Abu Mazen troppo debole per fare la pace, Israele deve trattare una tregua con Hamas l'opinione di Shlomi Ben Ami, minstro degli Esteri del governo Barak
Testata: La Stampa Data: 09 luglio 2007 Pagina: 14 Autore: Francesca Paci Titolo: «Israele adesso deve trattare con Hamas»
Da La STAMPA dell'8 luglio 2007 un'intervista di Francesca Paci a Shlomo Ben ami, ministro degli Esteri israeliano durante il governo Barak.
La foto che illustra l'articolo non ha nulla a che vedere con il suo contenuto. Non informa. E' un semplice appello alle emozioni, probabilmente costruito ad arte come molte foto analoghe. E' un esempio di propapaganda contro Israele.
Ecco il testo dell'articolo:
I tentativi del presidente palestinese Abu Mazen sono lodevoli, ma oggi Israele ha un solo possibile interlocutore politico: Hamas». La liberazione del giornalista della Bbc, favorita dal «governatore» di Gaza Ismail Haniyeh, è una conferma per Shlomo Ben-Ami: «Hamas ha deciso di fare politica e si è messo sulla via del compromesso, è stato un grave errore non riconoscerne la vittoria elettorale». Classe 1943, ministro degli Esteri israeliano del governo Barak durante le trattative di Camp David, ex ambasciatore in Spagna, docente di Storia contemporanea all'Università di Tel Aviv, Shlomo Ben-Ami è un uomo di negoziato estraneo ai sofismi diplomatici. La villetta dove vive a Kefar Sava, due piani e un cortile senza pretese nell'hinterland di Tel Aviv, lo rappresenta: spartana, molti libri e pochi mobili, nessuna concessione al design. Su un tavolino l'edizione italiana del suo libro, «Palestina. La storia incompiuta. La tragedia arabo-israeliana» (Corbaccio). Perché il governo israeliano dovrebbe fidarsi di Hamas se titubano anche i palestinesi della Cisgiordania? «Oggi non ci sono le condizioni ideologiche e politiche per la fine delle ostilità tra israeliani e palestinesi, al massimo si può puntare a una tregua duratura. Ed è quel che Hamas propone ad Israele: entrambi non sono pronti ad altro che a una pausa. Abu Mazen vuole la pace definitiva ma è sostenuto da Fatah, un'organizzazione anarchica, disorganizzata, sconfitta da Hamas perché frammentaria. Inoltre l'iniziativa di Hamas indebolisce la capacità di compromesso del governo palestinese rendendolo un guscio vuoto. Dovremmo accontentarci di un processo graduale che metta radici nella società palestinese e dia a Israele confini più sicuri». Come possono dialogare due parti che non si riconoscono reciprocamente? «Hamas ha vinto le elezioni democraticamente, dobbiamo accettarlo. La pace non è un obiettivo del partito islamico di Haniyeh, composto da molte anime alcune delle quali terroriste, ma nel momento in cui ha accettato di fare politica e partecipare al voto si è messo sulla via del pragmatismo e del compromesso. Ha venduto un pacchetto agli elettori: se la vita dei palestinesi resterà la stessa e gli attacchi israeliani continueranno sarà penalizzato. Israele non ha il coraggio di fare il primo passo verso Hamas, è stato l'ultimo Paese a riconoscere Fatah e solo dopo lo sdoganamento degli americani. Ma non capisco perché l'Europa non ci aiuti, perché abbia isolato Hamas seguendo in modo acritico l'iniziativa dell'amministrazione Bush. E' un errore. Alla fine il presidente Abu Mazen sarà costretto a tornare agli accordi della Mecca e contrattare con Hamas un governo di unità nazionale». Molti israeliani dichiarano di volere la pace ma secondo i sondaggi il candidato premier favorito è Netanyahu, non proprio una colomba. Non c'è contraddizione? «La maggior parte del Paese è pronta a una soluzione “due popoli e due Stati” molto vicina ai confini del '67, solo che non si fida dei palestinesi. Politicamente ci siamo spostati a sinistra, siamo convenuti al sacrificio della terra, ma culturalmente a destra. La disponibilità d'Israele alla pace è accademica. Anche Sharon in teoria sosteneva il disimpegno da Gaza e Cisgiordania ed era popolare perché voleva restituire i territori palestinesi senza dover negoziare. Il ritiro unilaterale è stato il frutto di questo ragionamento e ha fallito. Ora gli israeliani sono scettici e soprattutto stanchi della questione palestinese». Come se ne esce? «Il problema è che dopo la seconda Intifada anche il mondo ha cominciato a stancarsi della questione palestinese, s'inizia a parlare di alternative all'ipotesi “due popoli due Stati” tipo una confederazione giordano-egiziana. Israele, dal canto suo, si sta abituando a convivere con il problema. L'economia va bene e cresce del 7 per cento l'anno, l'high tech è fortissimo, c'è un surplus di budget e la paura di Hamas ha ammutolito anche i nostri critici. Siamo una “villa in the jungle", per usare un'espressione di Barak, e se questo significa vivere con un Tarzan che ci protegge - ieri Sharon, oggi Netanyahu, domani Barak - pazienza. Da soli siamo incartati, senza via d'uscita: abbiamo bisogno di un aiuto esterno». Si riferisce agli Stati Uniti? «Sono gli unici a poter lanciare una coalizione di pace internazionale che comprenda il quartetto e i Paesi arabi e offra incentivi economici e militari. Ai palestinesi deve essere garantito un periodo di transizione per costruire le istituzioni, riformare la sicurezza, avviare l'economia. Una fase-prova di pace che solo Hamas può negoziare con Israele». E l'Italia? E' appena arrivato a Gerusalemme il premier italiano Romano Prodi: ha un messaggio per lui? «Prodi è un ospite particolarmente benvenuto in Israele. Rispetto al governo Berlusconi è mutato lo stile ma la politica internazionale non è cambiata e non cambierà. E questo, sommato all'impegno in Libano, rende l'Italia molto apprezzata nel nostro Paese. Eppure resta un passo indietro: perché, come l'Europa, tardate ancora a riconoscere Hamas? Perché seguire ciecamente la linea tracciata da Bush anche dopo la sconfitta della strategia irachena? La tentazione ideologica dell'assoluto ha rovinato questa terra dove invece tutto è relativo, compreso Hamas».
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