italia “Il riformismo islamico – Un secolo di rinnovamento musulmano”), uno scritto filosofico che ha attirato minore attenzione. Ma la polemica continua a mietere frutti miracolosi, e nel lontano Indiana l’università di Notre Dame gli propone una cattedra a partire dal 2004, finanziata in parte, il caso vuole, dalla famiglia Kroc, ovvero dal patrimonio McDonald’s. Ramadan accetta, ottiene un visto d’ingresso, organizza il trasferimento della sua famiglia ma, all’ultimo momento, il Dipartimento per la sicurezza interna tergiversa e il Dipartimento di stato revoca il visto. L’Aclu (American Civil Liberties Union, un’organizzazione non governativa per la difesa dei diritti civili e delle libertà individuali negli Stati Uniti), il Pen (un’associazione di scrittori) e un altro paio di organizzazioni accademiche accorrono in sua difesa, com’era loro dovere. Ma il nostro è bloccato, il che gli procura ancora più pubblicità, in parte ostile, naturalmente, ma in gran parte solidale, com’era del tutto naturale, per la sensazione che sia stato offeso, per l’esasperazione del provincialismo americano e i tremendi ricordi dell’ottusa xenofobia maccartista di ieri. Comunque, il no americano innesca un sì britannico. Il St. Anthony’s College di Oxford subentra, offrendo un posto come assistente per il 2005, che Ramadan accetta. Gli attacchi terroristici di Londra hanno luogo nel luglio dello stesso anno. Il governo Blair organizza una commissione consultiva col compito di elaborare le raccomandazioni che ritenga opportune, e Ramadan, invitato a prendervi parte, accetta. Così, un incidente dopo l’altro, tra sconfitte e vittorie, viene innalzato alla gloria dei vertici del giornalismo americano: gli vengono riservati quella fotografia a tutta pagina e quel ritratto a tutto tondo sul New York Times Magazine che metà degli scrittori e intellettuali d’Europa sogna di conquistare un giorno, nella speranza di raggiungere l’impossibile, ovvero di fare breccia nelle librerie e nelle conversazioni d’America. Nessuna rivista statunitense batte il New York Times Magazine in quanto a sforzi profusi negli ultimi anni per dar luce alla vita intellettuale del mondo musulmano, sempre in modo serio, mai leggero, sempre ricorrendo a grandi fonti giornalistiche, sempre in modo completo e approfondito. In questo caso, il magazine del Times ha affidato il ritratto del personaggio a Ian Buruma, con una scelta impeccabile. Buruma l’anno scorso ha pubblicato un libro, “Assassinio ad Amsterdam – I limiti della tolleranza e il caso di Theo van Gogh”, sull’uccisione del regista olandese Theo van Gogh da parte di un fanatico islamico, testimonianza della sua perfetta conoscenza dei pericoli dell’islamismo in Europa. Tre anni fa, Buruma e il filosofo israeliano Avishai Margalit avevano unito le loro forze nella scrittura di un libro, “Occidentalismo – L’occidente agli occhi dei suoi nemici”, che trattava del fascino storico esercitato dalle dottrine europee fasciste e antiliberali su chi vive al di fuori dell’Europa, a testimonianza delle ottime conoscenze di Buruma anche sulle ideologie ostinate e totalitarie, un’ulteriore credenziale pertinente al nostro argomento. Buruma ha preparato il suo ritratto, pubblicato dal Times Magazine a febbraio, ma, date le controversie suscitate nei mesi precedenti dall’attività giornalistica di Buruma in Europa, l’articolo è stato oggetto di grandi e protratte attenzioni, non solo in Europa. Il pezzo, ancora disponibile sul sito del New York Times, è ironicamente intitolato “Tariq Ramadan ha un problema d’identità”, e balza all’occhio per il tono, come disorientato. Buruma sembra frastornato dalla difficoltà di organizzare chiaramente il tema, e persino di predisporre un’intervista, anche se alla fine è riuscito a ottenerne una. Buruma ripresenta disciplinatamente alcune delle accuse politiche mosse a Ramadan in Francia, nella forma quantomeno più generica: voci torbide, sospetti istintivi, i timori delle femministe. A parere dell’intervistatore tutte le accuse, una dopo l’altra, risultano infondate, o esagerate e ingiuste, o distorte perché slegate dal contesto. Oppure Buruma non esprime la sua opinione personale, permette a Ramadan, per pura cortesia, di controbattere a tutte le critiche, e ogni risposta sembra convincente, o almeno plausibile, anche se Buruma di tanto in tanto sembra sollevare criticamente un sopracciglio. Si meraviglia del mix ramadaniano di fervore antiglobalizzazione e opinioni