La caduta di Costantinopoli (1453) e quella di Gaza (2007)
Testata: Il Foglio Data: 22 giugno 2007 Pagina: 4 Autore: Bernard Lewis - Carlo Panella Titolo: «L’ALBA DEL PRESENTE TERRORE - I cristiani di Palestina temono “l’era della giustizia islamica”»
Dal FOGLIO del 22 giugno 2007 ( a pagina 2 dell'inserto) , un estratto da “La sublime porta”, il celebre saggio sull’impero ottomano dello storico Bernard Lewis uscito nel 1963 e ristampato da Lindau:
Martedì 29 maggio 1453, alle prime luci dell’alba, il potente esercito accampato all’esterno delle mura di Costantinopoli lanciò l’assalto finale. Erano passati cent’anni da quando dall’Asia i turchi avevano attraversato lo stretto dei Dardanelli occupando la prima testa di ponte in Europa, nella penisola di Gallipoli nell’Egeo; e più di cinquanta da quando il sultano Bayazid, signore dei Balcani, aveva provato per la prima volta a conquistare la città imperiale. In quell’occasione Costantinopoli si era salvata grazie all’intervento dell’occidente e al disinteresse dell’oriente. Nel 1410 e nel 1422 altri governanti turchi, il principe Musa e il sultano Murad, avevano cinto d’assedio la città, ma senza riuscire a portare a termine l’impresa. Ora però, un nuovo e giovane sultano, Maometto, che sarebbe passato alla storia come il Conquistatore, aveva intrapreso l’assedio definitivo. Dalle vaste terre in Europa e in Asia sulle quali governava aveva condotto un potente esercito fino alle mura di Costantinopoli, con l’intento di occupare la capitale imperiale per farne il fulcro dell’impero conquistato dai suoi padri. Dell’immenso territorio governato dagli imperatori bizantini rimaneva solo la capitale, e alcuni avamposti sparsi qua e là in Grecia, troppo lontani e poveri perché fossero di aiuto. Della maestosa e brulicante città sopravviveva solo un frammento, piccolo e impoverito, con una popolazione di appena 50 mila abitanti. Entro le mura della città si trovavano rovine tra cui crescevano erbacce e campi incolti; le imponenti triple mura però erano ancora lì, e dietro di esse, le ultime legioni dell’impero romano erano pronte a difendere la capitale. I difensori non erano molti; i cronisti dell’epoca parlano di circa ottomila uomini, compresi quasi tremila volontari italiani, pronti a difendere più di sei chilometri di mura e a sorvegliare i punti di accesso dal mare. In loro aiuto avevano una piccola flotta nel Corno d’Oro, al sicuro dall’attacco della flotta da guerra turca all’esterno. Contro di loro era radunato l’esercito di un impero che si estendeva dal Danubio all’alto Eufrate, dall’Adriatico al Mar Nero: la regolare fanteria giannizzera, la cavalleria feudale sipahi, e una grande artiglieria, con armi da fuoco di dimensioni spaventose pronte ad abbattere le mura millenarie della città; e in più innumerevoli truppe volontarie, irregolari e ausiliarie, a formare una forza militare che è stata stimata tra i 100 e i 150 mila uomini. Una flotta composta da diverse centinaia di navigli presidiava il Bosforo, e il sultano riuscì a trasportare settanta o ottanta navi da guerra via terra, su passatoie di legno, attraverso Galata per lanciarle nella parte superiore del Corno d’Oro, così da assediare la città triangolare da tutti e tre i lati. L’assedio durava già da sette settimane. Il 7 aprile, l’esercito del sultano aveva preso posizione lungo le mura, da Marmara fino al Corno d’Oro; l’11 furono puntati i cannoni verso le mura; il 12 cominciarono i bombardamenti, che continuarono per le successive sei settimane, colpendo e distruggendo le mura della città; il 21 la flotta venne spostata dalle colline dietro Galata al Corno d’Oro. Il primo assalto turco alle mura venne lanciato il 18 aprile; seguirono altri attacchi, per terra e per mare, ma furono tutti respinti dagli indomiti difensori. Durante un consiglio tenutosi nell’accampamento turco il 26 o il 27 maggio, il venerando gran visir, Khalil Pascià, esortò ad abbandonare l’impresa che aveva contrastato sin dall’inizio, e non v’è dubbio che non fosse l’unico a pensarla in quel modo. Il sultano però, giovane, ambizioso e pieno di risentimento nei confronti degli anziani consiglieri ereditati dal padre, decise altrimenti. Domenica 27 maggio consultò i suoi comandanti, passò in rassegna le truppe e inviò i suoi messaggeri negli accampamenti a proclamare che se i suoi soldati avessero preso d’assalto le mura e conquistato la città, essa sarebbe stata loro per tre giorni, avrebbero potuto saccheggiarla e depredarla senza alcun limite. Lunedì 28 maggio trascorse nei preparativi e il martedì mattina, un’ora o due dopo la mezzanotte, venne dato il segnale per l’assalto generale. L’avanguardia che sferrò il primo attacco era formata da una moltitudine di irregolari e avventurieri, molti