Gli intellettuali redenti e gli ebrei italiani un articolo di Giorgio Israel
Testata: Informazione Corretta Data: 06 luglio 2007 Pagina: 1 Autore: Giorgio Israel Titolo: «Gli intellettuali redenti e gli ebrei italiani»
Riportiamo l'originale italiano di un articolo di Giorgio Israel pubblicato in inglese sulla rivista Telos, vol. 139, summer 2007, pp. 85-108.
Temi storiografici
Il libro di Mirella Serri I Redenti1 ha destato, in Italia, reazioni non propriamente serene. Nel corso di diverse presentazioni del libro l’autrice ha dovuto affrontare critiche a dir poco vivaci, centrate sull’accusa di aver profanato, con l’accusa infamante di antisemitismo, la memoria di personaggi sacri della politica e dell’intellettualità della sinistra italiane, come il dirigente comunista Mario Alicata o il critico letterario Carlo Muscetta. Può apparire sorprendente che un libro che denuncia le compromissioni di numerosi intellettuali italiani di primo piano con la campagna razziale del fascismo sia stato accolto con tanta diffidenza e persino con tanta ostilità proprio in quegli ambienti della sinistra che la tradizione vuole come i più sensibili alla causa della difesa degli ebrei dall’antisemitismo della destra. La spiegazione più ovvia di questo atteggiamento è che quei personaggi, i “redenti”, erano esponenti di primo piano della sinistra traghettati dalla destra attraverso l’esperienza della rivista Primato, che è il tema del libro di Serri. Ma neppure una simile spiegazione può essere soddisfacente, a meno che non si ammetta che quel processo di “traghettamento” verso sinistra di personaggi più o meno gravemente compromessi con le politiche razziali sia stato un fenomeno di massa, per giunta non accompagnato da ammissioni di colpa e da un esame critico dei propri comportamenti; insomma, a meno che non si ammetta che si sia trattato di un fenomeno di tali dimensioni e così accuratamente occultato da non poter essere ammesso esplicitamente senza gettare un’ombra pesante sulle qualità morali di una parte consistente della classe dirigente politica ed intellettuale della sinistra italiana, in particolar modo di quella comunista. In effetti, quel fenomeno ha avuto proprio quelle caratteristiche macroscopiche. Da questa constatazione nascono tre temi storiografici che soltanto da pochi anni hanno cominciato a ricevere attenzione, e non senza suscitare vivaci resistenze. Il primo tema è quello della larghissima compromissione degli ambienti intellettuali italiani nella campagna e nelle politiche razziali del fascismo. La vastità di questa compromissione fu denunciata già più di quaranta anni fa da Renzo De Felice, quando parlò di una pubblicistica antisemita «vastissima quanto mai si possa immaginare» e sottolineò che, mentre la grande massa del popolo italiano si era mantenuta estranea alla campagna razziale antiebraica, «la cultura italiana, fascista o profascista che essa fosse» aveva «aderito su larghissima scala all’antisemitismo».2 Tuttavia, De Felice non riservò le sue attenzioni a questa pubblicistica e soltanto di recente si è iniziato a disseppellirla e ad analizzarla.3 Il libro di Mirella Serri si concentra in parte su questo tema – poiché getta luce su un aspetto di quella pubblicistica – in parte sul secondo tema, che consiste nel processo con cui gran parte dell’intellettualità italiana che era stata fascista e si era compromessa con la campagna razziale fu “lavata” in silenzio delle sue colpe e fu traghettata sulle sponde comuniste e cattoliche. Va osservato, al riguardo, che il mondo politico comunista fu il più capace di attirare gli intellettuali “redenti”, ponendo così le basi di un’egemonia culturale che dura ancora oggi. Strumento fondamentale del traghettamento e della “redenzione” fu l’amnistia nei confronti di coloro che si erano macchiati di reati “non particolarmente efferati” durante il fascismo, la quale fu opera principalmente del Ministro della Giustizia del primo dopoguerra, Palmiro Togliatti, segretario generale del Partito Comunista Italiano. Come si è detto, i “redenti” passarono sia nelle file del partito cattolico (Democrazia Cristiana) che in quelle del Partito Comunista, con una prevalenza netta per il secondo. L’analisi storiografica dell’amnistia è stata evitata per lunghi anni e soltanto di recente ha iniziato ad essere oggetto di pubblicazioni di un certo spessore.4 Da questi temi nasce un terzo tema che potremmo descrivere con una domanda: in che modo l’occultamento delle responsabilità di un vasto strato di personalità – soprattutto intellettuali – ha influenzato la percezione dello sterminio degli ebrei e delle politiche razziali del fascismo nella coscienza politica e nella memoria storica degli italiani? Intendiamo qui concentrarci soltanto sul terzo tema, non per sviluppare un’analisi storica dettagliata – che non potrebbe essere sviluppata nei limiti di un articolo – ma per fornire alcuni spunti ed alcune tracce che rendono plausibile rispondere alla domanda nel modo che cercheremo ora di descrivere. Per lunghi anni il tema delle politiche razziali del fascismo è stato un argomento praticamente sconosciuto dalla storiografia e dalla letteratura politica in Italia. Il silenzio è stato rotto soltanto – e, come si è detto, in parte – dal libro di Renzo De Felice. Si può persino dire che, mentre esisteva una conoscenza diffusa del dramma dei campi di sterminio nazisti e della Shoah, la maggioranza della popolazione italiana non sapeva, o aveva a malapena sentito dire, che in Italia vi erano state leggi razziali che avevano colpito per molti anni la popolazione ebraica. Una prova indiretta ma altamente indicativa di questo stato di cose è data dal fatto che il processo di “delegificazione” – ovvero di soppressione del vastissimo complesso della legislazione razziale del fascismo – iniziò nel 1943 e fu completato soltanto nel 1987!5 Naturalmente, era interesse dei tanti “redenti” mantenere il silenzio sui misfatti cui avevano collaborato in forme più o meno gravi. Le loro posizioni preminenti in campo intellettuale e anche politico vennero sfruttate in tal senso. In ambito cattolico, questa congiura del silenzio contribuì a mantenere in circolazione i veleni del tradizionale antigiudaismo di origine religiosa. Ma gli effetti più deleteri si ebbero nella sinistra, in particolare comunista, che ne contrasse una sordità nei confronti del tema della Shoah e delle persecuzioni razziali, che si sommò con una tradizione marxistaleninista strutturalmente incapace di comprendere il problema ebraico e, in particolare, il sionismo.6 Sarebbe interessante verificare, attraverso un’analisi dettagliata e puntuale della letteratura, in che misura i “redenti” abbiano contribuito a rafforzare una insensibilità nei confronti del problema ebraico che si radica nella tradizione cui abbiamo accennato. Di certo, gli influssi della cattiva piega presa da tanta parte dell’intellettualità italiana si fanno sentire ancor oggi, sia pure in un modo curiosamente rovesciato. Ne daremo un’idea nella sezione conclusiva.
