La "critica" di Sergio Romano a Israele e quella di Furio Colombo alla sinistra antisionista
Testata: Il Giornale Data: 27 giugno 2007 Pagina: 1 Autore: Sergio Romano - Furio Colombo Titolo: «Sionismo in crisi - La sinistra distorce la storia»
Il GIORNALE del 27 giugno 2007 pubblica parte degli interventi Sergio Romano e Furio Colombo sull'ultimo numero della rivista Aspenia.
Sergio Romano accusa la "nomenklatura ebraica" italiana di tacitare i "critici" di Israele. Curiosa rimostranza, da parte di chi quasi quotidianamente "critica" Israele sulle pagine del primo quotidiano italiano.
Romano è ovviamente libero di farlo. Altri, si spera, sono altrettanto liberi di notare che le sue "critiche " a Israele omettono sistematicamentea di valutare il comportamento di questo Stato tenendo conto delle aggressioni, militari e terroristiche, che ha subito e subisce.
Ecco l'articolo:
Nessuna delle grandi crisi mediorientali di questi ultimi anni è stata risolta. Non vi è zona del mondo in cui vi sia una più alta concentrazione di guerre, conflitti civili, terrorismo, crisi di regime, transizioni politico-costituzionali. E non vi è paese della regione in cui non vi sia, dietro la crisi internazionale in cui ciascuno di essi si dibatte, una crisi dello Stato. Nella corsia dei malati mediorientali vi è anche Israele. Per vent’anni, dopo la fine della seconda guerra mondiale, Israele fu il beniamino di una grande parte della società europea. Piaceva ai socialisti, attratti dall’entusiasmo con cui gli ebrei dell’Europa orientale avevano saputo realizzare nelle terre brulle della Palestina il socialismo slavo di Aleksandr Herzen e il programma proletario del Bund. Piaceva ai liberali e ai democratici perché confermava a posteriori la validità dei movimenti liberal-nazionali dell'Europa nel secolo precedente. Piaceva all’Europa protestante... piaceva, nonostante le riserve della Santa Sede, persino ai cattolici. Sapevamo che Israele avrebbe avuto i caratteri di uno Stato diverso, in controtendenza rispetto all’evoluzione delle democrazie occidentali dopo la fine della seconda guerra mondiale. \ Israele creava uno Stato fondato sull’appartenenza comunitaria e sulla tradizione religiosa. Ma sapevamo che questa anomalia era il risultato della storia del Novecento e che ne eravamo per molti aspetti responsabili. \ La guerra del 1967 invece segnò l’inizio di una fase in cui le ragioni dei palestinesi sarebbero state ascoltate con crescente attenzione; Israele divenne oggetto di critiche sempre più esplicite da parte di larghi settori dell’opinione pubblica occidentale. \ Il disagio cominciò a diffondersi tra persone che avrebbero fatto sempre più fatica negli anni seguenti a conciliare questi sentimenti con l'ideologia del «Grande Israele», l’invasione del Libano, i massacri di Sabra e Shatila, l'installazione dei coloni nei territori occupati. \ Le condizioni di salute dello Stato israeliano sono state poi ulteriormente aggravate dalla somma di due fattori: la politica dei territori occupati e una scienza, la demografia, che gli uomini non sono mai riusciti a governare. Dietro la continua occupazione dei territori conquistati nel 1967 vi era la convinzione che Israele dovesse controllare, per meglio garantire la propria sicurezza, un territorio più grande di quello che gli era stato assegnato dal conflitto del 1948. La questione sarebbe stata di difficile soluzione per un qualsiasi Stato europeo in una regione post coloniale. Ma il problema è diventato ancora più complicato quando le due demografie, quella ebraica e quella araba, hanno cominciato a divergere. I 300.000 arabi rimasti in Israele alla fine della guerra del 1948 sono diventati un milione e mezzo. \ È questa la ragione per cui Sharon aveva cambiato strategia e deciso di dare ai palestinesi una casa. Peccato che la casa fosse priva del tetto, vale a dire di spazio aereo, che si affacciasse sul mare ma non potesse disporre delle proprie coste e che le sue chiavi dovessero restare permanentemente nelle mani di Israele. La diaspora, nel frattempo, ha adottato un atteggiamento contraddittorio. \ Ha delegato la propria rappresentanza a una nomenklatura che considera antisemita ogni critica indirizzata alla politica israeliana e pretende la redazione