I rapitori di Alan Johnston si piegano ad Hamas ma sarebbe un errore dar credito al gruppo terroristico: l'analisi di Fiamma Nirenstein
Testata: Il Giornale Data: 05 luglio 2007 Pagina: 1 Autore: Fiamma Nirenstein Titolo: «Libero il reporter della Bbc «Sepolto vivo per 114 giorni»»
Dal GIORNALE del 5 luglio 2007:
Alan Johnston, il 45enne giornalista della Bbc è stato liberato dopo 114 giorni di cattività all’alba di ieri. L’ha rilasciato il gruppo integralista “Esercito dell’islam” dopo giorni di durissima pressione da parte di Hamas. Pallido e affaticato, Johnston si è presentato ai giornalisti in compagnia del capo di Hamas Ismail Haniyeh, e ha dichiarato tutta la sua felicità, poi ha potuto parlare con la sua famiglia, e ha partecipato a una seconda conferenza stampa presso il consolato britannico a Gerusalemme. Il suo è stato un racconto dignitoso e drammatico: «Per me è stato come essere sepolto vivo - ha detto ricordando di essere stato detenuto a lungo in una stanza senza finestre -. Non c’è quasi stata violenza, ma sono spesso stati aspri e sgradevoli. Mi hanno minacciato di morte in modi diversi, erano pericolosi e imprevedibili». La liberazione di Johnston è un avvenimento molto felice. Per chi talora si trova al lavoro a Gaza e conosce l’imprevedibilità e il pericolo di quelle strade e di quella esplosiva formicolante vitalità ormai dominata dal potere islamista, il pensiero tragico del collega detenuto in una zona infestata dalla crudeltà di Hamas è stato per mesi un pensiero triste e minaccioso. Ma ora è bene decifrare il significato di questo evento, perché è esattamente il contrario di quello che Hamas ha voluto mettere in scena. Abbiamo visto alla conferenza stampa della mattina un Ismail Haniyeh (dopo lo scontro con Fatah, primo ministro della Gaza divenuta Hamastan) soddisfatto e sornione come un gatto col sorcio in bocca. Haniyeh ha messo in scena, vantandosi della propria “trattativa” con la fazione che deteneva Johnston, lo spettacolo della affidabilità del nuovo potere di Hamas a Gaza, lo show della sua capacità di mantenere l’ordine come esca per l’Occidente dopo il caos sotto il governo di Fatah; ha esibito ciò che talvolta si sente predicare da tutti i sostenitori dell’appeasement, ovvero la sostanziale preferibilità di un forte potere islamista come interlocutore rispetto a un potere moderato ma debole. Mutatis mutandis, è la differenza che corre fra l’Iran e i poteri sunniti moderati in Medio Oriente. Una parabola oltremodo interessante, che spiega meglio di tutti dall’interno Sofian Abu Zaide, ministro per i prigionieri del governo di Fatah: «Hamas ha generato e sostenuto nel suo seno gli uomini dei rapitori, dell’“Esercito Islamico” legato alla famiglia Dogmush, uno dei potenti clan della città di Gaza, padroni del quartiere di Zabre dove hanno sempre tenuto prigioniero Johnston. Estremisti che alzano un certo fumo parlando di Al Qaida, ma il nesso è Hamas. Tutti sapevano che Johnston era rinchiuso là, ma fino al momento che è parso strategico nessuno lo ha liberato per motivi umanitari. Hamas ha dato le armi alla fazione, Hamas l’ha fornita di denaro, Hamas le ha anche dato ordini fino a un certo punto, quando essa ha esagerato in autonomia. Hamas ha staccato decisamente la spina quando ha avuto bisogno di una riqualificazione agli occhi del mondo dopo aver spillato tanto sangue palestinese a Gaza. Ma è sempre col sangue e la libertà palestinese che oggi l’ordine che essi vantano viene pagato. E non ne uscirà niente di buono per nessuno se verrà dato credito a Hamas». Il gruppo dei rapitori si è nascosto dietro svariate sigle ideologiche, ma Hamas è rimasto sempre il suo interlocutore, la sua casa madre. E i rapimenti seguitano ad essere una sua arma: ne ha compiuto altri, ne pianifica ancora. Non solo: un anno fa la collaborazione fra questo gruppo e Hamas mise in atto il rapimento di Gilad Shalit, il soldato di leva israeliano rapito sul confine di Gaza, di cui si pensa che sia nascosto dalla stessa gang, forse nello stesso quartiere. Ma per lui non è ancora il tempo della liberazione, se mai avverrà. Hamas lancia un piccolo amo per vedere se l’esca per l’Occidente è buona, e poi stabilirà un prezzo in prigionieri e altre misure che lo farà apparire un grande leader agli occhi dei palestinesi. Per far liberare Johnston sono occorse le maniere molto forti, alla moda di Gaza: il capofamiglia dei Dughmush, Mumtaz, ha fatto sapere che uno dei suoi figli Ahmed, di 28 anni, è stato rapito e ucciso sabato notte della settimana scorsa. Pochi giorni prima, Johnston era apparso in un video trasferito alla stampa con una cintura di tritolo alla vita mentre diceva di non tentare di liberarlo con la forza perché altrimenti sarebbe saltato per aria. Ma in Medio Oriente c’è un detto: quello che non si ottiene con la forza, si ottiene con più forza. Così è successo: Hamas ha circondato di armati la roccaforte dei Dughmush per 48 ore, anche i suoi hanno subito spari e ferite; pare che la minaccia, noncurante della cintura di Johnston, fosse semplicemente quella di eliminare tutto il clan, dice il cronista di Ha’aretz Avi Assacharov. E il clan allora si è piegato. I moderati sentono che l’Occidente tentenna. Ma tutti soffriranno, e per primi i palestinesi e gli arabi in genere, se questi ultimi verranno ritenuti da noi interlocutori plausibili. La loro sferza integralista si abbatterà per prima cosa sulle loro stesse popolazioni. Fiamma Nirenstein www.fiammanirenstein.com
Per inviare una e-mail alla redazione del Giornale cliccare sul link sottostante