culturali ultraconservatrici. “In termini americani – commenta – è un Noam Chomsky della politica estera e un Jerry Falwell delle questioni sociali”. Ma Buruma sembra guardare a Ramadan con molta più comprensione di quanto non sarebbe stato lecito pensare, considerando il paragone con Chomsky o Falwell. Spiega che l’anno precedente la rivista francese Le Point l’aveva invitato a un dibattito con Ramadan, e, nella speranza di vedere scintille, gli aveva chiesto di essere aggressivo. Il dibattito si fece, e Ramadan fu imperturbabile, tanto che la discussione non riuscì a inciampare in alcuna differenza rilevante. “Ci siamo trovati d’accordo quasi su tutto – scrive Buruma – e anche quando non lo eravamo (lui era più disponibile nei confronti del Papa di quanto non lo fossi io), il nostro ‘dibattito’ non riusciva a incendiarsi”: un resoconto che, nella sua affabilità, sarebbe difficile immaginare se Buruma si fosse trovato su un palco faccia a faccia con Chomsky o Falwell. “Ci siamo trovati d’accordo quasi su tutto”: no, sarebbe un risultato improbabile di un eventuale incontro con l’antimperialista del MIT o l’ultimo evangelista della destra cristiana. In linea generale, Buruma ritiene che, nonostante le controversie e le accuse, Ramadan il filosofo offra, per usare le sue parole, “un’impostazione razionale ma tradizionalista dell’islam”, che si fonda su “valori universali, esattamente come sono quelli dell’illuminismo europeo”. Ritiene che i valori di Ramadan, per quanto “né laici, né sempre liberali”, offrano “un’alternativa alla violenza, il che costituisce, in fondo, una ragione sufficiente per impegnarsi in un confronto con lui, in modo critico, ma senza paure”. Non esattamente pieno sostegno. Ma pur sempre sostegno. Che implica inequivocabilmente che Ramadan, interlocutore rispettabile, rappresenti qualcosa di più che non se stesso, ragion per cui impegnarsi in un dibattito con lui potrebbe essere utile per scoprire i princìpi umani e filosofici che i cuori e le menti occidentali e musulmane potrebbero condividere, per superare le divisioni e infine raggiungere, tra occidente e islam, una pace culturale: obiettivi che ogni persona di buon senso vorrebbe vedere raggiunti, anche se non tutti sarebbero disposti ad accettare troppo in fretta una visione del mondo che relega l’occidente in un angolo e l’islam nell’altro. Queste le conclusioni sul Times Magazine. Caute. Ma fiduciose. E qui, in un singolo, ampio ritratto, tutta la massa ben consolidata di cliché tipici della stampa europea su Ramadan catalogati e deplorati tre anni prima da Caroline Fourest fa il suo ingresso sulla stampa americana; semplice come atterrare in un aeroporto. Né Buruma è stato lasciato solo col suo bagaglio di opinioni e valutazioni. La New York Review of Books aveva già pubblicato un saggio di Timothy Garton Ash, collega di Ramadan al St. Antony’s College. Garton Ash si sprofonda in lodi di Buruma e, en passant, elogia anche Ramadan, sulla falsariga di Buruma, ma senza note di cautela. Questa primavera, la Oxford University Press ha pubblicato l’ultimo libro di Ramadan in inglese, una biografia del profeta Maometto intitolata “Maometto, dall’islam di ieri all’islam di oggi”. Il New York Times ha affidato la recensione del volume a Stéphanie Giry, editorialista di Foreign Affairs e giornalista che, come Buruma, ha collaborato in passato con The New Republic. Giry nella sua recensione ha addirittura richiamato l’autorevolezza dell’articolo di Buruma sul Times, di cui ha seguito quasi alla lettera le argomentazioni. Non mi sembra scontato che Buruma abbia letto molto di Ramadan, né che Stéphanie Giry abbia letto più di un solo libro, anche se ha incontrato il soggetto in questione. Quanto a Garton Ash, nel suo saggio sulla New York Review, egli ha confessato di aver basato il proprio giudizio sull’ascolto degli interventi di Ramadan, il che potrebbe voler dire che non ha letto assolutamente nulla di Ramadan. Ma non importa: l’opinione si è chiaramente diffusa. E così Tariq Ramadan, acquisita una brillante fama i cui raggi di luce si rifrangono da un paese all’altro, è riuscito a gettare brillantemente luce su due tendenze diverse, fosche e tra loro collegate, emerse negli ultimi due anni: una molto ampia e nuova, sviluppatasi tra cerchie selezionate di pii musulmani in Europa e non solo; e l’altra, altrettanto nuova e ancor più notevole, tra giornalisti e intellettuali, generalmente poco pii, d’Europa e d’America.

