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Debora Esther Singer Kreitman Baldini Castaldi Dalai Euro 17,50 Un tipo fatto d’aria, che si occupa di affari inutili, gonfi soprattutto di parole, mentre la vita con le sue pene gli scorre accanto fino a sommergerlo. Un “luftmentsh”, insomma, come ce ne sono molti nella letteratura yiddish, ma con una caratteristica in più. Anziché essere un talmudista lunatico, appartiene a un genere particolare e antichissimo di perdente: è una donna, in una cultura satura di maschilismo. Debora, pubblicato nel 1936, è una testimonianza molto precoce della condizione femminile nel mondo ebraico ortodosso dell’Europa orientale. L’autrice del romanzo, Esther Singer Kreitman, fu, per così dire, “sorella d’arte”. Primogenita di Pinkas e Basheve Singer, nacque a Bilgoray, in Polonia, nel 1891. Dopo di lei vennero al mondo Israel Yehoshua e Isaac Bashevis, che sarebbero divenuti due tra i maggiori scrittori yiddish del Novecento. A quell’epoca, in una famiglia ebraica colta, ci si aspettava dai maschi una brillante carriera intellettuale. Non è così per una ragazza, ed Esther dovette combattere non poco per ritagliarsi un proprio spazio espressivo. “Era un chasid in gonnella, ma soffriva d’isterismi, e aveva leggeri attacchi di epilessia. Qualche volta sembrava posseduta da un “dibbuk”, uno spirito maligno”: in queste parole del fratello Isaac Bashevis si riflette una biografia in bilico tra fantasia estrema e impossibilità di vivere all’altezza delle proprie ambizioni intellettuali. Debora ha forti tratti autobiografici. La protagonista si sente schiacciata in un angolo meschino della realtà, costretta com’è a occuparsi di faccende domestiche e di fatue chiacchiere di serve, mentre per il suo sventato fratello Mikhl si prepara una brillante carriera di rabbino. Con campiture spesse, la Singer Kreitman delinea il disarmonico universo interiore di Debora, fatto di sogni a occhi aperti, di entusiasmi e d’inevitabili, repentine disillusioni. A far da sfondo è la vita famigliare, con il padre rabbino, dottissimo ma inetto, e la madre, lucida e altera nel suo aristocratico cinismo. Villaggi sperduti nella campagna polacca, viaggi in carrozza tra boschi popolati di demoni ammiccanti e avidi santoni chasidici dominano la prima parte del libro, intrisa di stupore adolescenziale. Quando i suoi si trasferiscono a Varsavia, comincia anche per Debora una nuova stagione, quella delle tentazioni e delle promesse della metropoli. Sebbene la Singer Kreitman indulga qui al pathos romantico, sa comunque trasmettere il senso di vitalità febbrile che scaturisce dalla Varsavia degli anni Venti, centro mondiale del giudaismo, dove la vecchia cultura rabbinica si mescola e si scontra con l’attivismo socialista. Naturalmente Debora s’innamora, e altrettanto naturalmente sceglie l’uomo sbagliato. Il luciferino Shimen, a un tempo studente di yeshivah e agitatore rivoluzionario, tubercolotico e rubacuori, è forse il ritratto maschile più suggestivo del libro, metafora di tutto quanto rimarrà irraggiungibile per la protagonista. Dopo l’amore fallito, Debora sceglie il matrimonio come via di fuga dalla famiglia, e parte, con un marito che le è indifferente, per un’improbabile Anversa. Il ritmo del racconto si fa sempre più onirico, segnato da impietose scorribande nella vita privata, ben poco edificante, di ebrei bacchettoni. Cosa sperare ancora? Nulla, se non fosse che, dal nulla a cui Esther/Debora è costretta, nasce questo sommesso canto yiddish. Giulio Busi Il Sole 24 Ore |
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