L'ESPRESSO non ha tradotto e pubblicato il bell' articolo di Thomas Friedman sul boom economico israeliano, che tra l'altro evidenziava la forza e la vitalità di una società aperta come Israele di fronte alla sfida del totalitarismo genocida iraniano, ma ha tradotto e pubblicato la replica di Naomi Klein.
Il "petrolio" di Israele, sostiene la saggista no-global, non è la creatività, ma la "guerra al terrorismo".
Naomi Klein riduce falsamente l'industria tecnologica israeliana a quella militare, trascura le applicazioni civili delle tecnologie nate per la difesa e la sicurezza.
Ma soprattutto occulta il fatto che la necessità di difendersi dall'aggressione terroristica non è un'invenzione di avidi capitalisti israeliani, ma la conseguenza della scelta di guerra dei dirigenti palestinesi.
Un esempio di livoroso propaganda, che i ricorda i tempi in cui i sovietici indicavano nel "complesso militar-industriale" americano la radice di ogni male, appoggiavano i "pacifisti" a senso unico e installavano missili atomici in Europa:
Ecco il testo dell'articolo.
Gaza nelle mani di Hamas e miliziani incappucciati sulla poltrona del presidente. La Cisgiordania al collasso. L'esercito israeliano che in tutta fretta predispone accampamenti sulle Alture del Golan. Un satellite spia che sorvola Iran e Siria. Il rischio di una guerra contro gli Hezbollah a breve scadenza. Una classe politica travagliata dagli scandali che deve far fronte a una perdita totale di fiducia da parte dell'opinione pubblica.
Di primo acchito, le cose non vanno granché bene per Israele. Ecco palesarsi però un interrogativo: perché nel bel mezzo di tale caos e di tale carneficina l'economia israeliana è in pieno boom come fosse il 1999? Perché il suo mercato azionario è in rialzo e i suoi tassi di crescita si avvicinano a quelli della Cina?
Qualche giorno fa sulle pagine del 'New York Times' Thomas Friedman ha illustrato una sua teoria in proposito. Israele "sostiene e premia l'inventiva individuale", e di conseguenza gli israeliani sfornano a getto continuo ingegnose start-up high tech, a prescindere dallo sconquasso causato dai politici israeliani. Dopo aver letto attentamente i progetti elaborati dagli studenti delle facoltà di ingegneria e informatica dell'Università Ben Gurion, Friedman ha fatto una delle sue celebri dichiarazioni sibilline: "Israele ha scoperto il petrolio". Il petrolio, apparentemente, si trova nei cervelli dei "giovani innovatori e dei venture capitalist" israeliani, troppo impegnati a stringere accordi megagalattici con Google per lasciarsi fermare dalla politica.
Ecco un'altra teoria: l'economia israeliana non è in piena espansione malgrado il caos politico che fa incetta di titoli sulle prime pagine dei giornali, ma grazie a esso. Questa fase di sviluppo risale alla metà degli anni Novanta, quando Israele era all'avanguardia nella rivoluzione informatica, era l'economia più dipendente al mondo dalla tecnologia. Quando nel 2000 è scoppiata la bolla delle dot-com, l'economia israeliana ne è rimasta sconvolta, e ha dovuto affrontare il suo peggior anno dal 1953. Poi è stata la volta dell'11 settembre, e all'improvviso si sono aperte nuove rosee prospettive per qualsiasi società dichiarasse di poter consentire l'individuazione di terroristi in mezzo alla folla, rendere le frontiere impermeabili a un attacco e ottenere confessioni da prigionieri dalla bocca cucita.
Nel volgere di tre anni, buona parte dell'economia israeliana basata sull'high tech si è completamente riconfigurata allo scopo di soddisfare le nuove esigenze. Per dirla con Friedman, Israele è passato dall'aver inventato strumenti di networking per un 'mondo piatto' a vendere barriere a un pianeta di apartheid. Molti degli imprenditori di maggior successo del Paese sfruttano lo status di Stato-fortezza di Israele, circondato da nemici agguerriti, come una sorta di showroom aperto ventiquattro ore al giorno, esempio tangibile di come godere di una sicurezza relativa nel pieno di una guerra senza tregua. Il motivo per il quale Israele sta vivendo una supercrescita è che queste aziende stanno attivamente esportando questo modello in tutto il mondo.
Quando si parla di traffici di armi di Israele di solito ci si concentra sul flusso di armi che entrano nel Paese, per esempio i bulldozer Caterpillar di fabbricazione statunitense utilizzati per distruggere le case in Cisgiordania, oppure le aziende britanniche che forniscono componenti per gli F-16. Si trascura invece di prendere in considerazione il business delle esportazioni israeliane, considerevole e in espansione. Attualmente Israele spedisce negli Stati Uniti prodotti per la difesa per 1,2 miliardi di dollari. Un incremento non indifferente rispetto ai 270 milioni di dollari del 1999. Nel 2006 Israele ha esportato nel complesso 3,4 miliardi di dollari di articoli per la difesa, di molto superiori al miliardo di dollari che riceve in aiuti militari dagli Stati Uniti. Tutto ciò rende Israele il quarto commerciante d'armi al mondo, tanto da aver scavalcato la Gran Bretagna.