II


Tariq Ramadan non è altro che un figlio e fratello, e soprattutto un nipote, per non dire pronipote: le relazioni familiari plasmano tutto quanto scrive e fa, o quantomeno l’impressione suscitata dai suoi scritti e dalle sue azioni, destino insolito per chi scrive di cose politiche. Suo nonno fu Hassan al Banna, nato in Egitto nel 1906 e assassinato dalla polizia politica di quel paese nel 1949: un uomo che ancora proietta una lunga ombra sugli eventi attuali. Giovanissimo, Hassan al Banna concepì un progetto del tutto originale per il mondo musulmano, o almeno parzialmente originale, come spesso avviene con le idee nuove. Posò gli occhi su alcuni pensatori del tardo Ottocento, in particolare su Muhammad Abduh (sotto la cui guida il padre di al Banna, bisnonno di Ramadan, aveva studiato all’università di Al Azhar) e sul mentore e collega di Abduh, Jamal al Din al Afghani. Si trattava di persone che volevano deporre i colonizzatori europei e contemporaneamente modernizzare il mondo islamico, unendo ragione e fede, tradizione e modernità, le conquiste islamiche dell’antichità alle grandi scoperte europee della loro età. Invocavano un rinnovamento islamico che sarebbe tornato alle radici originarie, o “salafite”, dell’islam del VII secolo, mantenendo però uno spirito d’innovazione: un progetto sensato, perché nel VII secolo l’islam era stato fortemente innovativo. Forse c’era un che di ambiguo in quelle idee ottocentesche. Si è persino detto che al Afghani non sarebbe mai stato del tutto sincero sulle sue convinzioni religiose e che usasse l’islam a scopi retorici. Ma comunque le ambizioni e ambiguità del XIX secolo sembrerebbero sufficientemente riconoscibili. A cavallo tra XIX e XX secolo, in diversi luoghi del mondo – in America latina, India, Cina – intellettuali d’ideologia nazionalista compirono onesti sforzi per tentare di conciliare le proprie tradizioni autoctone e le innovazioni europee e americane, nella speranza di deporre gli imperialisti. L’idea all’epoca era irresistibile, e lo è tuttora, ma non è mai stato davvero chiaro come raggiungere anche solo una parte di questo risultato. L’idea di Hassan al Banna, negli anni Venti e Trenta, fu di trasformare quella proposta di rinnovamento che doveva unire VII secolo ed età moderna in una forza politica peculiare e lungimirante. Con un occhio ad alcune innovazioni europee del suo tempo, ovvero ai movimenti politici dell’estrema destra degli anni Venti, Trenta e Quaranta, le cui dottrine egli fu felice di prendere in prestito nella misura in cui poteva adattarle ai suoi scopi. E nel 1928, quando queste varie e disparate ispirazioni cominciavano a prendere forma nella sua immaginazione, fondò i Fratelli musulmani. L’organizzazione era minuscola, ma crebbe, diventando una forza politica. Essendo però sempre contemporaneamente anche molte altre cose: rigorosamente pia e osservante, intellettualmente vigorosa, impegnata sul fronte dell’istruzione e della cultura, onestamente orientata al benessere e all’attività fisica (i Boy Scout furono una delle influenze dirette), segretamente paramilitare (ma in apparenza sempre cauta e rispettosa della legge) e occasionalmente non incapace di allestire un assassinio. In buona sostanza, i Fratelli musulmani di al Banna erano rivoluzionari in nome dell’utopia coranica, in una visione politicizzata del ritorno al XII secolo salafita, modificato perché fosse conciliabile con l’età moderna. I Fratelli di al Banna furono, in breve, il modello originale di quanto poi è diventato noto come islamismo, dove il suffisso “ismo” distingue l’islam vero e proprio, l’antica religione, dalla moderna tendenza politica, e non solo politica, introdotta nel mondo da al Banna. I Fratelli musulmani si diffusero dall’Egitto in Siria, Palestina, Sudan e oltre, e i princìpi ispiratori raggiunsero persino l’Iran (tramite la variante sciita dell’idea di al Banna, concepita dall’ayatollah Ruhollah Khomeini e da Ali Svariati), India e Pakistan (tramite un movimento collegato fondato indipendentemente da Abul Ala Mawdudi, l’omologo di al Banna nell’Asia meridionale) e ancora più in là. In misura limitata, l’organizzazione si espanse anche in Europa, sotto la guida del segretario e genero di al Banna, Said Ramadan, poi padre di Tariq Ramadan. Said Ramadan fu un luogotenente leale, chiamato “il piccolo Hassan al Banna”, e da giovanissimo si accollò grandi responsabilità: fu incaricato di diffondere il messaggio dei Fratelli musulmani in Palestina (dove, nel 1948, combattè nella guerra contro Israele) e nel Pakistan (dove coordinò la collaborazione con il movimento di Mawdudi). E pubblicò anche un foglio mensile, Al Muslimun, che introdusse le idee di Mawdudi presso l’opinione pubblica araba. Nel 1954 il governo egiziano di Nasser sciolse i Fratelli musulmani e gettò in prigione i suoi