Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein".
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)
Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine.
Condannato in Iraq "Alì il chimico" organizzò i massacri contro i curdi
Testata: Corriere della Sera Data: 25 giugno 2007 Pagina: 12 Autore: Michele Farina Titolo: «Pena di morte per Ali il chimico»
Quanti ricordano il nome del villaggio curdo di Halabja ? E il luogo dove avvenne una strage con armi chimiche, nell'ambito del sistematico massacro dei curdi iracheni per il quale è stato condannato a morte in Iraq Ali Hassan al-Majid, esponente del regime baathista. Siamo sicuri che a ricordare quel nome sono molti meno di quanto associano "Sabra e Chatila" alla strage di civili palestinesi che vi compirono i falangisti cristiani libanesi e che troppo spesso viene erroneamente attribuita a Israele.
Non è un caso, crediamo. L'informazione e la cultura sono selettivi nel promuovere la memoria storica dei crimini politici. E spesso il criterio di selezione suona grosso modo così : "Se Israele non può essere coinvolta, nemmeno falsamente, non interessa".
Ecco il testo della cronaca della condanna di al Majid, dal CORRIERE della SERA del 25 giugno 2007:
«Pensavo peggio»: così disse, al termine del suo primo interrogatorio, il più volonteroso dei carnefici di Saddam Hussein, l'ultimo vero comprimario rimasto, l'ex re di coppe nel mazzo dei super ricercati, il gregario che si applicò con equanime solerzia al gasamento dei curdi e alla strage degli sciiti. Chissà se ieri, mentre un giudice spilungone di nome Mohammed Oreibi al-Khalifa gli leggeva con voce sciolta la condanna a morte, Ali Hassan al-Majid detto «Ali il chimico» avrà ripensato a quell'illusorio sollievo provato un giorno di luglio 2004, quando uscì vivo e senza un graffio da una tranquilla seduta di domande e risposte di fronte a un magistrato ragazzino, deciso ma innocuo, lui abituato alla giustizia sommamente sommaria sua e del cugino Saddam, lui addirittura protagonista di un documentario promozionale voluto dal partito Baath a uso (e monito) degli affiliati sulla repressione della rivolta sciita del '91, dove Ali veniva ripreso mentre dava pugni e calci a prigionieri inermi sdraiati a terra prima dell'esecuzione, l'uomo in divisa che, sigaro in bocca, recitava la parte del duro loquace e a tratti misericordioso («Questo non lo ammazziamo, ci potrà essere utile»). Ieri mentre leggevano le motivazioni della condanna per impiccagione («Colpevole di aver perseguitato civili iracheni curdi, fatto radere al suolo villaggi, usato armi chimiche e artiglieria, distrutto orti, ucciso animali, compiuto un genocidio») il primo cugino di Saddam è rimasto in silenzio. Non ha urlato «lunga vita all'Iraq» come aveva fatto il raìs nell'ora della condanna, ha soltanto sillabato «sia reso grazie a Dio» protetto dalla sua kefiah a quadretti rossi prima di venir portato via, sotto i grandi lampadari di cristallo della vecchia sede del partito Baath trasformata per beffa in tribunale. Certo non si faceva più illusioni dopo il 30 dicembre 2006, quando Saddam andò al patibolo per la strage di Dujail. Quel giorno il processo «Anfal » — il nome («spoglie di guerra») voluto dal raìs per la campagna contro i curdi negli anni 80 — aveva perso la sua principale attrazione come pure l'attenzione dei mass media per un procedimento chiamato a fare giustizia di uno sterminio ben più vasto di quello perpetrato a Dujail: tra l'87 e l'88 «Anfal» sradicò dalle montagne duemila villaggi e almeno 150.000 curdi. Responsabili finali, Saddam e Ali, unici imputati di genocidio. Entrambi con quel cognome, Al-Majid, dal primo rimosso, figli di fratelli di una tribù di bifolchi di Tikrit, un padre che Saddam non vide mai e un cugino su cui contare nella caccia al potere, che qui come altrove è impresa familiare come indica il proverbio: io contro mio fratello, io e mio fratello contro mio cugino, io e mio cugino contro gli altri. Eccolo, il cugino contro tutti: scomparso Saddam, nel disinteresse generale l'imputato numero uno era diventato lui, il più crudele e longevo degli esecutori. Kimiawi era un soprannome che non amava, più che per pudore forse per un istintivo spirito di sopravvivenza: prima della guerra chi veniva sorpreso a usare per lui quell'appellativo — «il chimico» — finiva in galera. Ora il Kurdistan è in festa. A Halabja, dove gli uomini comandati dal Chimico gasarono 5.000 civili nel marzo '88, i sopravvissuti hanno celebrato la sentenza di Bagdad con una cerimonia al cimitero. Nei caffè di Bagdad le tv hanno messo in scena qualche applauso. Ma più che la differita dal tribunale, la gente aspettava la partita Iran-Iraq, per dimenticare gli orrori quotidiani. La giustizia in tv non va più di moda. Ali Kimiawi è già morto. La Corte d'appello confermerà il giudizio. Entro 30 giorni la forca. Il processo per la repressione degli sciiti nel '91 partirà senza clamori tra poche settimane, spezzato in procedimenti provinciali. Il Chimico non ci sarà, comparirà nel video mentre scalcia gli inermi, prima che i bulldozer li ricoprissero vivi o morti nelle fosse comuni.
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