Analisi e cronache per dare ogni responsabilità a Israele per la debolezza di Abu Mazen, per la sorte di Gilad Shalit, per il fondamentalismo islamico...
Testata: La Repubblica Data: 26 giugno 2007 Pagina: 1 Autore: Bernardo Valli - Alberto Stabile Titolo: «IL MIRAGGIO PALESTINESE - Faccia a faccia Olmert-Abu Mazen ma Sharm non sblocca il negoziato - Gaza, gli appelli choc dei rapiti»
Tocca a Israele salvare il "miraggio" di uno Stato palestinese e rafforzare Abu Mazen. Eliminando subito misure prese per tutelare la sicurezza dei suoi cittadini ( i posti di blocco) e facendo subito concessioni su questioni che dovrebbero essere oggetto di negoziato (lo smantellamento degli insediamenti in Cisgiordania). D'altro canto, tutto ciò che di negativo è accaduto, accade ed accadrà in Medio Oriente, è una colpa di Israele. Il fondamentalismo islamico e la rivoluzione khmoeinista del 1979, per esempio, sono una conseguenza della sconfitta del "nazionalismo arabo" nel 1967. E' l'analisi di Bernardo Valli sulla REPUBBLICA del 26 giugno 2007.
Il nazionalismo arabo, trascurabile particolare, nutriva verso Israele la medesima volontà di annientamento del fondamentalismo islamico. Nasser e Arafat, d'altro canto, non erano certo estranei a una matrice ideologica antioccidentale sostanzialmente jihadista.
Il fallimento del panarabismo e del nazionalismo palestinese "laico" nel conseguire i risultati che la loro propaganda di odio aveva promesso alle masse arabe (distruzione di Israele, rivalsa sull'Occidente), ha contribuito all'ascesa dei fondamentalisti, che promettono di conseguire gli stessi obiettivi con altri mezzi.
Il problema, ovviamente, non sta nel fatto che Israele si è difesa e si difende. Ma in un progetto politico esclusivamente improntato alla distruzione. Che troppi intellettuali e giornalisti in Occidente non hanno mai denunciato. E' anche per coprire le proprie responsabilità intellettuali, si può supporre, che continuano a dare ogni colpa e ogni responsabilità a Israele, anche quando l'evidenza dei fatti li ha ormai ripetutamente smentiti.
Ecco l'articolo:
La domanda è inevitabile. È brutale, lo so. Ma sono venuto per questo e la pongo subito senza addolcirla con qualche preambolo. Lei crede ancora possibile la nascita di uno Stato palestinese indipendente? Mentre pronuncio queste parole, mi rendo conto che è come se chiedessi a un cardinale, in Vaticano, se crede sul serio nel paradiso. Il mio interlocutore, un consigliere di Abu Mazen, il presidente dimezzato da quando la rivale Hamas comanda a Gaza, chiude per un istante gli occhi, poi rivolge lo sguardo verso la finestra affacciata sul cortile stretto da un alto muro di cinta, più volte sfondato dai mezzi blindati israeliani, quando la Moqata era la residenza di Arafat, e puntualmente rappezzato, ricostruito, e dipinto di bianco. Un bianco candido su cui batte il sole spietato di mezzogiorno, a Ramallah, creando una luce abbagliante che invade l´ufficio sobrio, angusto come una cella. Un tempo la Moqata, sede della presidenza dell´Autorità palestinese, era anche un carcere. «Se non ci credessi non sarei qui. Lei dovrebbe chiedermi quando penso che sarà realizzabile. Tra un anno? Tra trent´anni? Tra quaranta? Non lo so. Ma non c´è un´alternativa alla nascita di uno Stato palestinese indipendente». E poiché, mentre aumenta il numero di anni che potrebbero passare prima della creazione di una Palestina indipendente, il mio interlocutore continua a sfidare con lo sguardo il vuoto abbagliante della luce di mezzogiorno che irrompe dalla finestra, ho l´impressione che stia inseguendo un miraggio. E quel miraggio non ha certo cominciato a prendere consistenza, a