dei quali erano di origine europea; essi avanzarono verso le mura, ma furono costretti a battere in ritirata con forti perdite. Il secondo assalto, più organizzato, fu condotto dalle truppe di prim’ordine delle divisioni anatoliche – soldati corazzati e addestrati, che tuttavia non riuscirono a rompere le fila del nemico e furono anch’essi costretti a battere in ritirata. Alla fine, alle prime luci dell’alba, il sultano spedì il fiore delle sue truppe: le sue guardie personali, gli arcieri, i lancieri e i 12 mila uomini che costituivano il corpo dei giannizzeri. Il primo a mettere piede sulle mura fu un gigantesco giannizzero chiamato Asan. Venne abbattuto e ucciso, ma aprì la strada ad altri che lo seguirono e diventava così signore di Istanbul, la città che sarebbe divenuta ancora una volta il fiorente e prospero centro di un vasto impero e di una grande civiltà. Un’immagine vivida della meraviglia dei turchi alla vista degli splendori appena conquistati ci viene offerta da Tursun Beg, un veterano della conquista, segretario del Consiglio del sultano e uno dei primi autori ottomani a cimentarsi con la prosa. Nella sua biografia di Maometto il Conquistatore, scritta verso la fine del XV secolo, descrive così l’entrata del sultano in città: “Mentre visitava le file dei palazzi, le larghe strade, i mercati di quella antica metropoli, di quella vasta fortezza, il padisah provò il desiderio di ammirare la chiesa che porta il nome di Aya Sofya, un prodigio del Paradiso: ‘Se desideri contemplare il Paradiso, visita l’Aya Sofya. L’Aya Sofya è il più alto cerchio del Paradiso’”. Tursun prosegue osservando che a dispetto della forza grandiosa e della bellezza ineguagliabile, la chiesa aveva sofferto i danni causati dal tempo, e alcuni degli edifici del complesso architettonico erano caduti in rovina. La grande cupola però era ancora lì: “Ma quale cupola! Tale che pretende di uguagliare la cupola dei nove cieli (...) Il padisah del mondo, dopo aver ammirato le opere d’arte e le statue meravigliose e straordinarie che si trovano nei piani concavi, decise di salire al piano convesso (...) Giunse sulla sommità della cupola. Quando scorse i dintorni di questo poderoso edificio coperti di rovine e deserti, meditò sull’incostanza e sulla variabilità di questo mondo, il cui destino è quello di cadere in rovina”. Mentre il sultano si abbandonava a queste riflessioni malinconiche sull’instabilità delle glorie umane, le truppe vittoriose si godevano i piaceri terreni della vittoria. Il cronista ‘Ashiq Pasa Zade, un altro autore turco dell’epoca, certamente molto diverso, ci offre un’idea del loro punto di vista. Il suo racconto, scritto in turco semplice, è vicino alla prospettiva dei gaziturchi, o combattenti di frontiera: “La battaglia continuò giorno e notte per cinquanta giorni. Il cinquantunesimo giorno il sultano ordinò il saccheggio libero. Si attaccò. Il cinquantunesimo giorno, un martedì, venne conquistata la fortezza. Gli abitanti della città furono fatti schiavi, venne ucciso l’imperatore, e i gazi abbracciarono le loro belle donne. Il primo venerdì dopo la conquista recitarono la preghiera comune all’interno dell’Aya Sofya e venne letta l’invocazione islamica in nome del sultano Maometto Khan Gazi”. Più di un secolo dopo, Sa‘d al-Din, uno dei più famosi storici ottomani, chiude la sua lunga opera letteraria sulla conquista con queste parole estatiche: “Attraverso i nobili sforzi del sultano Maometto, il rintocco maligno delle campane dei miscredenti senza vergogna fu sostituito dal richiamo musulmano alla preghiera, il dolce canto della Fede dai gloriosi riti, ripetuto cinque volte, e l’udito delle persone nella Guerra Santa si riempì della melodia del richiamo alla preghiera. Le chiese entro le mura della città vennero così svuotate dei loro vili idoli, e purificate delle loro impurità sordide e idolatriche; e, attraverso lo sfregio delle immagini e la costruzione di nicchie e pulpiti per la preghiera islamica, molti monasteri e cappelle divennero l’invidia dei giardini del Paradiso. I templi dei miscredenti vennero trasformati in moschee per i pii, e i raggi della luce dell’islam allontanarono i padroni dell’oscurità da quel posto che era stato per lungo tempo dimora di meschini infedeli, e le luci dell’alba della Fede cacciarono via la spettrale oscurità dell’oppressione, perché la parola del fortunato sultano, irresistibile come il destino, divenne suprema nel governo di questo nuovo dominio”. Era caduto l’ultimo bastione del cristianesimo nell’Europa sudorientale; veniva così instaurato un nuovo potere che, un secolo e mezzo dopo, un rappresentante del clero elisabettiano definì “il glorioso impero dei turchi, il presente terrore del mondo”
