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Il Manifesto Rassegna Stampa
05.07.2007 Vogliono uno Stato islamico al posto di Israele
è questo il vero significato della proposta di uno Stato unico per ebrei e arabi

Testata: Il Manifesto
Data: 05 luglio 2007
Pagina: 11
Autore: Michele Giorgio
Titolo: ««L'unica soluzione in Palestina Uno stato unico per tutti»»

Il primo passo è la calunnia: "Israele è uno Stato di apartheid".
Il secondo è l'inganno: poniamo fine all'apertheid creando uno Stato binazionale per ebrei e arabi.
L'apartheid in Israele non esiste, gli arabi hanno diritti politici e civili. E lo Stato palestinese, se  sorgesse, non sarebbe un bantustan. I bantustan erano stati tribali senza popolazione, dato che i neri sudafricani vivevano in gran parte nei ghetti delle grandi città bianche.
La secessione, la separazione tra Israele e gli arabi, non è razzismo, ma autodeterminazione.
Lo stato binazionale, d'altro canto, diverrebbe subito, o appena si fosse determinata la maggioranza ncessaria, uno stato arabo islamico.
Non esiste un solo Stato islamico che rispetti i diritti delle minoranze.

Il MANIFESTO sembra avviato sulla strada di una campagna per la soluzione "a un solo Stato", che equivale a riproporre il progetto di distruggere Israele.

Ecco un intervista, del 5 luglio 2007 ad  Ali Abunimah:

Ripartire da Madrid, invertendo però la rotta. Se nel 1991 nella capitale spagnola si erano svolti gli incontri tra l'Organizzazione per la liberazione della Palestina e i leader israeliani che avrebbero dovuto portare alla nascita di uno stato palestinese, oggi accademici e intellettuali vi si ritrovano per rilanciare nell'agenda politica il dibattito sullo stato binazionale, un'unica entità all'interno della quale israeliani e palestinesi, ebrei, arabi e cristiani, abbiano gli stessi diritti di cittadinanza. Organizzato dall'Universidad Nómada, il corso «Palestina/Israele, un paese uno stato», vede la partecipazione, tra gli altri, dello storico israeliano Ilan Pappe, della scienziata politica sudafricana Virginia Tilley e di Omar Barghouti, promotore della Campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale d'Israele. Ne abbiamo discusso con Ali Abunimah, palestinese-americano e autore di «One country», pubblicato in lingua inglese da Metropolitan Books.
Qual è l'idea che sta alla base del suo «stato unico»?
Lo stato unico è una vecchia proposta dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina ma anche di alcuni membri del movimento sionista prima della nascita d'Israele, come il filosofo Martin Buber e l'ex presidente dell'università ebraica Judah Magnes. La novità oggi sta nella necessità di rimetterla al centro dell'agenda politica. La realtà che si è creata sul terreno rende impossibile uno stato palestinese funzionante. Allo stesso tempo l'idea di uno stato etnico è insostenibile: a 60 anni dalla nascita d'Israele, lo Stato ebraico ha fallito sia nell'ottenere legittimazione da parte della sua popolazione - mi riferisco ai palestinesi che occupa e quelli all'interno dei confini statali, che insieme rappresentano circa la metà degli abitanti e diventeranno rapidamente la maggioranza - sia nel fermare la resistenza palestinese. Inoltre moralmente è inaccettabile che in uno stato i diritti di cittadinanza dipendano dall'etnia o dalla religione.
Lei parla di molti elementi in comune con l'esperienza irlandese...
Anche lì tutto è iniziato con un'impresa coloniale che ha assunto caratteri etnici e religiosi. L'Irlanda del nord fu creata nel 1921 come partizione dall'Irlanda proprio per creare un territorio in cui i protestanti unionisti - che erano una minoranza in tutta l'isola - rappresentassero la maggioranza. Creare una maggioranza artificiale in una parte dell'Irlanda per giustificare e perpetuare il potere dell'occupante. È quello a cui assistiamo in Israele: il tentativo di definire uno stato territoriale dove gli ebrei siano la maggioranza.
Crede che gli israeliani siano pronti ad accettare di dividere il potere con i palestinesi?
Ci sono due gradini da superare per arrivare a questa consapevolezza. Primo: riconoscere che hai difficoltà nel mantenere il potere. In secondo luogo è necessario accettare di condividerlo con la controparte. Gli israeliani non sono in alcun modo vicini a quest'ultimo passaggio, ma ammettono che hanno un problema di legittimazione nell'esercizio del potere e nel mantenerlo. È ciò che s'intende quando Tel Aviv parla di «minaccia demografica». Un discorso razzista: i palestinesi stanno diventando la maggioranza, quindi ci dobbiamo separare per mantenere lo stato ebraico. Ma si tratta nello stesso tempo del riconoscimento che uno stato in cui il potere è nelle mani della minoranza è illegittimo. E quindi stanno cercando di creare una situazione - esattamente come i bantustan sudafricani - in cui apparentemente Israele non governa sui palestinesi, in cui alla fine i palestinesi abbiano uno «stato» fantoccio senza poteri e quindi non debbano chiedere diritti a Israele.
A che livello di maturazione è questo dibattito tra i palestinesi?
Si sta allargando molto, sia tra quelli che vivono in Israele che in Cisgiordania e Gaza. Anche i sondaggi degli ultimi anni dimostrano che tra 1/4 e 1/3 dei palestinesi di Cisgiordania e Gaza sono per questa soluzione. Un fatto straordinario se si pensa che nessun partito palestinese la pubblicizza. Anche nel movimento di solidarietà internazionale, per cui lo slogan dei due stati era un mantra, si sta prendendo in considerazione lo stato unico.
E come la mettiamo con Hamas, che mira allo stato islamico?
Hamas si è distaccata molto dalla sua ideologia d'origine e non mira allo stato islamico, non è più una semplice emanazione della Fratellanza musulmana egiziana. Si tratta di un movimento in continuo cambiamento che sta incorporando anche alcuni principi liberali, come dimostra la dichiarazione in favore della libertà di stampa in occasione della liberazione del reporter della Bbc Alan Johnston.

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