Il settimanale di Repubblica “DONNA” pubblica nel numero di sabato 23 giugno un articolo di Edna Angelica Livnè Calò intitolato “Il mio kibbutz sul confine"
Angelica si è trasferita nel kibbutz Sasa quando aveva vent’anni e insieme al marito Yehuda ha cresciuto i suoi quattro figli. Insegna teatro, ha fondato il teatro dell’Arcobaleno - una compagnia di ragazzi ebrei, cattolici e musulmani - ed è autrice di due libri: “Un sì, un inizio, una speranza” edito dalla Casa Editrice Tempi e “Giù le maschere” edito da Proedi.
Questo è il racconto di una donna che vive vicino al Libano, che ogni giorno si confronta con le difficoltà di vivere in un paese costretto a difendersi da chi lo vuole distruggere, ma che non rinuncia alla speranza.
“Dopo la guerra torna la pace. Si stipulano accordi. Si leniscono le ferite, si piangono le vittime. Si comincia a ricostruire. Poco alla volta il dolore, la paura, le notti insonni e il ricordo degli spari, del terrore negli occhi diventano più lontani. Le immagini si affievoliscono. Nuove nascite, gioie e progetti sostituiscono incertezza e instabilità. Si ritorna alla vita. Nonostante le difficoltà, diventate abitudini con gli anni.
Sono nata a Roma nel 1955 e sono cresciuta ascoltando le storie di mia madre e mio padre, le loro fughe sui monti, tra rifugi e conventi. Racconti di quando era proibito affermare di essere ebrei. Ci sono voluti decenni, ma per l’Europa la guerra è ormai un ricordo. Per Israele no. L’anno prossimo il nostro Paese compie 60 anni e in questo arco di tempo ha dovuto combattere sette guerre e affrontare due Intifade. E non è finita. Nel Sud del Paese hanno ripreso a cadere i missili Kassam su case e scuole, evacuate come accadde qui in Galilea. Quasi un anno fa.
Vivo a Sasa, un kibbutz di confine. Basta aprire le finestre per vedere le colline del Libano e se si sale in cima alla torre dell’acqua, il punto più alto, si scorge la Siria a 60 chilometri in linea d’aria. Vorrei tanto dire che ormai ci siamo abituati alle guerre, che tutto è solo un ricordo, che abbiamo superato il trauma. Ma non è così. Al male, al dolore per i nostri morti e per quelli dell’altra parte non ci si abitua. E non hai neanche il tempo di riprenderti che sei già attaccato un’altra volta e devi difenderti, mandando la carne della tua carne su un nuovo fronte. Perché là, in prima linea, ci sono i nostri figli di 18, 20, 30 anni, i mariti, i fratelli, i padri, e quest’ultima guerra ci ha colto mentre stavamo ricostruendo con fatica la speranza. Dopo che ci eravamo disfatti delle maschere antigas contro Saddam, dopo che la barriera di difesa ci aveva dato qualche mese per regolarizzare il respiro, il sonno, la paura di un boato. Il rapimento dei nostri soldati e i missili degli Hezbollah arrivarono come un fulmine nel cielo sereno di luglio lasciandoci sbalorditi, sanguinanti, pieni di rabbia e sorpresa. Ma noi israeliani siamo impareggiabili nei momenti di emergenza: organizzati, efficienti, pronti a ogni evenienza. Un milione di persone lasciò la Galilea rifugiandosi da amici e parenti a Tel Aviv, Gerusalemme e nel resto di Israele. Riaprimmo i rifugi, incassammo tremila missili e, per non soccombere, dovemmo rispondere. E finalmente, dopo un mese, anche quella guerra finì.
Ma la pace, nei nostri cuori, non è tornata, anche se le giornate hanno riacquistato la loro regolarità. Il kibbutz è una piccola città autosufficiente con la posta, la biblioteca, l’infermeria. C’è chi si divide tra la propria occupazione e le attività comuni (la cucina, la lavanderia, la falegnameria, l’elettricista). Molte delle abitudini che si erano instaurate per trovare un po’ di conforto l’uno nell’altro durante la guerra sono diventate tradizione: ogni martedì nel Moadon, il nostro luogo di ritrovo, viene organizzato un sostanzioso happy hour per far sì che la gente continui a incontrarsi. Sembra che sia tornata la routine. Vent’anni fa mi venne un’idea: aprire un agriturismo all’italiana. Lo chiamammo “Una vacanza tra le nuvole” per ricordare che a Sasa siamo più vicini al cielo, a 900 metri di altezza. Oggi in Israele ci sono decine di Country Inn, come li chiamano qui, ma allora questa forma di accoglienza non esisteva e ricevemmo un premio dal ministero del Turismo. Da quando la guerra è finita ogni fine settimana è pieno di turisti da tutto il Paese.
