Infanzia berlinese Walter Benjamin A cura di Enrico Ganni Einaudi Euro 14,50
Nel 1981, presso la Biblioteca Nazionale di Parigi furono ritrovati alcuni manoscritti che Walter Benjamin, fuggendo da Parigi nel 1940, aveva affidato a Georges Bataille e che da allora erano considerati dispersi. Tra questi anche il dattiloscritto “Infanzia berlinese”, dove Benjamin (1892-1940) rivive le ore e i luoghi, le memorie e i presentimenti di un bambino ebreo nella Berlino dell’epoca. E’ un libro che non bisogna leggere per curiosare nell’infanzia di un filosofo che in questi anni è diventato di culto, ma per capire che cosa significa per Benjamin il “passato”, a cui molti intellettuali alla fine della loro vita si dedicano, forse per esorcizzare il futuro che non c’è, e quindi la morte che suggella la vita. Benjamin che si è suicidato a 48 anni, dopo essere stato bloccato in Spagna a seguito della sua fuga dalla Germania nazista, guarda il passato come si può aprire uno scrigno segreto che contiene, a saperle leggere, tutte le anticipazioni del futuro. La nostra anima, infatti, con le sue prime esperienze, contiene, come il nostro corpo con i suoi geni, il programma della nostra vita. Ma per riconoscerlo bisogna perdersi nei ricordi, non per ricostruirli, ma per catturare in quei frammenti che emergono i segni del successivo avvenire. “Ci vuole una certa pratica – scrive Benjamin – per smarrirsi in una città come ci si smarrisce in una foresta. Una pratica decisamente superiore a quella richiesta per orientarsi in una città”. Non basta infatti una coscienza che indaga. Ci vuole anche un inconscio capace di riemergere impressionandoci e segnalandoci l’orma di cui poi abbiamo seguito la traccia. Dunque “storia e destino”, dove l’evocazione del destino chiama in gioco quel suo antagonista che riconosciamo nel libero arbitrio, a cui forse non dobbiamo affidare per intero il senso della nostra storia individuale e collettiva. In questa contesa dove il destino ride dell’illusione della nostra libertà, e la nostra libertà si rifiuta alla coercizione del destino, il “ricordo”, che per Benjamin anticipa il futuro, produce quella fuga di senso che va molto lontano dai codici che regolano la nostra esistenza, trascinando con sé l’attenzione inquieta di chi, ravvivandolo, è trasportato in tutt’altro ordine di significati, in tutt’altra verità. Creando un senso adiacente rispetto al senso stabilito, il “ricordo” di Benjamin, a differenza di quello di Proust che è “alla ricerca del tempo perduto”, rivela quella potenza creativa che accompagna il mutamento inconsapevole della storia individuale e collettiva, perché dispone a inconsuete verità, a cui è affidata ogni cadenza insospettata della nostra vita. Così inteso, il ricordo assomiglia all’insistenza infinita dell’onda sulla spiaggia, al ritorno e alla ripetizione della stessa onda sulla stessa riva, dove però ogni volta tutto il senso si rinnova e si arricchisce, riassumendosi in un’esperienza che, più è indescrivibile nella concettualità razionale, più esige la nostra attenzione. Il messaggio è forte. Non ricopriamo i ricordi della nostra infanzia col velo della malinconia. Essi non sono davvero del tutto passati, perché, scrive Benjamin, forse influenzato dal “Principio speranza” di Ernst Bloch con cui strinse un’amicizia a Berna, i ricordi della nostra infanzia contengono “i tratti dell’avvenire”. E forse c’è avvenire finchè non avremo scoperto l’ultimo segreto custodito dal più remoto ricordo.