|
Immaginate una ragazza bellissima, occhi neri intensi, fisico da modella, bikini essenziale. Il prototipo della sensualità femminile, morbidezza e vita. Una dea? No, un militare, un militare di Tsahal, il temibile esercito israeliano. «Durante il servizio di leva adoravo sparare con la mitraglietta M-16 ed ero bravissima a colpire il bersaglio», racconta Yarden Harel, ex tenente dell’intelligence israeliana, conoscitrice esperta del confine libanese, ma soprattutto ragazza copertina. Una delle dodici selezionate per l’ultimo numero della rivista maschile Maxim dedicato alle soldatesse israeliane, «le divise più sexy del pianeta». Basta leggere le loro biografie per capire che non c’è trucco. Nivit Bash viene davvero dalla security («Il mio lavoro è top secret, posso solo dire che ho studiato l’arabo»), Natalie Niv si è formata nelle telecomunicazioni navali dove ha incontrato il generale diventato poi suo marito, Gal Gadot ha insegnato a lungo educazione fisica ai colleghi uomini prima d’essere incoronata miss Israele, «I soldati mi amano perchè li faccio stare in forma». Belle, toste e patriottiche. Perché Yarden e le altre sono in realtà le testimonial di una campagna promossa dal ministero degli Esteri israeliano per cancellare l’icona radicata del Paese con l’elmetto, sinonimo di guerra permanente, armi sofisticate, servizio militare obbligatorio per tutti, uomini e donne, tre anni di vita consegnati allo Stato. Che ultimamente Israele necessiti un’operazione di «re-branding», un cambio di look, è opinione diffusa. Il pubblicitario Simon Anhol, padre del Nation Brand Index, l’indice dei migliori Paesi in cui vivere, lo colloca all’ultimo posto della classifica dominata dalla Gran Bretagna, perché «troppo identificato con il brand del conflitto». Alcuni mesi fa il ministro degli Esteri Tzipi Livni ha convocato i diplomatici e i migliori specialisti di PR sul mercato per pianificare una strategia mediatica a tappeto che sganciasse l’idea che si ha del Paese dalla questione palestinese, ammettendo che «c’è un problema d’immagine enorme». Come spiegare che dietro la rigorosa divisa verde di Tsahal si nasconde un’anima? L’idea delle modelle-soldato è venuta alcuni mesi fa al Consolato israeliano di New York, dopo l’ennesimo rapporto negativo sulla percezione d’Israele nel mondo, una nazione che oggi neppure gli amici americani si sentono di definire «rilassante». Finchè la critica arriva dall’amata-odiata Europa d’accordo, si può replicare per esempio che il sondaggio secondo cui Israele sarebbe più minaccioso dell’Iran e della Corea del Nord pubblicato nel 2003 a Bruxelles è il prodotto d’un astio antico, addirittura antisemita. Finchè a puntare l’indice è una coscienza inquieta come quella dell’ex presidente della Knesset Avraham Burg, che un paio di settimane fa ha accusato il suo Paese d’essere «militarista e morto dentro», c’è la possibilità d’invocare il lavaggio dei panni sporchi in famiglia, perché sempre di famiglia si tratta. Ma se gli Stati Uniti cominciano a vedere Israele come «una terra di conflitti insolubili, gente testarda e belle ragazze», il discorso cambia. «Dovevamo immaginare una campagna che comunicasse l’altra faccia d’Israele», ha detto il console generale di New York Ariyeh Mekel. E si è rivolto a Maxim. Funzionerà? Mohammad Abu Awwad, producer palestinese di Ramallah che lavora da anni con i media stranieri, è scettico: «Non convinceranno nessuno che sono diventati anime belle come i corpi delle ragazze». Ma sul piano comunicativo, ammette, «hanno segnato un punto». Perché anche nella terra del fuoco incrociato il vero fascino della divisa militare è simbolico, protagonista epico di storie e leggende come questa, raccontata da Mohammad: «Quando Gaza non era la prigione che ora è diventata, molte prostitute di Ashkelon andavano a lavorare lì. Un giorno i clienti palestinesi dissero loro che se avessero indossato l’uniforme dell'esercito israeliano le avrebbero pagate il doppio pur di aver la soddisfazione... E quelle, finchè fu possibile, guadagnarono un mucchio di soldi».
Per inviare la propria opinione alla Stampa, cliccare sulla e-mail sottostante.
|