Bernardo Valli, inviato a cercare conferme ai pregiudizi sul conflitto israelo-palestinese e sul Medio Oriente
Testata: La Repubblica Data: 29 giugno 2007 Pagina: 1 Autore: Bernardo Valli Titolo: «La porta stretta per Blair in Palestina»
La REPUBBLICA del 29 giugno 2007 pubblica un articolo di Bernardo Valli sulla nomina di Tony Blair a inviato del quartetto in Medio Oriente. Articolo che nulla aggiunge sulle prospettive di riuscita dell'ex premier inglese, ma molto rivela come Valli si formi le proprie opinioni sul conflitto israelo palestinese. L'articolo inizia con la citazione di un taxista palestinese che definisce Blair "un cagnolino di Bush". Prosegue con quella di un giornalista israeliano di sinistra, per il quale i guai attuali del Medio Oriente dipendono tutti dalla liberazione dell'Iraq. Segue un'amica israeliana di Valli, irritata con quanti, all'estero, sostengono il suo paese (nel caso specifico, Furio Colombo). La conclusione è una citazione di Avraham Burg e del suo recente libro antisraeliano. L'unica opinione espressa in prima persona da Valli è il luogo comune secondo il quale Abu Mazen è indebolito dai posti di blocco antiterroristici israeliani e dagli insediamenti. In proposito, citiamo un dato dal sito israele.net: "Per il 56% dei palestinesi il conflitto interno fra palestinesi rappresenta la minaccia più grave per la popolazione. Il 21% ritiene che il problema più grave sia la povertà, e solo il 12% indica l'occupazione israeliana e gli insediamenti. Il sondaggio è stato svolto dall'Istituto Truman per la promozione della pace dell'Università di Gerusalemme, in cooperazione con il Centro palestinese per la politica ed i sondaggi d'opinione di Ramallah." Ma dubitiamo molto che Valli possa essere indotto a riflettere da questo o da qualsiasi altro fatto. Il suo articolo rende evidente come intenda la professione di giornalista. Come la ricerca di conferme ai propri pregiudizi.
Ecco il testo:
La prima reazione che raccolgo è impietosa e ingiusta. «Ci mandano il cagnolino di Bush!». La radio ha appena annunciato la nomina di Tony Blair a mediatore di pace, e il palestinese al volante, sull´autostrada che da Gerusalemme porta al Mediterraneo, esprime di getto quel giudizio severo. Al quale replico elencando le virtù dell´ex primo ministro britannico. Ha carisma, ha stretti rapporti con i potenti della Terra, è dinamico, ha riconciliato nell´Irlanda del Nord cattolici e protestanti divisi da un odio non inferiore a quello tra israeliani e palestinesi. Senza dimenticare che ha governato per due mandati e mezzo uno dei più importanti Paesi del mondo. Un ex grande impero. Più tardi la mia arringa riscuote lo stesso scetticismo. In un ristorante di Tel Aviv un collega israeliano, che, certo, non è un falco, mi ricorda, tra l´altro, che, in quanto «complice» di George W. Bush nell´invasione dell´Iraq, Tony Blair non può essere considerato estraneo alla disastrosa situazione mediorientale. Beh!, ribatto, questo prova che non manca di esperienza. Non è trascurabile che i membri del «quartetto» si siano trovati d´accordo nell´affidare una missione tanto difficile a un personaggio di tanto rilievo. Il suo predecessore, James Wolfensohn, ex presidente della Banca mondiale, assunse l´incarico con entusiasmo e per qualche mese si dette da fare, ma non era neppure trascorso un anno quando, al culmine della frustrazione, gettò la spugna. Se la spunta, dice Aluf Benn (su Haaretz), Tony Blair prende il Premio Nobel per la pace. Ma non ci conti troppo. Meglio che scriva in anticipo una lettera di dimissioni da tenere a portata di mano, in cui accusa l´israeliano Olmert di testardaggine e il palestinese Abu Mazen di inefficienza. Cosi, nei momenti di sconforto, quando i suoi progetti andranno in fumo in seguito agli attacchi terroristici in Israele e alla guerra civile a Gaza, avrà pronta la lettera di congedo e potrà pensare alla casa per l´estate in Spagna o in Italia. Così scrive sempre Aluf Benn. Come si vede la nomina di Tony Blair a inviato del «quartetto» (ossia del gruppo formato da Stati Uniti, Unione Europea, Nazioni Unite e Russia, il cui obiettivo è una soluzione al dramma mediorientale), suscita non poche perplessità. Non tanto perché si dubita delle capacità del nuovo mediatore, quanto per la difficoltà dell´impresa affidatagli. Ricordate quella che una volta era la super-citata (e spero nel frattempo non stra-ammuffita) Road map? Il progetto tendente a creare una pacifica coesistenza dei due Stati, l´israeliano e il palestinese? Ebbene Tony Blair dovrebbe rispolverarlo. E quindi