di una nuova storia europea del Novecento, scritta alla luce di un solo criterio: l’atteggiamento verso gli ebrei dei governi, degli uomini politici, degli intellettuali. Soggetti a queste pressioni, i governi europei hanno proclamato «giorni della memoria», dedicati alla commemorazione del genocidio ebraico, hanno costruito memoriali, hanno aperto musei della Shoah e hanno approvato leggi che puniscono con il carcere il diniego del genocidio. \ Il maggior bersaglio di questa nomenklatura, da qualche anno, è la chiesa di Pio XII. Per alcune settimane, agli inizi del 2006, il Corriere della Sera ha aperto le sue pagine culturali alla discussione su un documento apparentemente inviato da Pio XII nel 1946 a monsignor Angelo Roncalli, nunzio a Parigi. Un anno dopo la fine della seconda guerra mondiale, secondo il testo di questo promemoria redatto in francese, il papa avrebbe dato istruzioni al futuro Giovanni XXIII di evitare la restituzione alle famiglie dei bambini ebrei custoditi da istituzioni religiose e battezzati durante il conflitto. Le reazioni furono immediate e severe. Qualcuno chiese al Vaticano di interrompere il processo di beatificazione di Pio XII. \ Fu accertato più tardi che il documento non proveniva dalla Santa Sede e che la segreteria di Stato aveva semplicemente suggerito alla nunziatura di evitare la restituzione dei bambini battezzati a istituzioni ebraiche che non potessero accampare su di loro alcun diritto. Da allora abbiamo assistito ad altri dibattiti fra cui quello recente sull'atto d'accusa, in forma di didascalia, che accompagna la fotografia di Pio XII in una sala di Yad Vashem, la grande istituzione di Gerusalemme creata nel 1953 in memoria dell'Olocausto. Chi ha sollevato il problema dell'influenza esercitata da queste nomenklature è stato spesso bersaglio di critiche acrimoniose. \ Fra questo revisionismo ebraico e la politica unilaterale perseguita da Israele, con una breve parentesi, dall'assassinio di Rabin in poi, esiste probabilmente una relazione. \ Quanto più Israele perseguiva una politica unilaterale e chiudeva la porta a una soluzione equilibrata della questione palestinese, tanto più le nomenklature ritenevano necessario correre in suo aiuto. I difensori di Israele si sono moltiplicati per evitare la ripetizione del passato. Ma accanto alla ripetizione del passato esiste un altro rischio, non meno grave: quello a cui si espongono coloro che applicano le lezioni del passato a situazioni completamente diverse.
Per quanto riguarda la posizione di Furio Colombo, rimandiamo ai commenti qui riportati.
Ecco il testo:
Ricordo una sera d’estate - il 17 luglio del 2006 - in cui in tanti, ebrei e non ebrei, ci siamo raccolti davanti alla sinagoga di Roma, ci siamo arrampicati su una pedana e abbiamo detto sdegno e tormento per le parole di Ahmadinejad, presidente dell’Iran, che aveva lanciato la parola d’ordine «cancellare Israele». Abbiamo detto sostegno a Israele attaccata dal Libano. \ L’applauso più grande, più lungo, ha salutato Gianfranco Fini. Fini ha fatto molte cose per meritare quell’applauso nella sua vita politica. Ma la sua vita politica è stata iniziata da Giorgio Almirante, segretario della rivista La difesa della razza, appena una generazione fa. Dalla folla alcuni giovani hanno gridato in coro - benché brevemente - «Vinceremo». È stato come un capogiro, una vibrazione triste che per un istante è sembrata salire da quella folla. C’era come un cortocircuito nel tempo e nello spazio. L’abbandono della sinistra stava provocando una caparbia rivalsa. Rivalsa che si manifesta quando gli ebrei di Roma si stringono intorno a Fini. Si manifesta quando - uno a uno - rappresentanti e leader di Berlusconi si susseguono passandosi il microfono per dire che c’è un legame tra Prodi e gli estremisti islamici. E tutto porta ovazioni, come se si stesse discutendo davvero della vita di Israele. Il dirottamento funziona. Come un treno sullo scambio sbagliato, il convoglio di quella notte - che avrebbe potuto chiamarsi «con la destra per Israele» - correva con qualcuno di noi, la sinistra, aggrappato fuori. Ma la sinistra era altrove - a denunciare Israele e la sua guerra - immaginata come una option crudele. Chiunque abbia avuto occasione di discutere