concretizzarsi, ieri sera a Sharm el-Sheikh, dove Abu Mazen e Ehud Olmert, il primo ministro israeliano, hanno ripreso a parlarsi, sotto gli sguardi benevoli di Hosni Mubarak, il presidente egiziano, e di re Abdullah di Giordania. L´appuntamento era necessario. Indispensabile. Ma ci vuol altro. Non basta certo la liberazione di duecentocinquanta detenuti politici minori (sulle parecchie migliaia), o lo sborso di dollari dovuti (perché diritti doganali palestinesi percepiti dagli israeliani) per cambiare il corso della storia. Affacciare l´ipotesi, come sto facendo, che lo Stato palestinese sia soltanto un miraggio, assomiglia a una provocazione. In un certo senso lo è. Equivale infatti a negare la possibilità di risolvere il dramma dei due popoli incapaci di vivere in pace uno accanto all´altro. Quindi a rassegnarsi all´ingiustizia e all´insicurezza che oggi prevalgono. Nell´ormai lunga storia che mette a confronto quei popoli, il principio di una Palestina indipendente a fianco dello Stato ebraico costituisce un formidabile progresso. In un tempo non tanto lontano da un lato si negava l´esistenza dei palestinesi; e dall´altro si lasciava sulle carte geografiche una macchia bianca al posto di Israele. Oggi perfino l´Arabia Saudita si dice pronta a riconoscerlo, in cambio di uno Stato palestinese. Ma quest´ultimo risulta di fatto irrealizzabile, anche se tanti governi responsabili, a partire da quello della superpotenza, lo considerano un obiettivo inevitabile. Adesso a renderlo ancor più irrealizzabile, perlomeno nel futuro scrutabile, è la lotta aperta, fratricida, tra palestinesi laici e islamisti. La tragedia di Gaza dove Hamas, nata dalla confraternita dei Fratelli musulmani vent´anni fa, ha cacciato Al Fatah, è un´estensione della dura tenzone tra i musulmani che interpretano il Corano, sia pur con diversa intensità, come il testo di una legge sacra e inderogabile, e i musulmani che al contrario non considerano la fede religiosa un dogma da applicare come un codice. Un conflitto del genere è esploso soprattutto in Algeria dove gli integralisti, dopo essere stati sul punto di prevalere prima con il voto e poi con le armi, sono infine stati sconfitti. Altri paesi, in particolare l´Egitto, hanno conosciuto confronti sanguinosi. Ed è comunque raro trovare una società araba, o musulmana, dove lo scontento, le frustrazioni non rafforzino il fondamentalismo, a volte nelle sue forme più radicali e violente. Il confronto in Palestina è una tragedia nella tragedia. Il conflitto tra integralisti e laici comprende la questione essenziale del riconoscimento dello Stato ebraico, già formalmente compiuto dall´Olp di Abu Mazen, mentre per gli islamisti di Hamas il rifiuto è teologico, anche se non esclude lunghe «tregue». Tregue che Israele non può accettare. Hamas è cresciuta grazie all´inefficienza, alla corruzione, ed anche all´incapacità o all´impossibilità dell´Olp, di cui Al Fatah è la componente maggiore, di trarre gli attesi vantaggi dall´agitato, convulso rapporto con Israele, dopo gli accordi di Oslo, sottoscritti nel remoto 1993, dal generale Rabin, assassinato poco dopo da un estremista israeliano, e da Arafat, poi ritornato al terrorismo della Seconda Intifada. La situazione mediorientale evolve con una rapidità che supera, travolge spesso i pronostici più azzardati. Se la sconfitta del nazionalismo arabo nella guerra del ‘67, di cui si è appena ricordato il quarantesimo anniversario, ha dirottato tante energie frustrate verso il fondamentalismo radicale, e poi il terrorismo, la rivoluzione (a ritroso, cioè verso l´oscurantismo) di Khomeini nel ‘79 ha condotto alla nascita della prima grande repubblica islamica. E