vertici, insieme a molti altri, ma Said Ramadan, che aveva già trascorso un mese in carcere, si trovava casualmente a Gerusalemme nel momento cruciale, e riuscì a sfuggire al giro di vite. Quindi fuggì da un capo all’altro del mondo arabo, poi in Germania e infine lontano, a Ginevra, dove fondò il suo Centro islamico e formò una famiglia. Rifondò Al Muslimun e fino alla morte, nel 1995, continuò il suo lavoro di proselitismo tra i musulmani dell’Europa occidentale. Il numero di persone in tutto il mondo che hanno finito per guardare con ardente venerazione ai Fratelli musulmani e al loro patrimonio islamista è ormai incommensurabilmente vasto, e questo vale anche per l’Europa occidentale. La popolazione musulmana in questa parte del globo non arrivava a un milione negli anni Cinquanta, ma recentemente si è gonfiata fino a raggiungere circa i 20 milioni, anche se nessuno sembra disporre di cifre esatte; questo significa che, agli occhi di un numero enorme di musulmani europei, non esiste discendenza più gloriosa di quella di Tariq Ramadan. E anche lui, che è nato e ha studiato in Svizzera, si è sempre beato del suo retaggio familiare, a volte con umiltà, a volte con arroganza, a volte ritenendo di avere il diritto di parlare nel nome del suo riverito e defunto nonno, a volte presentandosi con l’aria afflitta di un uomo che, tramite suo padre, ha provato nella carne viva il senso delle persecuzioni e della sofferenza. Eppure l’augusto lignaggio di Ramadan, già di per sé, genera crescenti controversie, come d’altronde è sempre stato. All’Università di Ginevra, Ramadan scrisse la tesi sulle idee del nonno, e la commissione ritenne che si trattasse di apologia partigiana, non all’altezza di una lode. Ramadan protestò. Un socialista svizzero si levò in sua difesa e fu convocata una seconda commissione, cosa rara. Anche in quel caso, la tesi fu accolta senza onori. Si trattava di una disputa accademica, ma anche di qualcosa di più, che non si è mai risolta. E’ una disputa sul significato del rinnovamento islamico di Hassan al Banna e sulla sua eredità politica e culturale per il presente, non solo per il passato. Una disputa sul fatto che il movimento di al Banna vada considerato come una forza progressista o meno, nonostante tutte le riserve o le proteste che tale considerazione potrebbe suscitare. O c’è qualcosa nell’eredità lasciata da al Banna che ci deve fare preoccupare fino al panico? Tutti sanno ormai che al Qaida fa risalire le sue radici a una scheggia staccatasi dai Fratelli musulmani in Egitto negli anni Sessanta, se non prima; il che fa sorgere una domanda scomoda, cui Ramadan ha dovuto rispondere più di una volta negli anni successivi all’11 settembre. L’ha fatto ancora una volta nell’articolo di Buruma sul Times di febbraio. Riconoscendo che, sì, al Qaida è emersa dai Fratelli musulmani, ma non dal lascito del nonno al Banna. Al Qaida trarrebbe invece ispirazione da Sayyid Qutb (1906-1966), che entrò a far parte dei Fratelli musulmani solo dopo l’assassinio di al Banna. Di al Banna e Qutb, Ramadan dice: “Non si conoscevano nemmeno”, che è vero, nel senso più stretto. Buruma cita l’osservazione, e lo fa a ragion veduta (anche se è strano che non rilevi quanto fosse fuorviante l’intervento di Ramadan, da un punto di vista più ampio, sul quale tornerò in seguito), ma continua a citare il resoconto di Ramadan sulla differenza degli obiettivi politici di al Banna rispetto a quelli di Qutb. Al Banna, come dice Ramadan, “era a favore di un sistema parlamentare su modello inglese, non contrario all’islam”. Ma questa seconda osservazione è ugualmente corretta, anche da un punto di vista più ravvicinato? Sul Times, Buruma sceglie una linea tanto contorta quanto evasiva. Osserva: “Può essere una rappresentazione accurata di Hassan al Banna, come può non esserlo”, dando prova del tratto caratteristico che costituisce il suo fascino letterario, ovvero la dote per gli eufemismi e l’ambiguità. Ma un’ambiguità espressa con un eufemismo non rappresenta il modo migliore per informare l’opinione pubblica. Avrebbe potuto forse far notare che Ramadan, nel suo “Aux sources du renouveau musulman” (alle radici del rinnovamento musulmano), del 1998, dedica circa duecento pagine ad al Banna e alle sue rivoluzionarie idee. Ramadan ammette che al Banna volesse sostituire il sistema pluripartitico egiziano con un solo consiglio nazionale, che potrebbe sembrare uno stato monopartitico, ma spiega che, data la natura fondamentalmente democratica dell’islam, quella proposta era equivalente ad un sistema pluripartitico. Questa la sua interpretazione nel libro appena citato. E Buruma avrebbe potuto presentare almeno una delle principali interpretazioni alternative di al Banna e delle sue idee, quantomeno per inquadrare in una prospettiva un poco più ampia Ramadan e il suo