di Israele in uno dei dibattiti organizzati dalla sinistra italiana, sa di dovere rispondere a tre domande ricorrenti: doveva proprio esserci uno Stato di Israele? Doveva proprio essere lì? È stato il solo nuovo paese nato in terra d’altri? Ricordo ancora uno di quei dibattiti, alla Festa dell’Unità di Pesaro, nell’ottobre 2006. E ricordo gli argomenti che ho usato allora, per tentare di risvegliare una sorta di oblio delle coscienze democratiche. Primo argomento: il racconto del rastrellamento e della deportazione degli ebrei nella notte del 16 ottobre 1943, quando fu una principessa romana - avvertita di quanto stava accadendo - a informare a sua volta la Santa Sede. Avendo accesso in Vaticano, la principessa chiedeva di informare al più presto il papa. Il cardinale Maglione si limitava però a convocare per un colloquio l’ambasciatore tedesco a Roma, Rahn. Alla principessa disse: «Non possiamo avvertire nessuno. Non c’è un consolato degli ebrei a Roma». \ Non c’era uno Stato; sarebbe servito a evitare il ripetersi di quella tragedia. Per fare capire perché Israele dovesse nascere, e proprio lì, ho usato come molte altre volte un’analogia utile, quella con il Risorgimento italiano. Ricordiamo prima la semplicità dei fatti, che pare rimossa. Gli israeliani hanno preso un piccolo pezzo di Palestina, quando era territorio non di uno Stato palestinese, che non esisteva, ma dell’ex impero ottomano reclamato come proprio dalla Giordania e occupato dalle truppe e dall’amministrazione dell'impero britannico. Lo hanno fatto su mandato delle Nazioni Unite. Nello stesso giorno veniva istituito un piccolo Stato palestinese - altrettanto nuovo e mai esistito prima, appunto - che però tutti gli arabi (non i palestinesi, ma il potere dei grandi paesi arabi petroliferi dell’area) hanno rifiutato, iniziando subito una catena di guerre. Dopo una di quelle guerre per stroncare subito l’invasione egiziana, giordana, siriana e libanese, gli israeliani hanno conquistato e dichiarato israeliana Gerusalemme. Che cosa c’è di diverso dalle guerre del Risorgimento italiano che - una dopo l’altra - hanno aggregato pezzi di territorio che non erano mai stati «italiani»? Israele ha bensì realizzato un proprio autonomo sogno risorgimentale (detto «sionismo», o ritorno alla terra degli ebrei), ma ha occupato e preso possesso di una piccola parte di quella terra solo dopo un voto e una autorizzazione - bilanciata da autorizzazione equivalente stabilita per gli abitanti della Palestina - delle Nazioni Unite. \ La definizione di «Stato palestinese» è stata proposta per la prima volta dalle Nazioni Unite; e quello è il solo - insieme allo Stato ebraico - che sarebbe nato in quell’area sotto (egida delle Nazioni Unite e per voto dell’Assemblea generale e non come decisione arbitraria degli ex dominatori coloniali (Inghilterra e Francia), come Egitto, Giordania, Siria, Libano, Irak e Kuwait. È difficile dunque contestare questa risposta alla terza domanda ricorrente («è uno Stato che ha soppiantato un altro Stato?»). Quando è nato lo Stato di Israele non c'era uno Stato palestinese. Uno Stato palestinese è stato proposto per la prima volta contestualmente dalle Nazioni Unite nelle stesse dimensioni e con le stesse risorse di Israele e con la stessa data di nascita. Ma è stato rifiutato dalle potenze arabe dell’area che avevano voci e mezzi per fare la guerra e hanno deciso di farla usando i palestinesi E tutti i dati storici, in ogni incontro, in ogni dibattito, in ogni convegno o manifestazione popolare per la Palestina, appaiono cancellati dai segni molto forti della legittima ma penetrante propaganda palestinese. In essa, come in tutte le storie di rivendicazione, i fatti sono alterati. \ La sinistra italiana è rimasta ferma, con un irremovibile impegno, che non varia quando inizia la strage delle bombe umane negli autobus israeliani; che definisce «muro della vergogna», o «muro dell’apartheid», il muro che ha posto fine a quelle stragi quotidiane per le strade delle città israeliane. La sinistra italiana non ha mai notato il tempo in cui le madri israeliane dovevano dividere i figli fra un autobus e un altro, sperando che almeno uno dei figli tornasse vivo. \
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