Un articolo di Carlo Panella sulla situazione dei cristiani palestinesi:
Gerusalemme. Il cardinale Camillo Ruini si è unito ieri alle preoccupazioni di Papa Benedetto XVI per la sorte delle minoranze cristiane in Iraq e in altre parti del medio oriente e ha invitato alla partecipazione alla manifestazione contro le persecuzioni cristiane di Magdi Allam. A Mosul, nei giorni scorsi, un prete e il suo diacono sono stati uccisi da miliziani vicini ad al Qaida; otto cristiani sono stati rapiti. Ma i timori non si fermano all’Iraq, dove i gruppi estremisti musulmani non sono peraltro al potere, anche se comandano armi in pugno per le strade. Hamas, movimento islamista, ha conquistato Gaza meno di una settimana fa. Il 14 giugno, mentre ancora infuriavano le ultime ore di scontri tra le fazioni palestinesi nella Striscia, il Convento delle Sorelle del Rosario, sede anche di una scuola, è stato preso d’assalto. L’istituto è frequentato da cristiani ma anche da molti musulmani, alcuni figli dei leader di Hamas. Il movimento islamico si sarebbe incaricato della ricostruzione. Dicono a Gaza che il convento sarebbe stato preso di mira perché vicino a un posto di comando di Fatah, quindi nel mezzo della battaglia, ma come fa notare il Sole 24 ore, se si fosse trattato di un semplice saccheggio le statuette del Cristo non sarebbero state decapitate e le immagini sacre non sarebbero state bruciate. Abu Mazen accusa Hamas di essere dietro all’atto contro i cristiani. Padre Manuel Musallam, prete cattolico di Gaza, cerca di sminuire l’accaduto. La responsabilità, secondo lui, sarebbe di gang di fondamentalisti non meglio identificate. Nei mesi scorsi, un gruppo vicino ad al Qaida, l’esercito islamico di Salvezza, aveva assalito nella Striscia gli Internet café, una biblioteca di un centro cristiano, saloni di bellezza e ha intimato alle giornaliste di andare in video velate. Oggi però le donne cristiane di Gaza temono con Hamas di dover cambiare non soltanto il proprio codice d’abbigliamento, dopo che un portavoce delle milizie islamiste ha dato il benvenuto, a Gaza quasi conquistata, “all’era della giustizia e del governo islamici”. Padre Bernardo Cervellera, direttore di Asia News, racconta al Foglio che Musallam ha parlato della possibilità che tra gli assalitori ci fossero estremisti sudanesi, iraniani, sauditi, presenze attive nella Striscia dopo il ritiro israeliano. Dice che dal punto di vista nazionalista un tempo cristiani e musulmani palestinesi erano uniti. “Ma la crescita di Hamas ha prodotto un’incrinatura in quest’unità, creando un influsso sulla questione confessionale”; parla di un fondamentalismo islamico che cerca di innalzare il movimento sul resto dei palestinesi. “L’integralismo islamico attraversa l’intero medio oriente”. Cervellera ricorda le parole del papa di ieri: il pontefice ha invocato una pace regionale senza distinzione confessionale. L’allarme nella zona c’è da tempo. Un sondaggio mandato in onda dal Christian Broadcast Network racconta che la presenza cristiana in Israele, Siria, Libano, Egitto, Giordania e Territori è scesa dal 26,4 per cento nel 1914 al 10 per cento. In Libano, dopo l’entrata al governo di Hezbollah, il partito di Dio sciita, la richiesta di visti per l’estero da parte di cristiani è aumentata. A Gaza i cristiani sono ormai soltanto 3.000. In Cisgiordania la popolazione cristiana diminuisce di anno in anno, a causa di minacce e intimidazioni. Quando le vignette sul profeta Maometto furono pubblicate nel 2005 dal Jylland-Posten, danese, a Gaza i cristiani furono presi di mira. Dopo il discorso di Ratisbona di Papa Benedetto XVI, a settembre, una chiesa della Striscia fu assalita. La domenica dopo, a messa terminata, l’arcivescovo greco ortodosso Alexios aveva raccontato al Foglio che la maggior parte dei suoi fedeli non si era presentata alla funzione per paura. A Beit Jalla, frazione di Betlemme, il macellaio armeno, l’unico a vendere carne di maiale in zona, ha subito negli ultimi anni numerosi attacchi anonimi. Molti suoi animali, alla fattoria, sono stati uccisi. Sono pochi quelli che si arrischiano a parlare della situazione. Chi lo ha fatto, come Samir Qumsieyeh, proprietario di un’emittente cristiana a Betlemme, si è trovato la casa presa d’assalto. Ma la comunità punta ancora a tenere bassa la questione. Ibrahim Faltas, parroco di Gerusalemme, francescano che ha vissuto in prima persona l’occupazione della basilica di Betlemme da parte di uomini armati palestinesi, racconta al Foglio che tutti hanno condannato l’ultimo attacco a Gaza. “Non c’è una persecuzione islamica – dice – i cristiani se ne vanno a causa della situazione politica ed economica. Sono state danneggiate pietre, qui, non i cristiani fisicamente
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