Una vicenda e una polemica esemplari
In conformità con l’approccio che abbiamo scelto – non accademico, ma volto a fornire alcune indicazioni illuminanti attraverso esempi significativi – racconteremo un episodio e una polemica che possono ben illustrare le forme e le radici della sordità di certa intellettualità della sinistra italiana nei confronti dei temi dell’antisemitismo e delle politiche razziali naziste e fasciste. Siamo nel 1961. In un cinema del centro di Roma (“Quattro Fontane”) – che per una singolare coincidenza ha sopra di sé la sede del movimento politico neofascista (Movimento Sociale Italiano) – viene proiettato un film documentario sulla storia del fascismo nel contesto dell’Europa dell’epoca. Il titolo del film è All’armi siam fascisti. Esso è opera di tre noti registi di sinistra, Lino Del Fra, Cecilia Mangini e Lino Micciché. Il testo è di Franco Fortini, uno dei più noti intellettuali (di origini ebraiche) della sinistra comunista italiana. Giova notare che il film viene proiettato ancor oggi ed è stato riproposto nel maggio 2006 dalla Cineteca Nazionale (nell’ambito del 5° Festival Internazionale del Cinema di Roma) come «una delle prime riflessioni sul fascismo attraverso il cinema documentario». Stiamo quindi parlando di un esempio particolarmente significativo e tanto più rilevante perché, malgrado le polemiche che esso suscitò, viene ancora riproposto come un prodotto valido e attuale. Il cinema è stipato all’inverosimile di giovani che sottolineano con salve di fischi l’apparizione dei dittatori nazifascisti e si levano in piedi applaudendo freneticamente alla vista dei reparti partigiani e delle colonne corazzate dell’Armata Rossa che avanzano sullo sfondo del volto di Stalin. All’uscita, gli spettatori, accecati dalle immagini esaltanti e dal sole, vengono accolti da un lancio di suppellettili dalle finestre della direzione del MSI. Interviene la polizia che disperde gli antifascisti a suon di manganellate, con un atteggiamento indiscutibilmente ostile. È un momento difficile per il paese. Da poco è caduto il governo di destra di Tambroni, a seguito di moti di piazza nel corso dei quali si sono avute numerose vittime, e la politica si orienta con difficoltà verso una timida apertura a sinistra. Per parte sua, la sinistra ha scelto di favorire in ogni modo l’emergere di una nuova generazione antifascista. Quella giornata romana in cui fu proiettato All’armi siam fascisti ne segna quasi simbolicamente la nascita, con la fondazione di un’associazione dal nome Nuova Resistenza, dapprima collocata sulle posizioni di un antifascismo indipendente dai partiti, e poi sempre più influenzata dal Partito Comunista. Non fu certamente un caso se uno dei dirigenti comunisti che si occuparono più attivamente di orientare Nuova Resistenza verso una forma di collateralismo comunista fu uno dei più celebri fra i “redenti”, Mario Alicata, che ne seguì con estrema attenzione il congresso di fondazione a Firenze. Non è sorprendente che, avendo vissuto quella esperienza poco più che quindicenne come la mia prima forma di attività politica, quella giornata e quel film restassero per molti anni nella mia memoria come un ricordo mitico. Tanto più amaro fu il disincanto quando, il 25 aprile 1994 (anniversario della Liberazione) ebbi l’occasione di rivedere il film riproposto da una rete televisiva nazionale. Ne scrissi subito sul mensile della Comunità ebraica romana Shalom. Credo che non potrei esprimermi meglio altro che riproponendo alcuni passaggi di quell’articolo:7 «Non mi soffermerò sull'impostazione politica e (si fa per dire) storica del film, visto che anche gli autori – intervistati in questa occasione – hanno ammesso la sua stretta dipendenza da un’ideologia di partito, quella comunista, allora ancora intrisa di stalinismo. Non mi soffermerò quindi sulla spiegazione in termini di lotta di classe di tutte le vicende dei fascismi europei, o sull'assoluzione del patto Molotov-Ribentropp, considerato come il frutto di uno stato di necessità causato dalla politica delle potenze capitalisticoimperialiste. Occorre però sottolineare una conseguenza di questa impostazione: la svalutazione del ruolo avuto dalle potenze occidentali nella sconfitta del nazi-fascismo. Chi non conosca altrimenti la storia, apprende da quel film che il ruolo dei partigiani è stato almeno pari a quello dell'esercito anglo-americano, nella liberazione dell'Italia. Ma va sopratutto sottolineato il modo in cui il film tratta delle persecuzioni anti-ebraiche. «Compaiono sì delle immagini dei campi di sterminio, ma chi non sappia altrimenti della loro esistenza, non ha modo di capire di cosa si tratti. Le immagini di Hitler che gioca con Eva Braun, nella quiete della sua villa sulle montagne bavaresi, si alternano con immagini truci: corpi di soldati straziati, gente vestita con pigiami a righe dietro a fili spinati (chi sono?), prigionieri di guerra, colonne di profughi, cumuli di cadaveri. Tutto è mescolato, indistinto, incomprensibile in una confusione ideologicamente programmata. Il senso ideologico di tale confusione o "riduzione" della Shoah ad "altro" è bene spiegato dal commento che accompagna l'unico accenno esplicito alle persecuzioni anti-ebraiche (con le immagini della "notte dei cristalli"): "Chi vuol comandare ha bisogno di servi. I servi avranno un contrassegno: la stella di David. L'odio di classe si traveste da odio di razza". «Questa incredibile frase ci da la chiave delle cause del presente sonno della memoria "a sinistra". Poiché, non sottovalutiamolo, quel film è l'espressione emblematica dell'ideologia allora dominante nella sinistra – in quello strato della politica italiana che più di ogni altro si sentiva delegato alla difesa dei valori antifascisti e alla difesa della memoria. Quella frase diceva, con grande violenza, a tutti quegli ebrei che aderivano allora ai partiti della sinistra comunista: “I vostri lutti valgono soltanto in quanto possono essere ricompresi nei sacrifici della lotta di classe. Ed esistono, voi esistete, nella storia della lotta per il progresso, soltanto in quanto la vostra ebraicità si dissolva nell'essere membri dell'esercito che conduce questa lotta.” Le conseguenze storico-politiche di questa dissoluzione sono evidenti: la banalizzazione dell'antisemitismo, la sua riduzione a parte o apparenza di un altro problema; la sparizione del fatto che la persecuzione antiebraica è stato un elemento costitutivo e non marginale del nazismo. E, in definitiva, la legittimazione dell'antifascismo soltanto in quanto momento della lotta di classe e per il progresso. «Questo film, che non fa neppure un accenno alle leggi razziali fasciste, evoca un clima politico […] che permette di capire una delle cause […] del perché la sensibilità e la cultura antifascista, e la memoria storica del tema del razzismo antisemita siano così deboli nel nostro paese. È stato perché l'antifascismo era patrimonio della sinistra soltanto in quanto espressione di un essere di sinistra e come contrapposizione alla destra (fascista e non fascista, si badi bene). «I semi dei frutti antisemiti che germogliano oggi sono anche la lunga campagna antisionista condotta nel ventennio passato dalla sinistra, una campagna in cui abbondavano temi antisemiti tipicamente fascisti, come l'immagine di Israele come punta di lancia del capitalismo imperialistico americano. […] la sinistra cos'ha fatto? Non era lei delegata a coltivare, sviluppare e trasmettere la coscienza antifascista e la conoscenza storica? I frutti avvelenati del presente sono anche i risultati di quel che la rivisitazione di All'armi siam fascisti mostra essere non soltanto un errore contingente, ma una mistificazione diffusa, irresponsabile e strumentale e talora anche gravemente colpevole». Questo articolo provocò un’aspra polemica. Il maggiore quotidiano italiano, Corriere della Sera, pubblicò un servizio sul mio articolo accompagnato dai commenti dello storico Giovanni Sabbatucci e di uno degli autori del film Lino Micciché.8 Sabbatucci parlò di un antifascismo che era «connotato a sinistra […] e funzionale alle esigenze di una parte politica», il che aveva come conseguenza che «sfumavano molti tratti specifici. Come la persecuzione razziale». Al contrario, Micciché reagì molto vivacemente, accusandomi di praticare una logica degna di una bocciatura agli esami, una logica che «non oso definire sionista, nemmeno io so come chiamarla». Nel film, ribadiva Micciché «facevamo cenni relativamente rapidi all’Olocausto perché appunto lo inserivamo nella questione hitleriana. E la questione hitleriana non è solo l’Olocausto: è la guerra mondiale, il milione di avversari politici trucidati, i bombardamenti». E concludeva richiamando l’origine marxiana dell’affermazione sotto accusa: «Fortini, rileggendo il saggio di Engels sulla questione ebraica, dice che l’odio di classe a volte si maschera da odio di razza. Israel dice cose che non hanno fondamento. Capisco bene lo spirito con cui le dice, ma per me di questo si tratta». Nella mia replica mettevo in luce come Micciché avesse confermato le ragioni che mi avevano spinto a criticare il film, poiché «considerare l’antisemitismo nazista come un prodotto dell’odio di classe è infondato, riduttivo e fuorviante», mentre «l’antisemitismo è un elemento strutturale del fascismo e costitutivo del nazismo».9 Può apparire sorprendente, ma è invece molto significativo, che, nella sua stizzita controreplica,10 fu Micciché a sollevare il tema dei “redenti”. Non richiesto (excusatio non petita) egli per primo parlava di scheletri dell’armadio della sinistra, per quanto riguardava il razzismo, e cercava di minimizzare la cosa ribaltando l’attenzione sugli scheletri che gli ebrei avrebbero custodito nei loro armadi. Così scriveva: «Posso essere d’accordo che, sul tema del razzismo, la sinistra ha molti cadaveri nell’armadio. Così come, sul tema del fascismo, anche gli ebrei hanno qualche armadio da riaprire: nell’ottobre del ’38, il Gran Consiglio fascista che elaborava le nefaste leggi antiebraiche contro 44.000 ebrei italiani, ne esentava – per “eccezionali benemerenze” nei confronti della nazione e del Fascismo – 1.343 con relative famiglie, ovvero poco meno di 1/7 del totale; il che significa che le compromissioni ebraiche col regime c’erano, e come». Non mi soffermo sul resto della replica di Micciché – in particolare sulla sua aspra requisitoria concernente il «razzismo antiarabo di Israele», per concentrarmi sulla questione che più ci interessa. Nella mia ulteriore risposta scrivevo quanto segue: «Micciché dice che molti ebrei si sono compromessi col fascismo. Ovvio: gli ebrei si sono divisi fra fascisti e antifascisti come tutti gli italiani. Non si vede perché dovessero essere migliori degli altri. Ma i veri scheletri nell’armadio sono quelli dei tanti voltagabbana che sono diventati antifascisti dopo il 1945 per conservare lo stesso posto dal quale avevano contribuito a scrivere le leggi razziali. Interpretare poi la procedura della discriminazione – del tutto analoga, e anzi più restrittiva, della scappatoia della “conversione” offerta un tempo dall’Inquisizione agli ebrei spagnoli – come un favore concesso dal regime ai “fedeli” è un’interpretazione storica così infondata da non meritare commento».11 A ciò Micciché controreplicava (concludendo la polemica) di non contestare minimamente «che ci possano essere stati voltagabbana che sono diventati antifascisti dopo il 1945 per conservare lo stesso posto dal quale avevano contribuito a scrivere le leggi razziali», ma di non sapere «perché venga ricordato a me, che, nella stagione delle leggi razziali viaggiavo fra i 3 e i 4 anni e nel ’45 facevo ancora le scuole elementari!».12 Naturalmente Micciché aveva tutte le ragioni per rifiutare di essere considerato un “redento”, per ovvi motivi anagrafici. Tuttavia, il suo modo confuso, e per questo autentico, di reagire manifestava nel modo più chiaro non soltanto le caratteristiche deleterie della visione della questione ebraica che aveva dominato la sinistra dal dopoguerra, ma come il tema dei “redenti” fosse un nervo scoperto prima ancora che esso fosse stato sollevato alla piena luce del sole. Potremmo riassumere al modo seguente. Era connaturale all’ideologia comunista considerare il problema ebraico come un mero effetto collaterale della lotta di classe: nella concezione materialistico-storica non vi era spazio per questioni sovrastrutturali (come il razzismo) considerate in autonomia, e non ridotte alla struttura economico-materiale. La questione ebraica poteva essere risolta soltanto come corollario della dissoluzione della società capitalistica nella società comunista senza classi. Il sionismo altro non era che un’ideologia nazionalistica borghese. Ma qui si aggiungeva un fatto ulteriore e decisivo: e cioè che questa visione del problema ebraico e del sionismo – di per sé già così poco propensa a comprendere il problema ebraico e quindi a riservare attenzione alla vicenda delle persecuzioni razziali in quanto tale – veniva trasmessa non soltanto dai marxisti tradizionali, ma anche da un numero consistente di personaggi provenienti da un’esperienza fascista e che si erano compromessi gravemente, e talora persino vergognosamente con il razzismo fascista. Per personaggi del genere una simile impostazione ideologica era semplicemente una manna. Essa era il contesto ideale in cui trovare una giustificazione teorica all’occultamento del loro passato e delle loro malefatte, se non addirittura alla loro giustificazione, in nome di una condanna delle degenerazioni sionistiche dell’ebraismo, e – con un singolare e spudorato ribaltamento – delle compromissioni degli ebrei con il fascismo. Cosa di più comodo che accettare l’ombrello di un’ideologia in cui era possibile ripetere le stesse cose dette in veste fascista – come la veemente condanna del sionismo – con l’incomparabile vantaggio di vedersele giustificate e nobilitate come espressione di sentimenti democratici e progressisti? Se si pensa che un personaggio capace di manifestazioni disgustose di antisemitismo come il filosofo Galvano Della Volpe – come ben documenta il libro di Mirella Serri – è stato uno dei grandi “maîtres à penser” del comunismo italiano fino agli anni settanta, è facile capire l’entità e la gravità del fenomeno. D’altra parte, la consistenza quantitativa e qualitativa dei nuovi adepti – che garantiva una solida egemonia culturale – giustificava la cancellazione del loro passato o quantomeno la sua rilettura in chiave assolutoria. Allo scopo, uno strumento fondamentale era dato dalla retorica della storiografia comunista, che ha dominato a lungo dopo la guerra, secondo cui il fascismo fu un regime imposto da un’infima minoranza di criminali che teneva un intero popolo di antifascisti sotto il tallone dei Tribunali Speciali e della polizia politica. Nessuno era stato fascista, salvo Mussolini e il suo manipolo di accoliti. E fascista era chi osava accusare di compromissioni la nuova classe dirigente e intellettuale, sbucata vergine dal nulla. In tale ottica, la questione delle politiche razziali doveva essere coperta o quantomeno minimizzata ad ogni costo. Torniamo per un momento al povero Lino Micciché che, in questo contesto, appare più come una vittima che non come un protagonista. Egli assiste con infastidito stupore al fatto che si possa considerare pericolosa l’ideologia a cui è stato ammaestrato. Egli non è un “redento” ma è consapevole ante litteram del problema dei “redenti”, al punto da sollevare lui la questione, al minimo sentore del suo affacciarsi, per respingerla lontano da sé. Propina quasi meccanicamente gli slogan di un’ideologia totalitaria e antiebraica – la compromissione degli ebrei con il fascismo, la condanna del sionismo, l’accusa a Israele di essere uno stato razzista – per poi negare quasi con stupore di averli pronunziati, come se fossero usciti meccanicamente e inconsapevolmente dalla propria bocca. È una confusione comprensibile. Che cosa può turbare di più del rendersi conto che quell’ideologia in cui ci si era rifugiati come un porto sicuro trasmette proprio i veleni che era destinata a combattere?