pensiero. Questa seconda interpretazione arriva alla conclusione che la qualifica che meglio descrive al Banna è quella di fascista. Si tratta di una valutazione piuttosto comune in passato nella sinistra araba, per non dire dei marxisti europei; forse in qualche caso perché “fascista” è l’insulto preferito da tanti a sinistra, senz’altra ragione. Eppure il cosiddetto “clerico-fascismo” (per usare la terminologia tradizionale) è un vecchio concetto della sinistra, che risale agli anni Venti della storia italiana, in cui era usato per indicare l’ala militante dell’estrema destra cattolica. E almeno qualcuno in passato riteneva fosse difficile non applicare quell’etichetta al nuovo movimento di al Banna in Egitto; ovviamente, dato il populismo e l’emozionalità demagogica dei Fratelli musulmani, insieme all’autoritarismo, all’intolleranza, alla violenza, alla sua natura invasiva e a un certo tipo di vorticoso utopismo tipicamente novecentesco, per non dire di certe influenze dirette che, partendo dalla patria originale del fascismo in Europa, attraversarono il mar Mediterraneo. Ma allora, agli occhi di un numero consistente di osservatori, studiosi e giornalisti, l’etichetta di fascista, o un termine ragionevolmente simile, sembra vagamente, o più che vagamente, applicabile anche oggi. Troviamo una sofisticata presentazione politologica di quest’analisi negli scritti di Bassam Tibi, studioso sirio-tedesco, anche se Tibi, nella sua precisione, preferisce applicare ad al Banna e alla sua eredità l’espressione arendtiana “totalitario” (coniata peraltro per Mussolini), rispetto all’etichetta di “fascista” (anch’essa coniata per Mussolini). Il dibattito sul fascismo di al Banna si presenta a più riprese nella letteratura attuale su Tariq Ramadan. Paul Landau, in “Le Sabre et le Coran”, descrive al Banna, nella sua posizione di guida dei Fratelli musulmani, come un personaggio paragonabile al Duce e al Führer. Landau attribuisce grande importanza all’amicizia di al Banna con Haj Amin al-Husseini, il Mufti di Gerusalemme che, alleato di Hitler, aiutò ad organizzare una divisione musulmana delle Waffen-SS e, dopo la guerra, quand’era ricercato per crimini di guerra (per via di quella stessa divisione), riuscì a fuggire in Egitto grazie proprio all’aiuto di al Banna. Ian Hamel riprende queste osservazioni di Landau in “La vérité sur Tariq Ramadan” (la verità su Tariq Ramadan, non tradotto in italiano), anche se di norma il suo proposito è distruggere tutto quando dica Landau, se gli è possibile. Persino Hamel descrive al Banna come un uomo con “un’organizzazione totalitaria e un programma estremista”. Caroline Fourest propone un’osservazione ancora più notevole in “Frére Tariq”, con un riferimento alla “Epistle to the Young” (epistola ai giovani) di al Banna. L’epistola espone, nelle sei frasi che ne costituiscono il motto (“Dio è il nostro fine; il Profeta la nostra guida; il Corano la nostra costituzione; la lotta il nostro strumento; la morte sul cammino di Dio il nostro massimo desiderio; Dio è grande, Dio è grande”) le cinque fasi del suo programma. Ovvero, la creazione di un individuo veramente musulmano, nel pensiero e nella fede; di una vera famiglia musulmana; di un popolo o una comunità veramente musulmani; di uno stato islamico; e, infine, la resurrezione dell’antico Impero islamico, che al Banna descrive con un riferimento ammirato a quello che chiama il “Reich tedesco” e al sogno mussoliniano di un rinato Impero romano, anche se ovviamente al Banna ritiene che il suo rinato Impero islamico sarebbe infinitamente preferibile e teologicamente più legittimo di qualsiasi progetto contemplato da Mussolini. Negli anni Quaranta, le autorità britanniche in Egitto presero molto sul serio questo tipo di desiderio e, nella speranza di evitare qualsiasi cosa assomigliasse al colpo di stato pro Asse avvenuto in Iraq nel 1941, promossero più di una volta l’arresto di al Banna. Ma l’aspetto più incisivo della dissertazione della Fourest su al Banna e la sua Epistola sta nell’osservazione che Ramadan, in una delle note registrazioni audio in cui presenta l’opera, omette i riferimenti al fascismo, il che fa riemergere il problema della franchezza. Tra i vari commenti recenti su al Banna e il fascismo in cui mi sono imbattuto ultimamente, il più rivelatore risulta essere un saggio delle studiose israeliane Ladan e Roya Boroumand, apparso in una raccolta intitolata “Islam and Democracy in the Middle East” (l’Islam e la democrazia nel medio oriente), a cura di Larry Diamone, Marc F. Plattner e Daniel Brumberg. Le Boroumand (due sorelle) giungono a una valutazione cupa: “L’uomo che ha fatto più di ogni altro per dare uno stampo islamico all’ideologia totalitaria è stato un insegnante egiziano, Hassan al Banna”. Con “ideologia totalitaria” le sorelle Boroumand pensano