Perché non dobiamo fidarci di Tariq Ramadan Giulio Meotti presenta il saggio di Paul Berman sull'intellettuale islamista
Testata: Il Foglio Data: 04 luglio 2007 Pagina: 1 Autore: Giulio Meotti Titolo: «Non ci fidiamo di lui. Un grande intellettuale ci spiega perché»
In allegato al FOGLIO del 4 luglio 2007, un lungo saggio di Paul Berman su Tariq Ramadan, che non ci è possibile riprodurre. Invitiamo i nostri lettori a leggerlo acquistando il quotidiano.
Di seguito, la presentazione di Giulio Meotti
E’ il figlio di un intellettuale che scrive e pensa giusto. Questa lunga inchiesta di Paul Berman, saggista che si è smarcato dalla sinistra americana dopo l’11 settembre, è il più bel saggio in lingua inglese mai prodotto su Tariq Ramadan. La vicenda inizia sulla tratta Ginevra-South Bend. L’islamista di origine egiziana e di nazionalità svizzera, scrittore e pensatore di fama internazionale, doveva tenere un nuovo corso all’Università cattolica di Notre Dame. Ramadan si vide ritirare il visto dal Dipartimento di stato accusato di legami con il fondamentalismo. Il caso divenne il banco di prova del rapporto tra libertà e sicurezza in un paese che si trova nelle maglie di una lunga guerra contro il terrore. Tariq Ramadan è il nipote di Hassan al Banna, il fondatore dei Fratelli musulmani che nel 1928 fecero scattare la scintilla del radicalismo sunnita. Berman si immerge nel “nasab” di Ramadan, il merito acquisito in virtù dei propri antenati e che è uno dei pilastri della società araboislamica. Ci regala un grande affresco della “passione per la morte” dei padrini della guerra santa. Carismatico e telegenico, Tariq è oggi protagonista e patrono dell’islam europeo. Oltre 20 libri, 700 articoli, quasi 200 audiocassette ci danno un’idea del proselitismo messianico di un uomo onorato del titolo di “Martin Lutero islamico”. Corteggiato dalle cancellerie e dalle università d’Europa, dopo le bombe del 7 luglio Tony Blair lo volle accanto a sé. Un inopportuno Corriere della Sera gli chiese di commemorare i morti dell’11 settembre. Il medico francese Bernard Kouchner rispose agli osanna ramadaniani definendolo “estremamente pericoloso”. Quell’anno l’Unione delle organizzazioni islamiche di Francia si oppose alla pubblicazione della “Raccolta di fatwa” di Yussuf al Qaradawi, lo sceicco che ha benedetto i martiri a Gerusalemme e Baghdad. La prefazione era firmata Ramadan, che non esitò a certificare gli scritti del grande dotto del Qatar per il quale con gli ebrei è possibile dialogare “o con la spada o con la pistola”. Dal suo ufficio nel quartiere parigino di St. Denis, Ramadan cavalca la tigre islamica della seconda e terza generazione. In questa magistrale gigantografia affiorano i tanti volti del “riformatore” buono solo per le nostre carte dei valori: il seduttore dei borghesi e il genio della stanca profferta di dialogo, il modernista a proprio agio nel mondo e il curato del jihad travestito da multiculturalismo bacchettone, il pericoloso predicatore e l’erede della nobile casata, il banditore di una salafia chic e l’interprete di un Maometto bellissimo e terapeutico. Berman spiega perché Ramadan non ci convince. Non convince quando chiede una moratoria delle lapidazioni e non la loro definitiva messa al bando. Non convince quando gioca con la liquidazione dello stato ebraico. Non convince quando propugna piscine separate in Francia e poligamia consapevole in Inghilterra. Non convince quando bolla come “interventi” i carnai di Bali e Madrid. Non convince quando dà del “cristiano” a Magdi Allam in un incontro a Londra. Non convince quando racconta il Profeta alla conquista della penisola arabica, dimenticando la sorte di ebrei, pagani e cristiani sotto l’avanzata islamista. Non convince quando fa il novello René Guenon e ci rifila un Dio unico e impalpabile e incanta platee di cristiani marcionisti con le sure elegiache. Non convince quando il professor Robert Redeker è costretto a vivere al buio e lui parla di “nuova islamofobia”. Non convince quando celebra l’“uomo musulmano”, si sentono le spade affilarsi, la sorte degli “apostati” è decisa e nera. Non convince quando seduce gli europei con la perfezione geometrica della sharia. Non convince quando proclama che “l’islam è la soluzione”. Nel 1989 l’ayatollah Khomeini scongiurò Michail Gorbaciov di non rivolgersi all’occidente, ma all’islam. E’ quanto sta dicendo Ramadan all’Europa depopolante. Colpiti da un islamismo fondamentalista che discute se deturpare i corpi degli americani in Iraq, che stabilisce la lunghezza della barba, che si domanda se i giovani debbano fasciarsi i genitali prima di farsi esplodere per averli intatti in Paradiso, che si chiede se sia lecito preparare insalate di cetrioli e pomodori essendo uno femmina e l’altro maschio, che discute se donne e bambini siano carne da macello, contro quest’affascinante sollevazione premoderna, anticristiana, antipoliteista e antisemita l’apologetica inquietante di Ramadan non solo non è credibile, è pericolosa. Ce lo dice la blacklist dei dissidenti che rischiano la vita e a cui le nostre riviste non dedicano copertine come fanno con Ramadan, sono loro gli eroi di questo XXI secolo. Come quel Mamoun Fandy, lo studioso arabo che ha ricordato come nei testi islamici la terra sia stata creata come luogo di preghiera e di purezza e chi cerca di portarvi distruzione debba essere punito con l’amputazione di braccia e gambe. “Do you trust this man?”, chiese l’Indipendent dopo la nomina di Ramadan a consulente di Downing Street. La risposta è no. I motivi ce li fornisce qui un grande Paul Berman.
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