Un case study
Nella sua discussione della vicenda del Manifesto degli Scienziati Razzisti, Renzo De Felice definisce i suoi firmatari come personaggi di secondo piano, con l’eccezione di Nicola Pende e Sabato Visco. In verità, anche questo commento dimostra la superficialità con cui, per lungo tempo, è stata considerata la partecipazione degli intellettuali alla campagna razziale. Il commento potrebbe essere rovesciato: con l’eccezione di pochi, come Guido Landra e Lino Businco, quasi tutti i firmatari erano personaggi di primo piano del mondo scientifico e accademico. Indubbiamente, Nicola Pende e Sabato Visco erano i più in vista, in quanto il primo si era impegnato più direttamente nella tematica scientifica della razza, e il secondo aveva ricoperto incarichi politici di primo piano. Il nome di Sabato Visco è stato per me particolarmente familiare fin dalla più tenera età. Mio padre, Saul Israel, era stato primo aiuto del celebre fisiologo Giulio Fano13 ed era considerato come il suo naturale successore alla cattedra di fisiologia generale dell’Università di Roma “La Sapienza”: per alcuni anni, Fano gli affidò completamente la direzione dell’Istituto di Fisiologia e le lezioni del corso, essendo egli affaticato da una malattia cardiaca. La morte improvvisa di Fano impedì di avviare le procedure concorsuali atte a realizzare la successione e sulla cattedra lasciata libera venne chiamato Sabato Visco. La venuta di questi a Roma creò un clima impossibile per mio padre, anche per le continue battute antisemite che costellavano i suoi discorsi, e lo indusse alle dimissioni dall’Università. Ho a lungo sentito parlare nella mia famiglia dell’ignoranza abissale di Sabato Visco. Lo stesso incontro tra mio padre e mia madre veniva ascritto a tale circostanza: mia madre, giovane assistente del celebre chimico Nicola Parravano (anche lui professore all’Università di Roma e fervente fascista) era stata inviata da questi come aiutante presso il Visco con il quale ebbe un violento diverbio circa i modi, a sua opinione, poco seri con cui venivano condotti gli esperimenti di laboratorio. Di qui la nascita di una sintonia con mio padre, che neppure apprezzava le qualità scientifiche del nuovo capo, il quale aveva prontamente smantellato gli orientamenti di ricerca impressi dal Fano, per avviare la ricerca verso l’indirizzo da lui prediletto: la scienza dell’alimentazione, intesa come uno strumento fondamentale per il miglioramento della razza italica.14 Debbo ammettere di aver nutrito qualche diffidenza circa l’effettiva mediocrità scientifica del Visco, sospettando che potesse trattarsi di un’immagine eccessiva dovuta alla personale ostilità nutrita nei suoi confronti dai miei genitori. Tuttavia, ho avuto modo in seguito di verificare che questa opinione era largamente diffusa. Accadde anche che un aneddoto che mi era stato raccontato da mio padre e che mi appariva inverosimile – e cioè che il Visco avesse detto, nel corso di una lezione, che la metemoglobina era la “metà dell’emoglobina” – mi fu riferito in modo identico dal Nobel per la Fisica Emilio Segré. Correva anche voce – e anche questa mi è giunta da molte fonti – che la sua trionfale e rapida ascesa alla cattedra romana fosse dovuta al fatto che egli era venuto in possesso di un carteggio particolarmente compromettente tra Mussolini e Gabriele D’Annunzio, che aveva messo nelle sue mani un’arma di ricatto. Tuttavia, non vi è modo di verificare la fondatezza di una simile voce, soprattutto per l’irreperibilità delle carte personali del Visco. Questo è difatti il punto: l’introvabilità della documentazione relativa alle attività del Visco, in particolare di quelle legate alla politica della razza. Visco, oltre ad accumulare un numero ingente di cariche scientifiche e istituzionali – preside della Facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali dell’Università di Roma, segretario del Comitato Biologico del Consiglio Nazionale delle Ricerche, direttore dell’Istituto Nazionale della Nutrizione (da lui fondato nel 1936 col primo nome di Istituto Nazionale di Biologia), membro della Camera dei deputati, ecc. – fu una figura di primo piano nella politica razziale del regime. Mi riferisco non tanto alla sua adesione al Manifesto degli Scienziati razzisti, che anzi fu forzata e dal quale si dissociò per esprimere un punto di vista razzistico non biologistico;15 quanto alla carica di primissimo piano di Capo dell’Ufficio per gli Studi e la Propaganda sulla Razza del Ministero della Cultura Popolare (Minculpop) che ricoprì dal febbraio 1939 al maggio 1941, e alla numerose iniziative editoriali correlate. Visco fu anche membro del Consiglio Superiore della Demografia e della Razza, vicepresidente della Commissione ordinatrice e del Museo della Razza nell’ambito dell’Esposizione Universale E42, e fu anche candidato alla direzione della rivista La difesa della razza. Malauguratamente di tutte queste attività non rimane una documentazione estensiva. Vari elementi permettono di capire che il Visco fu estremamente solerte nel cancellare il più possibile le tracce del suo operato quando iniziò ad comprendere che il regime era vicino al crollo finale. Ad esempio, negli archivi della Segreteria Particolare del Duce (Carteggio ordinario)16 figura anche un fascicolo intitolato a "Visco, prof. Sabato"17. Il fascicolo è però vuoto, salvo una scheda che annota le date delle sue visite. L'ultima risale al 1° settembre 1942. La cartella porta l'annotazione: «Passati gli atti al Ris. 1.9.1942-XX», il che significa che gli atti erano stati passati al Carteggio Riservato proprio nel giorno della sua ultima visita. Tuttavia, nel Carteggio Riservato non esiste alcun fascicolo Visco… Non è difficile immaginare chi possa aver richiesto il passaggio al Carteggio Riservato e, in occasione di tale passaggio, abbia svuotato il fascicolo. Ancora più significativi sono i pochi indizi relativi alla sorte di quel che è certamente l’archivio più interessante per documentare l’opera razziale del regime e il ruolo di Visco in questo contesto. Esiste una lettera inviata in data 7 settembre 1943 (poco più di un mese dopo la caduta del fascismo) dal noto antropologo Sergio Sergi – Direttore dell'Istituto di Antropologia dell'Università di Roma e già membro del Consiglio Superiore della Demografia e Razza – al Ministero della Cultura Popolare, nella quale egli chiede che, a seguito dello scioglimento dell'Ufficio Razza, il materiale antropologico venga trasferito nel suo Istituto. Questa lettera era accompagnata da una missiva del Rettore dell'Università di Roma che appoggiava la richiesta, per «evitare la dispersione» di quel «preziosissimo materiale scientifico».18 Non è malizioso immaginare che il Sergi si sia prestato a rendere un servizio al Preside della sua Facoltà, recuperando quel materiale – invero prezioso dal punto di vista della storiografia del razzismo, più che da quello della scienza – che poi è