alle dottrine del fascismo italiano e del nazismo tedesco, di cui sottolineano le influenze su al Banna, evidenziandone le disastrose conseguenze: “Dai fascisti, e prima di loro dalla tradizione europea di una violenza rivoluzionaria ‘trasformatrice’ o ‘purificatrice’ iniziata coi Giacobini, al Banna prende anche in prestito l’idea di morte eroica come una forma d’arte politica”. Non c’è nulla di peculiarmente nuovo o astruso nel notare che al Banna mostrò un interesse entusiasta per il culto esteta della morte. La storia classica dei Fratelli musulmani, “The Society of the Muslim Brothers” (la Società dei Fratelli musulmani), di Richard P. Mitchell, pubblicata nel 1969, era decisamente lucida in merito già all’epoca. Al Banna elaborò un doppio motto sull’importanza della morte come obiettivo del jihad: “L’arte della morte (fann al mawt) e “la morte è arte” (al mawt fann). Dalla descrizione di Mitchell apprendiamo che il motto divenne poi una parte famosa del lascito di al Banna. Intrecciando la sua parafrasi con le parole di al Banna, Mitchell scrive: “Il Corano ha comandato alle persone di amare la morte più della vita” (una frase che, mi sento di aggiungere, abbiamo sentito più volte nelle dichiarazioni dei terroristi degli ultimi anni, per esempio nel video realizzato dal gruppo islamista che ha colpito Madrid nel 2004). E prosegue con le parole di al Banna: “Se la filosofia del Corano sulla morte non sostituirà l’amore per la vita che ha consumato i musulmani, non raggiungeranno nulla. La vittoria può venire solo con la perfetta padronanza dell’arte della morte”. Quanto potrebbe colpire alcuni perché nuovo o controverso è però l’osservazione delle Boroumand secondo cui al Banna trasse queste idee raccapriccianti dall’Europa, e non, come egli stesso invece sosteneva, dalla tradizione coranica. Da questo punto di vista, fece una cosa tremenda all’islam: fondò la popolarità moderna del terrorismo suicida, il culto della morte come forma di arte politica per eccellenza, e unì questo culto all’islam. Questa interpretazione del suo operato corrisponde a quella fatta da Bassam Tibi, anche se questi rimarca che al Banna fece soprattutto da apripista per Sayyid Qutb, che poi svolse il ruolo principale. Ian Buruma, coautore di “Occidentalismo”, ha svolto studi approfonditi sull’influenza del fascismo al di fuori dell’Europa, per cui sa qualcosina di tutte queste osservazioni e concetti, e le sue perfette conoscenze devono aver contribuito alla risposta scettica che egli dà sul Times alla descrizione di Ramadan di suo nonno, anche se evita, con grande tatto, di condividere queste osservazioni coi suoi lettori. Egli nota che la descrizione di al Banna fatta da Ramadan ci dice “molto su come egli si presenta”. Ma cosa ci dice? Sul Times, Buruma si limita a osservare che Ramadan è un costruttore di ponti, che si impegna a “conciliare quel che sembra difficile conciliare” e conferma il tutto citando un cattedratico dell’Università di Notre Dame che lo loda per “il suo tentativo di superare il divario e trovare un accordo tra persone provenienti da mondi diversi e con opinioni diverse”. Sembra tutto bellissimo, ma solo fintantoché tutti accettano di non menzionare o descrivere alcune delle varie opinioni che si vorrebbero riunire.

III

Ma queste sono questioni vecchie di un paio di generazioni, e Ramadan non è suo nonno, né sembra essere un agente della sua organizzazione (anche se sia Fourest che Landau ritengono di sì). “Il passato è passato”, come dice il Corano più di una volta. E il passato non ci può dire cosa stia cercando di fare Ramadan nel presente. Le sue idee, le sue intenzioni, a cosa mirano, in fondo? E’ quel che tutti si chiedono da una dozzina d’anni circa. Sul Times, Buruma pone una domanda molto diretta: “Cosa rappresenta?”. E, posta la domanda, si fa da parte per lasciare la risposta a Ramadan, che coglie l’occasione di parlare di principi filosofici. Rappresenta, spiega, “valori universali” in linea con l’illuminismo europeo. Rappresenta il razionalismo che nasce dal dubbio, anche se preferisce soffermarsi su questi concetti e convinzioni citando la saggezza dei profeti islamici e non i loro omologhi europei. “Il dubbio non è iniziato con Cartesio – spiega Ramadan a Buruma – Noi oggi pensiamo che occidente e islam siano mondi affatto separati. Non è vero. Tutto quello che faccio, in termini di connessioni, intersezioni, valori universali che condividiamo, esiste già nella storia passata”. E quindi rappresenta i punti comuni tra occidente e islam, i valori che tutti dovrebbero condividere, senonché, nella sua versione, preferisce conferire a questi valori una declinazione islamica. La sua risposta è ragionevole da un punto di vista filosofico e difendibile da quello storico, visti i saggi medievali e le influenze di Aristotele in un