Buona parte del suo sviluppo è avvenuto nel cosiddetto settore della sicurezza interna. Prima dell'11 settembre, la sicurezza interna quasi non esisteva come industria. Alla fine di quest'anno le esportazioni israeliane in questo settore raggiungeranno invece 1,2 miliardi di dollari, con un aumento del 20 per cento. I prodotti e i servizi più importanti sono recinzioni high tech, droni senza pilota, rilevatori biometrici di intrusione, dispositivi di sorveglianza video e audio, sistemi di identificazione dei passeggeri dei voli aerei e di interrogatorio dei prigionieri, tutti apparecchi e tecnologie che Israele ha utilizzato per sigillare i territori occupati.
Ed ecco presto spiegato per quale motivo il caos di Gaza e del resto della regione non pregiudica le entrate a Tel Aviv, anzi, di fatto potrebbe addirittura rimpinguarle. Israele ha appreso a trasformare quella guerra infinita in un brand asset, arrivando a considerare lo sradicamento, l'occupazione e il contenimento del popolo palestinese una forma di intervento precoce nella 'guerra globale al terrore', in anticipo di mezzo secolo.
Non è un caso se i progetti degli studenti dell'Università Ben Gurion che hanno tanto colpito Friedman hanno titoli quali 'Innovative Covariance Matrix for Point Target Detection in Hyperspectral Images' (matrice di covarianza innovativa per l'individuazione di punti bersaglio nelle immagini iperspettrali) e 'Algorithms for Obstacle Detection and Avoidance' (algoritmi per individuare e schivare gli ostacoli). Soltanto negli ultimi sei mesi sono state create 30 aziende per la sicurezza interna, grazie soprattutto ai generosi sussidi governativi che hanno trasformato l'esercito israeliano e le università del Paese in altrettante incubatrici di start-up per la sicurezza e le armi (qualcosa da tener presente quando si discute di boicottaggio accademico).
La settimana prossima, le più affermate tra queste aziende andranno in Europa per partecipare al Salone dell'Aeronautica di Parigi, l'equivalente della Settimana della Moda per l'industria delle armi. Una delle società israeliane che metterà in mostra la propria produzione è la Suspect Detection Systems (Sds) che esporrà il suo Cogito 1002, un fantascientifico chiosco bianco per la sicurezza che rivolge ai passeggeri che vogliono prendere un aereo alcune domande elaborate da un computer e studiate su misura per il loro paese di origine. A tali domande i passeggeri devono rispondere tenendo una mano appoggiata su un sensore 'biofeedback'. La macchina 'interpreta' le reazioni fisiche alle domande e alcune risposte possono inchiodare il passeggero come 'sospetto'.
Al pari di centinaia di altre start-up israeliane specializzate nella sicurezza, Sds vanta il fatto di essere stata fondata da veterani della polizia segreta di Israele e di aver effettuato collaudi su strada dei propri articoli con i palestinesi. Questa azienda non soltanto ha sperimentato i terminal biofeedback nei checkpoint in Cisgiordania, ma asserisce inoltre che "tale concetto è supportato e avallato da informazioni acquisite e assimilate dall'analisi di migliaia di casistiche relative ad attentatori suicidi in Israele".
Altra stella del Salone di Parigi sarà Elbit, il gigante israeliano del settore della difesa, che si accinge a esporre i propri velivoli senza pilota Hermes 450 e 900. Non più tardi del maggio scorso, secondo i comunicati stampa, Israele ha utilizzato i droni su Gaza per le sue missioni di bombardamento. Una volta collaudati nei Territori, i droni sono esportati all'estero: l'Hermes è già stato usato alla frontiera tra Arizona e Messico. I terminal Cogito 1002 sono in via di sperimentazione presso un aeroporto degli Stati Uniti non meglio identificato. Elbit, una delle società responsabili della 'barriera di sicurezza' di Israele, ha stretto un accordo con la Boeing per realizzare la recinzione 'virtuale' del costo di 2,5 miliardi di dollari che il Dipartimento per la Sicurezza interna intende erigere tutto intorno agli Stati Uniti.
Da quando Israele ha attuato la sua politica di sigillare i Territori occupati con checkpoint e muri, gli attivisti che si battono per i diritti umani hanno spesso paragonato Gaza e la Cisgiordania a prigioni all'aria aperta. Effettuando ricerche sul boom del settore della sicurezza interna israeliana, argomento che esporrò in dettaglio nel mio libro di prossima pubblicazione intitolato 'The Shock Doctrine: The Rise of Disaster Capitalism', sono rimasta molto colpita da una cosa: di fatto Gaza e Cisgiordania sono anche altro, sono laboratori nei quali si collaudano sul campo temibili apparecchiature destinate a proteggere i nostri paesi. I palestinesi, che vivano in Cisgiordania o in quella che i politici israeliani già chiamano 'Hamas-istan', non sono più soltanto bersagli da colpire: sono cavie.
Di conseguenza, da un certo punto di vista Friedman ha ragione: Israele ha trovato il petrolio. Ma il petrolio di cui parla non è la creatività degli imprenditori israeliani high tech, bensì la guerra al terrorismo, quella condizione di paura persistente che ha alimentato una domanda globale e senza fondo di apparecchiature concepite per controllare, spiare, contenere e prendere di mira i 'sospetti'. E si scopre così che l'ultima risorsa rinnovabile è la paura.
'The Nation' - 'L'espresso' traduzione di Anna Bissanti
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