sparito, come inghiottito dal nulla. Per quanto poco sia rimasto, la documentazione disponibile è sufficiente a mostrare l’attivismo di Visco in campo razziale, il suo ruolo centrale in ogni questione attinente al tema della razza e il supremo disprezzo con cui salutò la cacciata dei professori universitari ebrei a seguito della promulgazione delle leggi razziali.19 Non intendiamo ripercorrere ora queste imprese rinviando ai lavori specifici in cui ce ne siamo occupati.20 A noi qui Visco interessa come “redento”. Peraltro, le sue imprese erano fin troppo evidenti se, nelle sedute che si tennero dal 5 al 7 novembre 1943, la Commissione preposta alla ricostituzione dell’Accademia dei Lincei dopo la caduta del fascismo deliberò la decadenza di alcuni soci che erano stati nominati «per ragioni politiche e di partito e non per ragioni scientifiche». Tre di questi erano gerarchi di primissimo piano del fascismo: Luigi Federzoni, Cesare Maria De Vecchi, Giuseppe Bottai; il quarto era Sabato Visco. La delibera seguì il tortuoso percorso delle procedure di epurazione e impiegò molto tempo prima di diventare operativa. In una riunione tenutasi il 3 agosto 1945, la Commissione di epurazione propose per la radiazione definitiva dall’Accademia i seguenti soci: Silvestro Baglioni, Francesco Pentimalli, Paolo Vinassa de Regny, Livio Cambi, Giuseppe Bottai, Sabato Visco e Tullio Terni. Il nome di Terni merita un’attenzione speciale.21 Terni era un biologo (collaboratore di Giuseppe Levi, il maestro di Rita Levi Montalcini, Renato Dulbecco e Salvador Luria), era ebreo ed era stato convinto sostenitore del regime. In quanto ebreo era caduto vittima delle leggi razziali ed era stato rimosso dal posto universitario in data 16 ottobre 1938. In seguito, era stato reintegrato in data 12 aprile 1945. Dopo neanche quattro mesi egli veniva proposto per la radiazione dall’Accademia dei Lincei per le ragioni opposte, ovvero per le sue trascorse simpatie per il regime fascista… E – somma beffa – veniva messo nella stessa lista di proposte di radiazione assieme ad uno dei principali attori di quella politica razziale di cui era stato vittima. Insomma, persecutore e perseguitato finivano nella stessa lista di proscrizione. La proposta viene trasmessa dalla Commissione di epurazione al Ministero della Pubblica Istruzione in data 27 ottobre, segue il suo corso burocratico e, in data 4 gennaio 1946, Tullio Terni viene definitivamente radiato dall’Accademia dei Lincei assieme a Sabato Visco. L’affronto e l’umiliazione sono eccessivi per lui. Egli trascina la vita per alcuni mesi penosamente. Tenta di trovare una riabilitazione richiedendo il reintegro nella sua Università di Padova. Il reintegro nell’insegnamento gli viene concesso ma il Rettore dell’Università gli scrive una lettera in cui afferma testualmente: «Come Rettore ti dico di venire, come uomo ti sconsiglio di farlo». Difatti, nell’Università di Padova è attiva una cellula comunista che perseguita puntigliosamente tutti i personaggi ritenuti anche lontanamente compromessi con il fascismo. Non bisogna dimenticare che rettore dell’Università era Concetto Marchesi, militante comunista e stalinista fervente, che fu ritenuto moralmente responsabile dell’assassinio del filosofo Giovanni Gentile. Questa cellula aveva diffidato l’ex-“direttore fascista” (ovvero Terni) dal riprendere il suo posto. Terni cadde in uno stato di disperazione senza via d’uscita. Il 25 aprile 1946 (primo anniversario della liberazione del paese dal nazifascismo) egli si suicidò con una fiala di cianuro che aveva conservato per usarla nel caso in cui fosse stato catturato dai tedeschi per essere deportato in un campo di sterminio. Nessun episodio può dar conto meglio dell’asimmetria morale con cui furono trattati i colpevoli di adesione al fascismo. Personaggi che non avevano avuto alcun rilievo politico nel regime fascista e si erano limitato a una generica adesione – e oltretutto che, in seguito, furono perseguitati in quanto ebrei! – venivano epurati in modo pesante. Al contrario, gerarchi di tutto rispetto, che avevano avuto un ruolo dirigente nel fascismo, o addirittura si erano resi colpevoli di atti efferati, venivano “lavati” perché utili, in quanto potevano contribuire a costruire una vera egemonia politico-culturale. Sabato Visco, sebbene epurato dall’Accademia dei Lincei, in data 6 gennaio 1946, fu reintegrato nella posizione di professore universitario, godendo dell’amnistia promossa da Palmiro Togliatti.22 Egli non trovò alcuna cellula comunista a diffidarlo minacciosamente dal rientrare nell’Università. Al contrario, trovò un caloroso comitato di accoglienza. Non una delle vecchie posizioni che ricopriva gli venne negata. Riprese la posizione di Preside della Facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali dell’Università di Roma e la mantenne fino alla morte, avvenuta nel 1971. Riassunse le posizioni che aveva ricoperto nel Consiglio Nazionale delle Ricerche e riprese possesso pieno della sua creatura, l’Istituto Nazionale della Nutrizione. Qui perpetuò il suo potere al punto da creare una scuola di seguaci che ancor oggi lo omaggia. In una recente conferenza, in data 7 novembre 2003, il professor Tommaso Scarascia Mugnozza, presidente dell’Accademia Nazionale delle Scienze (detta dei XL), ha inaugurato un congresso in cui si è parlato «delle norme per una sana e corretta alimentazione, dei problemi di conoscenza del valore nutrizionale dei cibi e della necessità, che fin dai primi anni, l'essere umano abbia coscienza del rapporto "alimentazione-salute"»; ed ha ricordato che «sono questi i capisaldi sui quali si è svolta o si svolge l'attività di studio e di ricerca, nel campo della nutrizione e della alimentazione, anche nel nostro Paese. Pietra angolare di questa attività è, l'organismo scientifico fondato dal Prof. Sabato Visco, nell'ambito dell'Università di Roma negli anni Cinquanta, che è oggi quel grande e autonomo istituto che si chiama INRAN». L’INRAN (Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione, fondato nel 1999) è il «pilastro» di tali ricerche, ed esso, «fino a qualche anno fa, si chiamava Istituto Nazionale della Nutrizione». Ci si guarda bene dal dire che l’Istituto Nazionale della Nutrizione fu fondato nel 1936, sia pure sotto un nome diverso (e non negli anni cinquanta, in cui fu soltanto ristrutturato)23 e che aveva come scopo primario la promozione di una sorta di “razzismo alimentare”, ovvero della elaborazione delle norme alimentari ottimali per il miglioramento della razza italica.24 L’atteggiamento della comunità accademica e universitaria nei confronti di Visco fu una miscela di servilismo, imbarazzo e ipocrisia. Quando egli morì, talmente era presente alle menti dei suoi colleghi il ricordo del suo passato indegno che non si ebbe neppure il coraggio di fare quel che è assolutamente usuale in questi casi, soprattutto per una persona che è stata Preside di Facoltà per