senso e nell’altro. D’altra parte, vale la pena di chiedersi perché dovremmo preoccuparci di quel che “già esisteva nella storia passata”, come dice Ramadan. Perché stare a preoccuparsi delle linee cronologiche storiche o del fatto che Cartesio sia venuto prima o dopo? Non si tratta di domande trabocchetto. Potrebbero esserci risposte ovvie: per ricordare all’opinione pubblica occidentale, boriosa e antimusulmana, qual è stato il contributo musulmano alla civilizzazione del mondo. O per confortare l’opinione pubblica del mondo musulmano, che può sentirsi un po’ scoraggiata e assediata. O semplicemente per costruire una cronistoria accurata delle idee, progetto valevole già di per sé. Ancora una volta, con quel riferimento ai pensatori islamici del Medioevo, Ramadan sembra voler dire che le radici antiche sono tutto, o che la scienza e la razionalità assumono declinazioni diverse a seconda delle origini di ciascuno, in versioni diverse per i musulmani e per il resto del mondo; o che l’universalismo stesso si presenta in diverse versioni, e il mio universalismo potrebbe non essere lo stesso tuo, e la verità varia da cultura a cultura; al che, ovviamente, nascono altre domande. L’idea che la scienza e la razionalità si presentino in versioni differenti è vecchia: è lo stesso principio che, portato alle sue logiche conclusioni, indusse i nazisti a ritenere che la fisica si presentasse in una versione ariana e una ebraica, non identiche, anche se sembravano essere identiche; e che indusse gli stalinisti a ritenere che la scienza proletaria fosse una cosa e quella borghese un’altra, nonostante tutte le somiglianze apparenti; e via dicendo. Non è difficile imbattersi in questo tipo di argomentazioni nella letteratura islamista: l’idea che la scienza esista in una versione occidentale e in una islamica che non sono identiche. La stessa idea riappare oggi in un’edulcorata variazione postmoderna, una sorta di multiculturalismo elevato all’ennesima potenza, per cui ogni cultura è equivalente e unica, e la rivendicazione di ogni cultura di rappresentare valori universali dovrebbe essere presa cum grano salis, come una retorica conforme che probabilmente non significa molto. Allora, dove si colloca Ramadan in queste questioni filosofiche? Buruma non si spinge più in là, ma Ian Hamel pone questa domanda in “La vérité sur Tariq Ramadan”, in cui inserisce una serie di singole citazioni che sembrano indicare come Ramadan tracci un confine attento tra questioni religiose e scientifiche; e che sappia che la medicina è medicina, indipendentemente dalle sue origini; e che la sua nozione di universalità è davvero universale. Ma è difficile giudicare il significato di quelle citazioni, se sono private del contesto originale. In “Aux sources du renouveau Musulman”, Ramadan presenta una citazione che fa pensare che al Banna stesso avesse un’idea lucida e non fascista delle scienze naturali. Ma in “Il riformismo islamico” Ramadan dice infine chiaramente che, a suo modo di vedere, l’universalismo islamico non corrisponde a quello occidentale e il raziocinio dell’islam, e il modo in cui ammette il dubbio, non è uguale al raziocinio occidentale e al modo in cui questo ammette il dubbio. Il che potrebbe spiegare perché Ramadan ritiene che l’insegnamento della biologia sia solo un insegnamento della biologia occidentale, che dovrebbe essere completata da un po’ di biologia islamica (anche se potrei aggiungere che nella letteratura islamica ci sono argomentazioni più forti contro Darwin, elaborate da Qutb a partire da Alexis Carrel, l’intellettuale francese di Vichy). Ad ogni modo, Ramadan crede fermamente che occidente e islam siano separati, anche cosmicamente. Almeno pare che lo creda in “Il riformismo islamico”. “Ci troviamo di fronte infatti a due universi di riferimento distinti – scrive – due civiltà e due culture”. Sulla questione del dubbio razionale e di Cartesio, ricorda il filosofo medievale al Ghazali, che, secondo la sua interpretazione, avrebbe proposto delle argomentazioni che anticipano il filosofo europeo di diversi secoli. Dev’essere quello cui pensava quando diceva a Buruma che “il dubbio non è cominciato con Cartesio”. Ma in “Il riformismo islamico” entra più in dettaglio, e i dettagli ci dicono che la nozione di dubbio di al Ghazali va in una direzione diversa da quella di Cartesio, un’osservazione che collima con la reputazione di al Ghazali secondo cui questi sarebbe il filosofo medievale che ha lanciato la sfida più formidabile all’alto razionalismo islamico. Di al Ghazali, Ramadan scrive: “All’inizio, troviamo innumerevoli corrispondenze tra il suo pensiero e quello di Cartesio. Tali corrispondenze esistono certamente, ma il quadro di riferimento che dà la soluzione per andare oltre il dubbio è fondamentalmente diverso”. Secondo Ramadan, le influenze