quel regime, pur non essendo né arabo né sunnita, ha saputo infiltrarsi nelle correnti integraliste del mondo musulmano, fino a raggiungere nei nostri giorni un grande prestigio con la sua (non irrealizzabile) ambizione di dotarsi di un´arma atomica. Gli alleati libanesi degli iraniani, gli hezbollah che hanno tenuto a bada l´esercito israeliano l´estate scorsa, hanno avuto un impatto propagandistico enorme tra coloro che vedono nella violenza la sola soluzione per uscire dalla frustrazione. Gli uomini di Hamas, con la bandana e il kalashnikov, possono accendere tante illusioni, prima che prevalga la dura realtà. L´Iran è approdato anche a Gaza? Senz´altro sono arrivati i suoi soldi. E con i soldi, dicono a Ramallah, i collaboratori di Abu Mazen, si comperano le armi di contrabbando. La condanna unanime di Hamas da parte dei governi arabi moderati dimostra il timore di vedere, se non proprio un bastione iraniano, perlomeno un potere armato sunnita sotto l´influenza dell´Iran sciita, su un territorio palestinese con un milione e quattrocentomila abitanti. Nelle capitali arabe fa paura la rinascita sciita, favorita dall´invasione americana dell´Iraq che ha portato al governo a Bagdad i partiti sciiti nati a Teheran durante la dittatura del sunnita Saddam Hussein. La questione palestinese è passata in secondo piano. Come recuperare adesso, o neutralizzare, Gaza, in quanto virtuale pedina iraniana? La sola soluzione è dare mezzi e dignità all´Autorità Palestinese e alle forze laiche che la compongono. Aiutare dunque i laici nel confronto con gli islamisti. Non si tratta soltanto di aiuti economici. Abu Mazen non deve apparire il "traditore", il collaborazionista al servizio degli occupanti israeliani, come lo dipinge la propaganda di Hamas, che lo paragona al capo delle milizie locali di cui Israele si serviva quando occupava il Sud del Libano. Per dargli autorità e dignità, Israele deve lasciare ad Abu Mazen la possibilità di amministrare la Cisgiordania senza essere sottoposto alla stretta occupazione militare. Deve sopprimere o ridurre i posti di controllo, che umiliano uomini e donne e riducono i traffici. E limitare gli insediamenti, in cui vivono secondo le statistiche 250 mila coloni. È quello che gli alleati americani hanno suggerito più volte al governo di Gerusalemme. La dignità di Abu Mazen darebbe contorni precisi a quel miraggio che resta, per il momento il vagheggiato Stato palestinese. A pagina 9 Alberto Stabile ha scritto un articolo per sminuire i passi compiuti da Israele a sostegno di Abu Mazen. "Scontati" ( l´assistenza umanitaria ai palestinesi di Gaza), "di scarsa o nessuna efficacia" ( la liberazione di detenuti di al Fatah che non hanno le mani sporche di sangue)" che "rischiano di sortire l´effetto opposto a quello proclamato da Olmert di rafforzare i palestinesi moderati" ( i permessi di viaggio in Israeleper i vip e gli uomini d´affari , il trasferimento di mezzi blindati alle forze di al Fatah in Cisgiordania), poco "generosi"... L'articolo, con ogni evidenza, non è scritto per informare su quali passi sono stati fatti a Sharm El Sheik, ma per convincere i lettori che non sono sufficienti. La domanda "che cosa ottiene Israele in cambio, concretamente", non viene neanche posta. Ecco il testo:
GERUSALEMME - Ehud Olmert voleva un´atmosfera che impressionasse il mondo arabo, Abu Mazen cercava, invece, un nuovo inizio del processo di pace, con scadenze precise e obiettivi chiari. Non c´è stato né l´uno, né l´altro, né la foto memorabile, né la svolta concreta. L´ennesimo vertice a Sharm el Sheikh, sotto gli auspici del rais egiziano, Hosni Mubarak, e del re giordano, Abdallah II, ha prodotto soltanto qualche «gesto di buona volontà». Tra l´altro, il premier israeliano si è impegnato a liberare 250 detenuti palestinesi membri di al Fatah a condizione che «non abbiano sangue nelle loro mani» e s´impegnino a non tornare alla violenza. Nella conferenza stampa finale, Olmert non ha accennato al proposito, fatto trapelare alla vigilia sui maggiori giornali israeliani, di restituire ad Abu Mazen parte degli oltre seicento milioni di dollari in tasse e tariffe doganali raccolti per conto dell´Autorità palestinese e trattenuti da Israele nel contesto delle misure di boicottaggio economico attuate dopo la vittoria di Hamas alle elezioni del gennaio 2006. Ma è possibile che questo "gesto" sia stato lasciato volutamente nel vago. Le altre decisioni, o sono scontate, come quella di continuare l´assistenza umanitaria al milione e trecentomila palestinesi intrappolati nella Striscia di Gaza, o rischiano di sortire l´effetto opposto a quello proclamato da Olmert di rafforzare i palestinesi moderati. Citiamo la scelta di emettere nuovi permessi di viaggio in Israele per i vip e gli uomini d´affari e l´altra di trasferire i mezzi blindati alle forze di al Fatah in Cisgiordania. Una delle richieste cui il presidente palestinese teneva in modo particolare, ridurre gli oltre cinquecento posti di blocco che impediscono ai palestinesi di muoversi da città a città, e persino da villaggio a villaggio nella West Bank, è stata respinta dal consiglio dei ministri israeliano tenutosi alla vigilia del vertice. E dunque, neanche di questo Olmert ha fatto cenno nelle sue dichiarazioni. Piuttosto, il premier israeliano, pur evitando d´impegnarsi a rispettare una vera e propria agenda di lavori volta a rilanciare il negoziato, ha cercato di inserire l´incontro di Sharm in un´atmosfera favorevole. «Sono ottimista - ha detto - . Penso che, specialmente in questi giorni turbolenti, è stata creata un´opportunità per spostare seriamente in avanti il processo di pace regionale. Non lascerò scivolare via questa possibilità». Molto si parlerà dei 250 detenuti che Olmert s´è impegnato a liberare, previa approvazione del governo. O fra di loro c´è una personalità del calibro di Marwan Barguti, il capo dei Tanzim condannato a cinque ergastoli, e l´accenno del premier ai detenuti non condannati per reati di sangue sembrerebbe escluderlo, o la misura sarà di scarsa o nessuna efficacia. Ariel Sharon, al vertice di Sharm el Sheikh del marzo 2005 che portò alla tregua fra tutte le formazioni armate palestinesi, eccetto la Jihad islamica, e Israele, fu più generoso di Olmert: fece liberare cinquecento prigionieri, tutti pesci piccoli che dopo qualche mese furono nuovamente arrestati. Vista la grave crisi che si aperta in seno all´Autorità palestinese, di fatto spaccata in due, con un governo di emergenza, quello guidato da Salam Fayyad a Ramallah, e un potere di fatto, quello esercitato da Hamas sulla Striscia di Gaza, i «gesti di buona volontà» servono a poco. In serata in un comunicato diffuso dall´ufficio di Ismail Hanyieh, il leader di Hamas ha ribadito che il movimento islamico è pronto a prendere parte «immediatamente» a negoziati con i rivali di Fatah, come suggerito da Mubarak. Abu Mazen ora può sperare di riconquistare Gaza solo se il milione e trecentomila palestinesi intrappolati nella Striscia vedranno che vale la pena stare con al Fatah. Ma per questo occorre ripartire con un negoziato che porti ad un accordo finale, cosa che gli Stati Uniti vorrebbero, il Quartetto (di cui presto vedremo all´opera il nuovo inviato in Medio Oriente, l´ex premier britannico Tony Blair) propone, ma Israele non sembra ancora pronto a sottoscrivere.