decenni: una commemorazione ufficiale. La Facoltà accolse la sua morte con un minuto di silenzio, e niente più. Non risulta che, nel dopoguerra, gli siano state conferite onorificenze.25 Ma è altrettanto evidente che egli conservò un enorme potere che era il risultato di un patto di scambio con i suoi nuovi alleati: egli metteva al servizio le sue indubbie capacità politiche e la rete delle sue relazioni in cambio del “lavacro” e della dimenticanza dei suoi misfatti passati. I suoi nuovi alleati erano a sinistra e, in particolare, nel Partito Comunista. Ho già avuto modo di fornire una testimonianza personale in merito agli appoggi che Visco aveva negli ambienti comunisti.26 Nel 1964, quando mi iscrissi alla Facoltà di Scienze come studente, lessi sul mio libretto universitario la firma di Sabato Visco in qualità di Preside. Mi rivolsi allora al ben noto matematico e dirigente del Partito Comunista Lucio Lombardo Radice, che conoscevo assai bene, chiedendogli come mai una Facoltà così nota per le sue tendenze democratiche e antifasciste sopportasse di avere come Preside un personaggio di quel genere. La risposta fu: «Ma è così bravo a trovare denaro!». Mi chiesi anche come mai uno dei più illustri docenti della medesima Facoltà, Beniamino Segre, che sarebbe stato Presidente dell’Accademia dei Lincei, sopportasse una simile vicinanza: sebbene Visco non fosse più stato reintegrato nell’Accademia non mancavano le occasioni in cui Segre doveva sedergli vicino. Segre era ebreo ed era stato vittima delle leggi razziali. Sono convinto che la spiegazione di tale condiscendenza ha sempre la stessa radice politica: Segre era militante del Partito Comunista e, negli anni cinquanta, era stato addirittura Presidente dell’Associazione per l’amicizia fra l’Italia e l’Unione Sovietica. Esiste al riguardo un documento che illumina forse meglio di qualsiasi altra testimonianza queste connessioni politiche. In data 17 ottobre 1957 ebbe luogo alla Camera dei Deputati un dibattito consacrato allo stato di previsione del Ministero della Pubblica Istruzione che diede luogo a un’accesa discussione sulla politica universitaria del governo democristiano dell’epoca e, in particolare, del Ministro della Pubblica Istruzione Aldo Moro. Il più acceso critico fu Mario Alicata, personaggio che ben conosciamo come uno dei più illustri dei “redenti” e uno dei massimi dirigenti del Partito Comunista. Ebbene, nella sua durissima requisitoria contro la politica universitaria del governo, Alicata cita come massima autorità Sabato Visco: «Cito testualmente dalle dichiarazioni fatte a La Stampa di Torino da un autorevole professore dell’università di Roma, non certo sospetto di essere un sovversivo [sic!], il professor Visco: “i professori universitari ritengono che si renderebbero responsabili di un tradimento verso il paese se non denunciassero, con un serio gesto di protesta, la pericolosa decadenza nella preparazione dei tecnici e nelle attività scientifiche”». E in un altro intervento, sempre di parte comunista, si ricordava al ministro Moro: «Signor ministro, so che giorni or sono è venuto da lei Sabato Visco, preside, a Roma, della facoltà di scienze, e che le ha detto onestamente che i professori, stanchi e avviliti […] non intendono più continuare a far finta di adempiere sul serio una missione resasi impossibile; che occorrono nell’aule altri assistenti, che, soprattutto, nei laboratori bisogna far entrare gli strumenti necessari allo studio e alla ricerca, mancando i quali non si va più avanti». E così via. Dunque, il Visco – colui che era stato corresponsabile della cacciata del 7% dei professori universitari di “razza ebraica”, a causa della quale erano stati smantellati interi settori della ricerca scientifica, grazie ai quali l’Italia aveva raggiunto una delle prime posizioni mondiali, e che aveva accolto tale cacciata «con suprema indifferenza», proclamando anzi che l’università italiana ne aveva guadagnato in «unità spirituale» – questa stessa persona, con impudenza e arroganza inconcepibile, si recava dal Ministro per rappresentare un malcontento della classe accademica che prospettava come giunto a un punto da mettere in discussione la possibilità di continuare ad adempiere alle proprie funzioni. Da dove veniva una simile certezza di impunità e una tale consapevolezza di potenza, in una persona il cui passato indegno era ricoperto appena da un velo di polvere? Essa veniva chiaramente dall’appoggio dei suoi mandanti e colleghi di “redenzione”, come Mario Alicata. Era forse un caso che proprio questi avesse indicato Visco come massimo testimone dello stato dell’università e facesse riferimento a lui per argomentare il suo violento attacco politico al governo? Due ex-razzisti ed ex-fascisti sotto la bandiera del comunismo: ecco uno spaccato della classe dirigente politico-intellettuale su cui si era ricostruita la repubblica antifascista. Frattanto, mentre gente come Visco aveva ripreso e conservato posizioni tanto rilevanti sul piano politico e accademico, l’emarginazione dei professori universitari ebrei era praticamente irreversibile. Il caso Terni rappresenta certo la punta più estrema del rovesciamento di responsabilità e di una “remunerazione” capovolta. Molti altri casi meno estremi ma comunque drammatici testimoniano di questa colossale ingiustizia, per cui le vittime continuarono ad essere tali, e per giunta sotto il giogo dei medesimi persecutori. Tale fu il caso di coloro che, per un motivo o l’altro, rinunziarono a tornare in Italia, dopo essere emigrati nel periodo razziale.27 Altri morirono di dispiacere o di depressione per i lunghi otto anni trascorsi nell’umiliazione. Coloro che furono reintegrati ebbero delle cattedre ad personam, le quali sarebbero sparite con la loro morte: non si trattava quindi di un vero reintegro, in quanto le cattedre precedentemente da loro occupate restavano in mano di coloro che le avevano usurpate, con tutto l’apparato di potere connesso che quindi era definitivamente passato di mano. Ma la domanda (retorica) più importante è questa: era mai possibile che coloro che erano riusciti a conservare le loro posizioni o addirittura ad acquisirne, entrando a far parte della nuova classe dirigente “democratica” del paese, e che avevano da nascondere tanti scheletri, potessero coltivare in qualsiasi modo il ricordo di quanto era successo e favorire una ricostruzione storiografica corretta degli eventi di cui erano stati colpevoli protagonisti? E poteva uscirne un atteggiamento sensibile nei confronti della questione ebraica e dell’antisemitismo? Nella risposta – ovviamente negativa – occorre cercare la spiegazione al silenzio storiografico che ha gravato, per decenni, sulle politiche razziali del regime fascista. E qui occorre cercare una delle spiegazioni del perché la sinistra comunista sia stata tanto sorda su questo tema ed abbia contratto una insensibilità così radicata nei confronti della questione ebraica.