dell’antica Grecia sull’islam non hanno mai permesso quella tensione o quelle differenze tra il sacro e il non sacro che esistono nel pensiero occidentale. Le antiche influenze greche non hanno mai permesso un pensiero prometeico di ribellione, né il senso del tragico. Questo perché nell’islam, sempre a parere suo (e qui ricorda il filosofo medievale Ibn Taymiyya), la zona del sacro contiene un solo concetto, ovvero il tawhid, e cioè l’unicità di Dio. Il tawhid non lascia spazio alle tensioni, alle ribellioni o ai dubbi. Un senso profondo e tragico del dubbio non è nemmeno concettualmente possibile. Buruma, sul Times, segue questa questione filosofica quel tanto che basta da poter chiedere a Ramadan se egli stesso “abbia mai fatto esperienza del dubbio”. Ramadan risponde: “Dubbi su Dio, no”. E Buruma sembra non capire che rispondendo con questa facile certezza, Ramadan propone di più di una sicura osservazione autobiografica. Il dubbio quindi può esistere solo all’interno dei limiti consentiti dal tawhid, il che significa, per un vero musulmano, che i dubbi su Dio sono letteralmente inconcepibili. Un musulmano può dimenticare, ma non può dubitare. I critici più duri di Ramadan direbbero che, parlando in quel modo con Buruma di tali questioni storiche e astratte, per non dire degli ideali di suo nonno, egli dispiega ambiguamente una “doppiezza linguistica”, un linguaggio che vuole trarre in inganno gli occidentali sul cuore del suo pensiero. Le accuse di usare questa “doppiezza linguistica” seguono Ramadan da anni in Francia. E’ una delle principali denunce a suo carico, e grande fonte d’ansia tra i critici. La Fourest, in “Frére Tariq”, documenta in modo diciamo pure ampio casi di questo tipo, momenti in cui Ramadan sembra aver detto una cosa all’opinione pubblica e un’altra al suo pubblico musulmano. Landau, in “Le Sabre et le Coran”, presenta una sua documentazione. D’altra parte Hamel, in “La vérité sur Tariq Ramadan”, non ne parla nemmeno. Hamel è un giornalista svizzero di origini marocchine, sembra aver ascoltato moltissimi discorsi e registrazioni di Ramadan, aver fatto molte interviste, e, in linea generale, sembra muoversi con maggiore agio nell’ambiente musulmano europeo di Ramadan rispetto alla Fourest e a Landau. Egli crede fortemente che essi, nella loro animosità, si siano erroneamente permessi di pensare il peggio. E però cosa dobbiamo fare, allora, della costosa marea di documentazione nei piè di pagina degli scritti della Fourest, e dell’altra marea in coda alle pagine di Landau? Non vedo modo di risolvere il dilemma, se non azzardare un’ipotesi che tutti questi scrittori, amici e nemici, siano arrivati a una verità. L’islam, secondo Ramadan, è un sistema onnicomprensivo che abbraccia l’universo intero, e questa universalità gli permette, anzi gli impone, di guardare a ogni novità da un punto di vista islamico, come dall’alto. Penso che, da queste alte vette islamiche, finisca per parlare un linguaggio naturalmente dialettico, laico (in uno stile che deriva sia da Cartesio che da al Ghazali) e al contempo islamico (in uno stile che deriva solo da al Ghazali). La prospettiva di Ramadan gli permette di parlare ad un livello che è vero e ad un livello che è più vero; e a volte i due livelli sono equivalenti. C’è un che di deliberatamente ingannevole in questo modo di affrontare le cose? Alcuni penseranno di sì. Altri però, più disponibili ad accogliere i presupposti teorici, potrebbero concludere che Ramadan è sempre stato ragionevolmente coerente e che se qualcuno non lo capisce, la colpa è dei suoi ascoltatori, non dialettici. Immagino di poter ritenere che, nel caso di Buruma e del New York Times Magazine, Ramadan abbia pensato che, se il giornalista aveva bisogno di maggiori delucidazioni sul campo sul significato più profondo di “dubbio” nel contesto cartesiano e in quello di al Ghazali, non spettasse a lui fornirgliele. Né era suo obbligo spiegare come l’intenzione del nonno al Banna di abolire il sistema multipartitico fosse perfettamente compatibile con un parlamentarismo di stampo inglese, data la natura democratica dell’islam. Potrei immaginare che, dal punto di vista di Ramadan e data la sua nozione di “due diversi universi di riferimento, due civiltà e due culture”, non avesse molto senso delineare a quel cortese giornalista ogni singola sfumatura, soprattutto perché l’aveva già fatto nei suoi libri. Alcuni punti potevano essere ambigui, ma non c’era nulla di segreto. Inoltre, Ramadan di solito non ama farsi nemici. Se il corrispondente del New York Times Magazine era intenzionato a concludere la discussione e il dibattito con l’impressione che, per dirla con le sue parole, “ci siamo trovati d’accordo su quasi tutto”, be’, fantastico! perché mai scegliere la battaglia?


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