Un altro articolo di Stabile a pagina 9 riporta le parole di Gilad Shalit nel messaggio diffuso da Hamas. Le condizioni drammatiche in cui quelle parole sono state pronunciate non vengono richiamate. E' chiaro che l'intento propagandistico di Hamas è far gravare su Israele la responsabilità della sorte di Shalit su Israele. Far ricadere sul ricattato il biasimo morale che dovrebbe essere rivolto al ricattatore. Stabile, così prodigo di opinioni , analisi e critiche sul comportamento di Israele, non ha invece nessun commento da fare in proposito. Ecco l'articolo:
GERUSALEMME - «Sono Gilad, figlio di Noam Shalit, prigioniero dei Mujahiddin. Mamma e papà, sorella e fratello, commilitoni dello Tsahal, vi mando i miei saluti e ho nostalgia di tutti voi». Così comincia il messaggio audio diffuso ieri da Hamas, a un anno esatto dalla cattura del caporale israeliano Gilad Shalit e a poche ore dal vertice di Sharm el Sheikh. Una registrazione, dunque, destinata ad emozionare il pubblico israeliano, e al tempo stesso ad interferire nell´incontro di Sharm el Sheikh. Non è questa l´unica "corrispondenza" dai covi di tenebra di Gaza. Anche i rapitori del giornalista della Bbc, Alan Johnston, si erano fatti vivi, 24 ore prima, con un video dell´ostaggio ripreso con addosso un giubbotto da kamikaze. Il giornalista spiega che è il caso di abbandonare ogni ipotesi di soluzione di forza per tornare ai negoziati: «I miei rapitori mi dicono che faranno detonare il giubbotto che indosso se qualcuno tenterà di fare irruzione qui. Trasformeranno questo luogo in un luogo di morte». Ma a trarre motivo d´imbarazzo da questo video, stavolta, è Hamas, che anche ieri è tornato a promettere la liberazione di Johnston «con ogni mezzo». La voce di Gilad Shalit, che il padre ha riconosciuto come autentica, è monotona e, nonostante il drammatico contenuto del messaggio, senza emozione. Il giovane caporale (promosso sergente durante la prigionia) evidentemente legge un testo. E dice, innanzitutto, che il suo stato di salute peggiora e ha bisogno di un ricovero in ospedale. Shalit, oggi ventenne, venne ferito durante l´attacco alla sua postazione al confine con la Striscia di Gaza e fu trascinato via sanguinante dal commando composto da miliziani delle Brigate Ezzeddin el Kassam (Hamas), dei Comitati di Resistenza popolare e dell´Esercito dell´Islam, due milizie anch´esse riconducibili ad Hamas, o sotto l´ala del Movimento islamico. Scopo immediato del messaggio è spingere Israele ad assumere un atteggiamento più morbido nella trattativa per la liberazione dell´ostaggio. Dice Shalit: «Sono spiacente della mancanza d´interesse del governo israeliano e di Tsahal (l´esercito) per la mia situazione e della mancata accettazione delle richieste delle Khataeb (Brigate) el Kassam. Tali richieste devono essere accettate». Il messaggio si conclude con un riferimento a un possibile scambio («Come io ho dei genitori, anche le migliaia di detenuti palestinesi hanno madri e padri a cui devono essere restituiti») e di fiducia: «Ho grandi speranze che il mio governo s´interessi maggiormente a me e accetti le richieste dei mujahiddin». A parte una lettera alla famiglia dello scorso settembre, questo è il solo messaggio di Shalit dalla prigionia.