Una storiografia intossicata
Dunque, per lunghi anni, la vicenda delle politiche razziali fasciste è stato un tema dimenticato della storiografia del fascismo, coltivata soltanto da uno storico come Renzo De Felice, su cui gravava – e grava tuttora – l’accusa infamante di aver giustificato il fascismo. Ma neppure De Felice – come si è detto – aveva compiuto il passo di andare a scavare nei recessi dell’intellettualità italiana, nei sottoscala di quel mondo universitario e accademico che aveva dato così fervidi contributi teorici e pratici al razzismo antisemita. Qualcosa è cambiato verso la fine degli anni ottanta. Non è certamente questa la sede per compiere una rassegna della vastissima letteratura che ne è emersa e che, in certo senso, ha addirittura capovolto la situazione: da una penuria di scritti si è passati a un’abbondanza e persino a una sovrabbondanza che presto produrrà un effetto di saturazione presso il pubblico. Le politiche razziali e antisemite del fascismo sembrano essere diventate una vera ossessione storiografica. Non soltanto. Anche l’impostazione si è capovolta. Si è passati da un atteggiamento di minimizzazione delle politiche razziali a giudizi di radicalità estrema: se prima – in conformità alla visione del primo De Felice – esse erano viste come una scelta che derivava dal Patto d’acciaio tra Hitler e Mussolini (e quindi erano viste come una pura e semplice concessione del secondo al primo),28 ora le politiche razziali vengono presentate come qualcosa di paragonabile per intensità ed efferatezza a quelle germaniche. Contro ogni evidenza, Mussolini non viene presentato soltanto come un razzista, ma come un antisemita strutturale, al pari di Hitler.29 Secondo Michele Sarfatti, il razzismo fascista era biologistico come quello tedesco, e non aveva alcuna specificità “spiritualistica” o “nazional-razziale”, nonostante l’analisi anche più superficiale della sua genesi, dei suoi sviluppi e dei suoi conflitti interni conducano alla conclusione opposta.30 In alcuni casi, si è raggiunto il livello della pura e semplice retorica, definendo personaggi come Nicola Pende e Sabato Visco come i “Rosenberg italiani”, il che è al di là di ogni caratterizzazione accettabile.31 Insomma, la letteratura ha subito come l’oscillazione di un pendolo: da un estremo di minimizzazione della portata e del significato delle politiche razziali del fascismo all’estremo opposto di un’enfasi che appare francamente eccessiva. Come è potuto succedere tutto questo? A nostro avviso, le radici di questo fenomeno sono le stesse e vanno ancora una volta cercate nella cultura della sinistra comunista – o, per meglio dire, postcomunista – che rappresenta ancora la parte egemone della cultura italiana. Occorre riandare ancora a quel nodo irrisolto in cui il rapporto con l’ideologia comunista si salda con una lunga tradizione di sordità per il problema ebraico alimentata dalle modalità di uscita dal fascismo in cui campeggia il fenomeno dei “redenti”. Il punto di demarcazione si colloca attorno alla caduta del comunismo “reale”, attorno al 1989: non a caso si è osservato che il nuovo orientamento nasce in quel periodo. Quando il comunismo reale (sovietico) era ancora in piedi, per quanto esso traballante fosse e per quanto i movimenti comunisti occidentali ne avessero preso le distanze, esso rappresentava un riferimento concreto e una prospettiva possibile, sia pure con pesanti correzioni. Le discussioni vertevano attorno al tipo di società socialista che poteva essere costruita, sia pure in una prospettiva molto diversa da quella sovietica. L’“uomo socialista” era ancora l’aspirazione per il futuro. In questa cornice, i diritti dell’identità ebraica erano inesistenti, il sionismo rappresentava un ideale in contraddizione totale con la prospettiva socialista e l’ideale dell’uomo sionista non poteva che essere in totale contraddizione con l’ideale dell’uomo socialista. La soluzione del problema ebraico non poteva che essere un corollario della soluzione della questione sociale nella prospettiva del comunismo, sia pure di un comunismo “liberale” quale pretendeva di essere quello italiano. Tutto ciò si saldava perfettamente – lo abbiamo visto – con i sentimenti di un ceto politico-intellettuale che, per le sue compromissioni con il fascismo e le politiche razziali, non nutriva alcuna sensibilità speciale per la questione ebraica, o addirittura era interessato a metterla radicalmente tra parentesi. Il crollo del comunismo reale ha modificato radicalmente i termini della situazione. In linea di principio, la fine dell’ideale della società comunista come prospettiva concreta e unica entro cui poteva concepirsi l’emancipazione umana poteva aprire la via alla considerazione di altre prospettive ed esperienze; poteva condurre a una maggiore comprensione della prospettiva sionista; poteva condurre a vedere i drammi del Ventesimo secolo non soltanto nell’ottica esclusiva dello scontro tra capitalismo e socialismo, ma anche nell’ottica della questione razziale. Tutto ciò è, in effetti, avvenuto, ma soltanto in parte e in modo assai distorto.32 La Shoah è stata liberata dall’interdetto che ne faceva un evento secondario o comunque subordinato agli eventi ben più importanti riconducibile al conflitto “strutturale” tra classi, tra socialismo e capitalismo. È anzi accaduto un fenomeno paradossale: e cioè che la Shoah è stata letteralmente santificata e mitizzata come una sorta di evento al di fuori della storia e non comparabile con alcun altro evento “apparentemente” analogo. Le responsabilità di questa mitizzazione sono vaste e non è qui la sede per approfondirle. Quel che ci interessa sottolineare è che essa è stata (e viene) utilizzata dalla storiografia postcomunista come un mezzo per occultare o quantomeno minimizzare i delitti del comunismo. La ricostruzione proposta da questa storiografia è che il nazismo e il fascismo sono il male assoluto. Nulla di paragonabile con la Shoah è mai avvenuto nella storia dell’umanità e anche le politiche razziali del fascismo italiano sono state una Shoah. Pertanto il Gulag, rappresenta un evento minore rispetto al Lager nazista e – perché no? – anche rispetto al razzismo mussoliniano. Per sostenere una simile tesi occorre compiere un passo decisivo: sostenere che il razzismo mussoliniano era ideologicamente identico a quello hitleriano e che l’antisemitismo era una componente strutturale e costitutiva dell’ideologia fascista, È precisamente quel che tenta di fare una certa storiografia contemporanea intossicata dall’ideologia. Così, nel momento stesso in cui ci si poteva illudere che si fosse estinto l’influsso dei “redenti” sulla visione del passato fascista e si fosse resa possibile una storiografia davvero libera e non condizionata, si è caduti in preda a un altro condizionamento e all’influsso di un nuovo gruppo di “redenti”, quelli dal comunismo. In parte, non sono neppure “redenti”, perché non nascondono il loro persistente legame con le radici dell’ideologia comunista. Nella loro parte più consistente, essi hanno rotto con il passato; ma hanno presentato questa rottura come il risultato di un processo evolutivo, il che la riduce a una rottura sui generis – un rottura nella continuità – una sorta di ossimoro. Questa visione evolutiva ha permesso di astenersi da ogni esame critico approfondito e di presentare il passato come qualcosa da cui ci si è separati ma che ha rappresentato comunque un’esperienza dignitosa e produttiva, il che permette di conservare forme di nostalgia più o meno nascoste. La continuità dell’egemonia culturale che così si manifesta ostacola, di nuovo, la crescita di una storiografica del fascismo e delle sue politiche razziali improntata a una visione razionale e non inquinata da pregiudizi ideologici.