cominciare aiutando i palestinesi a preparare istituzioni politiche ed economiche quali fondamenta del loro futuro Stato. Tony Blair dovrebbe installarsi a Gerusalemme in luglio, cioè tra qualche giorno, e ci sono scarsissime probabilità, anzi nessuna, che la Palestina si sia nel frattempo riunificata. Benché i dirigenti di Hamas non abbiano decretato a Gaza, che controllano dai primi del mese, la nascita di uno Stato islamico, e si dichiarino pronti a dialogare con l´Autorità palestinese di Ramallah, di fatto l´ex primo ministro britannico si troverà davanti due Palestine. In una, a Gaza, le milizie di Hamas danno la caccia ai funzionari di Al Fatah sfuggiti al massacro iniziale e ai successivi arresti. Nell´altra, in Cisgiordania, Al Fatah dà la caccia agli uomini di Hamas. Il «quartetto» ha scelto, come ovvio, di appoggiare e rafforzare la Palestina laica dell´Autorità palestinese di Abu Mazen, ed esclude ogni contatto formale con la Palestina islamista di Gaza. Il mediatore si troverà al centro di una guerra civile, con marcati accenti religiosi. Il suo compito principale sarà inizialmente quello di gettare le basi per rapporti distesi tra Israele e l´Autorità palestinese (in quanto prefigurazione del futuro Stato). In sostanza di fare in modo che il laico Abu Mazen acquisti la dignità necessaria per dimostrare che egli è il vero rappresentante della Palestina. Per questo deve esercitare una reale autorità sulla Cisgiordania in cui sono insediati duecentocinquanta mila coloni israeliani e dove gli occupanti israeliani hanno cinquecento sessanta posti di blocco, che intralciano i movimenti della popolazione e la umiliano. Per andare da Ramallah a Nablus ci sono meno di cinquanta chilometri ma spesso sono necessarie tre ore e le lunghe attese ai controlli sono frustranti. Tra Ramallah e Hebron non ci sono più di sessanta chilometri ma due ore non bastano. Insieme al muro che divide Israele dai territori occupati, i cinquecento sessanta posti di blocco costituiscono un sistema di protezione contro gli attentati terroristici. Di cui, dopo la presa del potere di Hamas a Gaza, si teme la ripresa. È dunque difficile che i militari israeliani, nonostante la formale disponibilità del potere politico, allentino la presa. In questa situazione non si vede come Tony Blair possa creare nuove istituzioni palestinesi, dando loro l´indispensabile dignità e autorevolezza. Senza le quali Abu Mazen e i suoi rischiano di sembrare dei collaboratori degli occupanti. E Israele? La sera su una terrazza affacciata sulla spiaggia pettinata di Tel Aviv, con alle spalle i grattacieli illuminati, racconto a un´amica israeliana della «fine di Israele» di cui si parla in Italia. Una «fine» paventata dagli amici di Israele, risentiti o feriti anche dal fatto che lo Stato ebraico non è più circondato dal rispetto quasi sacrale di un tempo, quando scottava il ricordo, e con il ricordo il rimorso, della Shoa. L´amica non nasconde un certo fastidio nei confronti degli amici ebrei europei che vivono le cose di Israele a distanza. Per lei in Israele affiorano le virtù e i difetti («le glorie e le ignominie») comuni ai paesi sottoposti al trauma di un conflitto interminabile, che può tormentare moralmente la società. Lei sente l´orgoglio israeliano e al tempo stesso la necessità di avere rapporti con i palestinesi, tra i quali conta non pochi amici. Non tutti sentono questa necessità. Per molti israeliani quel che accade a Gaza e in Cisgiordania è una realtà lontana, che si avvicina brutalmente quando c´è un attentato o ci sono morti o feriti in famiglia o tra gli amici o i vicini. Israele vive simultaneamente l´euforia del successo e l´angoscia. La prima è evidente a Tel Aviv, oggi senz´altro una delle città più dinamiche del Mediterraneo. L´economia conosce una crescita che suscita l´invidia europea: 4,8 % nel 2006, forse più del 6% quest´anno. Il reddito pro capite (26.800 $) è alle spalle di quello delle maggiori potenze industriali europee, ed è venti volte quello dei palestinesi di Cisgiordania (che è superiore a quello di Gaza). Ma c´è anche l´angoscia. La minaccia dell´Iran nucleare. Gaza che può essere una sua pedina avanzata. C´è una dicotomia dei sentimenti. Un libro di Avraham Burg, ex presidente della Knesset (il Parlamento) e dell´Agenzia ebraica, ha suscitato scalpore. Burg parla di uno «Stato tormentato» in cui la metà degli abitanti non pensa che i figli vivranno in Israele. La sua è un´isolata esplosione di pessimismo in una società in cui l´insicurezza è dettata dalla storia. Già! Come se la caverà Tony Blair?