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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Walter Benjamin Infanzia berlinese 29/06/2007
Infanzia berlinese                     Walter Benjamin
A cura di Enrico Ganni
Einaudi                          Euro 14,50

Nel 1981, presso la Biblioteca Nazionale di Parigi furono ritrovati alcuni
manoscritti che Walter Benjamin, fuggendo da Parigi nel 1940, aveva
affidato a Georges Bataille e che da allora erano considerati dispersi. Tra
questi anche il dattiloscritto “Infanzia berlinese”, dove Benjamin
(1892-1940) rivive le ore e i luoghi, le memorie e i presentimenti di un
bambino ebreo nella Berlino dell’epoca. E’ un libro che non bisogna leggere
per curiosare nell’infanzia di un filosofo che in questi anni è diventato
di culto, ma per capire che cosa significa per Benjamin il “passato”, a cui
molti intellettuali alla fine della loro vita si dedicano, forse per
esorcizzare il futuro che non c’è, e quindi la morte che suggella la vita.
Benjamin che si è suicidato a 48 anni, dopo essere stato bloccato in Spagna
a seguito della sua fuga dalla Germania nazista, guarda il passato come si
può aprire uno scrigno segreto che contiene, a saperle leggere, tutte le
anticipazioni del futuro. La nostra anima, infatti, con le sue prime
esperienze, contiene, come il nostro corpo con i suoi geni, il programma
della nostra vita. Ma per riconoscerlo bisogna perdersi nei ricordi, non
per ricostruirli, ma per catturare in quei frammenti che emergono i segni
del successivo avvenire. “Ci vuole una certa pratica – scrive Benjamin –
per smarrirsi in una città come ci si smarrisce in una foresta. Una pratica
decisamente superiore a quella richiesta per orientarsi in una città”.
Non basta infatti una coscienza che indaga. Ci vuole anche un inconscio
capace di riemergere impressionandoci e segnalandoci l’orma di cui poi
abbiamo seguito la traccia. Dunque “storia e destino”, dove l’evocazione
del destino chiama in gioco quel suo antagonista che riconosciamo nel
libero arbitrio, a cui forse non dobbiamo affidare per intero il senso
della nostra storia individuale e collettiva. In questa contesa dove il
destino ride dell’illusione della nostra libertà, e la nostra libertà si
rifiuta alla coercizione del destino, il “ricordo”, che per Benjamin
anticipa il futuro, produce quella fuga di senso che va molto lontano dai
codici che regolano la nostra esistenza, trascinando con sé l’attenzione
inquieta di chi, ravvivandolo, è trasportato in tutt’altro ordine di
significati, in tutt’altra verità. Creando un senso adiacente rispetto al
senso stabilito, il “ricordo” di Benjamin, a differenza di quello di Proust
che è “alla ricerca del tempo perduto”, rivela quella potenza creativa che
accompagna il mutamento inconsapevole della storia individuale e
collettiva, perché dispone a inconsuete verità, a cui è affidata ogni
cadenza insospettata della nostra vita. Così inteso, il ricordo assomiglia
all’insistenza infinita dell’onda sulla spiaggia, al ritorno e alla
ripetizione della stessa onda sulla stessa riva, dove però ogni volta tutto
il senso si rinnova e si arricchisce, riassumendosi in un’esperienza che,
più è indescrivibile nella concettualità razionale, più esige la nostra
attenzione. Il messaggio è forte. Non ricopriamo i ricordi della nostra
infanzia col velo della malinconia. Essi non sono davvero del tutto
passati, perché, scrive Benjamin, forse influenzato dal “Principio
speranza” di Ernst Bloch con cui strinse un’amicizia a Berna, i ricordi
della nostra infanzia contengono “i tratti dell’avvenire”. E forse c’è
avvenire finchè non avremo scoperto l’ultimo segreto custodito dal più
remoto ricordo.

Umberto Galimberti
La Repubblica

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