1 M. Serri, Redenti, Milano, Corbaccio, 2005.
2 R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 1961 (19882), pp. 442-444.
3 Per quanto riguarda il mondo scientifico, si veda il mio volume: G. Israel, Scienza e razza nell’Italia fascista, Bologna, Il Mulino, 1988 (19892); e inoltre G. Israel, “Science and the Jewish Question in the
Twentieth Century: The Case of Italy and what is shows”, Aleph, Historical Studies in Science and Judaism,
Vol. 4, 2004, pp. 191-261; Italian Mathematics, Fascism and Racial Policy, in Mathematics and Culture I, M.Emmer ed. Berlin-Heidelberg, Springer-Verlag, 2004, pp. 21-48; nonché il primo saggio sull’argomento: G.Israel, “Politica della razza e persecuzione antiebraica nella comunità scientifica italiana”, in AA. VV., Le legislazioni antiebraiche in Italia e in Europa, Atti del Convegno nel cinquantenario delle leggi razziali (Roma,
17-18 Ottobre 1988), Roma, Camera dei Deputati, 1989, pp. 123-162.
4 Si veda il recente M. Franzinelli, L’amnistia Togliatti. 22 giugno 1946. Colpo di spugna sui crimini fascisti, Milano, Mondadori, 2006. Sull’epurazione si veda H. Woller, Die Abrechnung mit dem Faschismus in Italien, 1943 bis 1948, München, Oldenbourg, 1996.
5 Si veda AA. VV., L’abrogazione delle leggi razziali in Italia (1943-1987), Roma, Servizio Studi del Senato della Repubblica (Problemi e profili del nostro tempo, vol. I, 1989.
6 Si veda, in merito G. Israel, La questione ebraica oggi, Bologna, Il Mulino, 2002 e il cap. 4 di G. Israel, Il giardino dei noci. Incubi postmoderni e tirannia della tecnoscienza, Napoli, Cuen 1998 (trad. francese Le jardin au noyer. Pour un nouveau rationalisme, Paris, Le Seuil, 2000.
7 G. Israel, “Dall’antisemitismo mi guardo io”, Shalom, anno XXVIII, 31 maggio 1994, pp. 14-15.
8 P. Conti, “All’armi, erano antisemiti?”, Corriere della Sera, 22 giugno 1994, p. 29.
9 G. Israel, “L’odio di razza va oltre l’odio di classe”, Corriere della Sera, 26 giugno 1994, p. 30.
10 L. Micciché, “Il razzismo patrimonio esclusivo della destra”, Corriere della Sera, 29 giugno, p. 31.
11 G. Israel, “Scheletri e mostri vivi”, Corriere della Sera, 2 luglio 1994.
12 L. Micciché, “Ciò che non ho detto e ciò che non penso”, Corriere della Sera, 6 luglio 1994.
13 Autore di un libro molto famoso all’epoca: G. Fano, Brain and Heart. Lectures on Physiology, London, Oxford University Press, 1926. Fano era ebreo, ma un ebreo completamente “assimilato”, come eracaratteristico della maggior parte degli ebrei italiani dell’epoca. Si veda in merito G. Israel, P. Nastasi,Scienza e razza nell’Italia fascista, cit.
14 Anche su questo aspetto si possono trovare dettagli in G. Israel, P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, cit.
15 Si veda in merito G. Israel, P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, cit.
16 Presso gli Archivi Centrali dello Stato (ACS, Roma).
17 Fascicolo n. 516670. Ogni persona che si richiedeva un contatto con il Duce aveva un “raccomandante”. Il “raccomandante” di Visco era il Ministro della Cultura Popolare Alessandro Pavolini, uno dei influenti gerarchi del fascismo.
18 ACS, Ministero della Cultura popolare, Gabinetto, b. 54
19 Nella seduta della camera del 20 maggio 1939 disse che il mondo universitario aveva accolto tale cacciata «con suprema indifferenza» e che l’università «ne aveva guadagnato in unità spirituale».
20 Si veda alla nota 3.
21 Per una ricostruzione dettagliata della vicenda di Terni si veda: P. Simoncelli, “Il dramma di uno scienziato ebreo. Il suicidio di Tullio Terni e l’epurazione ai Lincei”, Nuova Storia Contemporanea, VII, no. 1,2003, pp. 101-120.
22 Si veda alla nota 4.
23 Per maggiori dettagli si veda G. Israel, P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, cit. La nota storica reperibile sul sito attuale dell’INRAN recita: «L’Istituto è stato fondato nel 1936 dal noto studioso Sabato Visco, come Istituto Nazionale di Biologia, nel quadro degli istituti scientifici del Consiglio Nazionale delle Ricerche. L’intento era quello di favorire le conoscenze nello specifico ambito della biologia che si andava allora delineando nel panorama scientifico internazionale: la scienza dell’alimentazione, studiata in quanto interrelazione fra l’agricoltura - fonte di risorse alimentari - e il benessere e la salute della popolazione attraverso la nutrizione. Nel 1958 l’Istituto diviene Ente di diritto pubblico sotto la vigilanza del Ministero dell’Agricoltura e Foreste e cambia la sua denominazione in Istituto Nazionale della Nutrizione (INN)». A parte l’ipocrita menzione di Visco come “noto studioso”, è elusiva la definizione degli intenti dell’Istituto di Visco, in quanto il benessere e la salute della popolazione era inteso come miglioramento razziale.
24 Giova ricordare che, il Settimo Convegno Volta di scienze fisiche, matematiche e naturali, che si tenne a Roma dal 26 settembre al 2 ottobre 1937 ebbe per tema “Lo stato attuale delle conoscenze sulla nutrizione”. La relazione introduttiva al Convegno fu tenuta naturalmente dal gran patron della scienza della nutrizione, Sabato Visco. Molti degli intervenuti evidenziarono nei loro discorsi l’importanza dei risvolti economici, amministrativi e politici alla base degli studi sulla nutrizione e sul metabolismo umano, che spiegarono a seconda dell’appartenenza a una determinata “razza”. Come ebbe a dire uno dei più stretti amici del Visco, il fisiologo Filippo Bottazzi, la scienza della nutrizione è fondamentale per «l’incremento demografico della popolazione e il perfezionamento della razza». Tale visione fu enfatizzata da Giuseppe Bottai che sottolineò, nel suo intervento l’interesse «sommo» del Governo per questi temi che focalizzano i rapporti tra alimentazione e metabolismo della razza: «dalla fecondità del chicco dipende la fecondità della razza». (Lo stato attuale delle conoscenze sulla nutrizione, Reale Accademia d’Italia, Fondazione Alessandro Volta, Convegno di scienze fisiche, matematiche e naturali, Roma, 1938). Si noti che siamo nel 1937, ancora un anno prima delle leggi razziali, il che la dice lunga sull’orientamento razzistico di queste correnti di scienziati.
25 Tuttavia, abbiamo trovato traccia dell’esistenza di un Premio Internazionale di Vitaminologia “Sabato Visco”, che è stato conferito a Francesco Maria Chiancone nel 1999.
26 G. Israel, “Chi vuole andare a braccetto con Bottai faccia pure, va con un antisemita”, http://www.informazionecorretta.it/main.php?sez=90