Tutto bene nell'islam europeo, compreso Tariq Ramadan le poco credibili rassicurazioni di Massimo Campanini
Testata: Avvenire Data: 27 giugno 2007 Pagina: 32 Autore: Edoardo Castagna Titolo: ««SENZA PARITÀ SI RISCHIA LA DERIVA ISLAMISTA»»
L'islamista Massimo Campanini, intervistato da AVVENIRE del 27 giugno 2007, ci rassicura. L'islam europeo non ha connessioni con il terrorismo, non vuole fare proselitismo, la "reinvenzione della tradizione" da parte dei fondamentalisti non è un fenomeno negativo... Le colpe sono tutte dei paesi europei, che non fanno abbastanza per "integrare" i musulmani dando loro "pari opportunità".
Le rassicurazioni di Campanini sarebbero più efficaci se non fossero accompagnate dalla negazione di fatti noti. E' noto per esempio che Tarq Ramadan dissimula quando scrive o parla per un pubblico occidentale, il duro messaggio fondamentalista, di conquista dell'Occidente, che rivolge al pubblico musulmano. Che "comprende" il terrorismo contro i civili israeliani. Che compila liste di proscrizione degli intellettuali ebrei favorevoli a Israele.
E' noto che in alcune moschee si predicano l'odio, la violenza, l'instaurazione della sharia.
Negare questi fatti non serve alla causa dell'integrazione dei musulmani, ma solo a quella di gruppi totalitari, come i Fratelli muslmani, che per meglio perseguire i loro obiettivi hanno bisogno di una cortina fumogena di disinformazione.
Ecco il testo:
L'islam europeo c'è, ma non si vede. Massimo Campanini, islamista autore fra l'altro del saggio Il pensiero islamico contemporaneo (Il Mulino), sottolinea come, nonostante i tanti attacchi e le accuse più o meno velate di collusione con il terrorismo fondamentalista, le figure di spicco del nuovo islam d'Europa non riescano - o non vogliano? - far conoscere ai più le loro proposte. Nemmeno le più moderate: «L'islam europeo sta cercando di costruire una rete tra le varie organizzazioni presenti nei singoli Paesi - il Fioe, Federazione delle organizzazioni islamiche in Europa - per costruire un proprio ruolo di cittadinanza. Nella prospettiva di essere musulmani, sì; ma musulmani in Europa, nuova casa dell'islam». Il fine è il proselitismo? «Assolutamente no. Ma si sentono contemporaneamente cittadini europei e musulmani perché, giunti ormai alla terza generazione, non hanno più un legame diretto con il Paese d'origine dei loro nonni. Sfruttano anche il fatto che in Europa hanno spazi associativi che nei loro Paese spesso non ci sono. Poi, una contraddizione in effetti c'è». Quale? «Quella del tentativo di contemperare la tradizione islamica con il contesto europeo, estraneo a quella tradizione. Nella ricerca di una simile espressione ideologica attraversano una crisi di adattamento e d'identità» Il rischio è quello di una sorta di invenzione della tradizione? «Sì, anche se non parlerei, propriamente, di "rischio". Non è detto che questa re-invenzione sia necessariamente negativa. Il fenomeno esiste, senza dubbio, ma non lo enfatizzerei troppo: per esempio, mettersi il velo come scoperta di identità è un passaggio più frequente tra le neoconvertite italiane, che non tra le arabe immigrate. Il vero problema, invece, è l'ambiente ostile che, in Italia come in tutta Europa, si respira contro le espressioni dell'islam». In che senso? Troppo spesso si bollano come terroristi, o fiancheggiatori dei terroristi, intellettuali musulmani come, per fare un esempio, Tariq Ramadan. Allo stesso modo, si squalifica spesso come "sciocchezza" la carta dei valori proposta dalla Consulta islamica italiana. Problemi ce ne possono anche essere, dal burqa alla poligamia: tuttavia, secondo me, non si tratta tanto di un problema di valori, quanto di questioni giuridiche, in qualche modo risolvibili attraverso un compromesso. Anche se in effetti un problema di interlocutori esiste, per una religione priva di gerarchia come quella islamica». Resta però il fatto che, per esempio, anche gli attentatori del 7 luglio 2005 a Londra erano musulmani nati e cresciuti in Europa... «È vero, e aggiungo anche le rivolte delle banlieues, quasi tutte islamiche. Ma qui il problema di fondo è il fallimento di certi modelli di integrazione. Perché integrazione non vuol dire avere un passaporto, ma pari opportunità».
Per inviare una e-mail alla redazione di Avvenire cliccare sul link sottostante lettere@avvenire.it