La tranquillità però non esiste. I bambini chiedono: “ Ci riattaccheranno di nuovo? Che significa che gli hezbollah si stanno preparando? Perché sparano su Sderot? Ormai non ci sono più ebrei a Gaza…” Gli adulti serbano tutto dentro di loro, ma basta un accenno e Haled, musulmano di Jish, inizia a raccontare dei katiuscia che vide cadere vicino alla sua casa, dei 5 chili che perse per la paura, del piccolo Adi, figlio del suo amico ebreo Tomer, che si addormentava solo se lui veniva fino a Zfat a raccontargli una fiaba. Leah, del moshav (un altro tipo di comunità simile al kibbutz) religioso Dalton, racconta di come rimase chiusa in casa per un mese intero terrorizzata dai rombi dei missili. L’incontro mensile dei genitori del Teatro Beresheet LaShalom, la nostra fondazione per educare alla pace attraverso le arti, è diventato una sorta di riunione terapeutica dove ognuno, magari scherzando (come in una danza scacciademoni) parla delle vicissitudini di quell’ultima incredibile estate. Quando il 16 agosto tutti tornarono a casa sembrava che l’incubo fosse finito. Il 1° settembre le scuole riaprirono. Il ministero dell’Istruzione comunicò che “per regolarizzare al più presto la situazione” gli studi sarebbero dovuti iniziare come se nulla fosse accaduto. In una settimana le insegnanti ricevettero la preparazione per affrontare le domande e le paure degli alunni. I danni agli edifici furono riparati.
Perché la vita continua.
La violenza non può spegnere lo spirito: il nostro Teatro dell’Arcobaleno di ragazzi ebrei ed arabi, da una media di 15 partecipanti è salito a 25 e si sono aggregati anche drusi del vicino villaggio di Hurfeish (dove sono cadute decine di missili). Turisti e pellegrini ricominciano a popolare la Galilea: Nazareth, il lago di Tiberiade, Tagba, il Monte delle Beatitudini. La preparazione di campeggi e colonie di bambini per l’estate è al culmine e i professori di una delegazione dell’università di Firenze, dopo l’incontro con le metodologie di educazione alla pace di Beresheet LaShalom vogliono aprire una cattedra dell’Unesco nel nostro Kibbutz e inviare studenti del master internazionale di pedagogia. Ma allo stesso tempo stiamo ristrutturando i rifugi: si cambiano le porte, si installa l’aria condizionata, si controlla il sistema idraulico. Sono i bambini i più preoccupati per tutta questa attività. Problemi che colpiscono anche il resto del mondo, come le grandinate che hanno danneggiato il raccolto delle pesche e delle ciliegie si aggiungono alle preoccupazioni giornaliere e alle notizie dei tafferugli a Gaza e del dispiegamento di forze sul confine con la Siria. A pranzo, ci ritroviamo a mensa ed è inevitabile parlare dell’emergenza che respiriamo. Eppure, vivere sul confine rappresenta una speranza. Una strada bianca. E le case costruite là, in Libano. Un giorno viaggiavo con mio marito, che mi disse: “Dove costruiscono case c’è una famiglia. E chi ha una famiglia vuole la pace”.
Continuiamo a seguire una visione che è parte di noi. I religiosi sostengono che queste non sono che “le doglie prima della venuta del Messia” che, come si sa, per noi ebrei non è ancora giunto. Ogni evento è parte in un disegno più grande. Quando lo scorso anno un amico di Repubblica mi chiese di scrivere le sensazioni che provavo sapendo che mio figlio soldato era sulla linea del Libano, non avrei immaginato che il mio sarebbe diventato un diario letto da migliaia di persone. E che mi avrebbero fermato per le strade di Verona, Alessandria e Cava de’ Tirreni per dirmi che avevano sperato e tremato per noi che eravamo da una parte e dall’altra del confine. La sofferenza ha portato molti a riflettere non solo sulle ragioni e sui torti ma sulla vera essenza di una guerra. Una ragazza di Mantova ha preso spunto dai miei diari e da quelli della scrittrice libanese pubblicati per un mese sul quotidiano e ha preparato una mostra sulle donne che rincorrono la pace in tempi di guerra. Qualche giorno fa passeggiavo nel frutteto con la mia giovane amica che è venuta a Sasa come volontaria. Osservavamo i punti in cui erano caduti i katiuscia. Le ho raccontato che ho lavorato là per molti anni: “Nell’81, quando entravano ogni giorno terroristi dal Libano, mentre aspettavo il primo dei miei quattro figli, sola in mezzo ai meli, un pastore arabo tentò di aggredirmi. Tremando estrassi un piccolo coltello a scatto che lo lasciò stupito per un attimo. Ebbi il tempo di correre al mio trattore e fuggire col cuore in gola. Ero incinta di due mesi e dopo qualche tempo scoppiò la guerra Pace in Galilea. Yehuda, mio marito, fu tra i primi reclutati. Portai a termine la gravidanza da sola, in una delle estati più torride mai registrate in Israele. Gal nacque a settembre e potei riabbracciare Yehuda….”.
Ci fermiamo e guardiamo il confine, così vicino. Lei mi dice: “Deve essere stato un bambino molto forte Gal. E’ voluto nascere a tutti i costi!”. Sì, è forte. Come tutte le persone che sognano una vita normale anche quando sembra che non ci siano più speranze. Affinché quella sia stata la nostra ultima guerra.”
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