Guerra civile palestinese: non è la prima volta un articolo di Carlo Panella
Testata: Il Foglio Data: 21 giugno 2007 Pagina: 3 Autore: Carlo Panella Titolo: «Questa non è la prima guerra civile palestinese»
Dal FOGLIO del21 giugno 2007 un articolo di Carlo Panella:
C’è da aspettarsi che per mezzo secolo gli arabi si uccideranno a vicenda per vendicarsi di quanto è avvenuto”. Questa frase non è di oggi, anche se molti in Palestina la condividerebbero, ma è stata pronunciata nel 1938 da Raghib Nashashibi, autorevole leader della fazione palestinese moderata Partito della difesa nazionale, antenato diretto di quello di Abu Mazen. Una frase profetica, che si riferisce alla prima guerra civile palestinese, ben più feroce e sanguinaria di quella di queste settimane, che si svolse per tre anni, tra il 1936 e il 1939, intrecciandosi con una violenta azione antisionista e antibritannica (la Palestina era sotto mandato inglese), in un contesto straordinariamente simile a quello di oggi (fatte salve le ovvie differenze d’epoca). Fu infatti una rivolta innescata dal Partito nazionale palestinese, fondamentalista, fondato nel 1935 dal Gran Mufti Haj Amin al Husseini – cui Hamas si rifà esplicitamente – per impedire che la fazione nazionalista saldamente ancorata alla Giordania, come lo è oggi Abu Mazen, accettasse la soluzione “due popoli, due stati”, che allora si chiamava “Piano di partizione Peel” e che prevedeva la costituzione di un minuscolo stato ebraico su 5.000 chilometri quadrati e di uno stato arabo sulla quasi totalità del territorio. Chi oggi spiega il mattatoio chirurgico di Gaza, la ferocia dei miliziani di Hamas, come il prodotto della “esasperazione palestinese” e ne accolla la responsabilità politica a Israele – tra questi Massimo D’Alema e molti altri – guardi alla prima guerra civile palestinese, ai suoi attori così simili a quelli di oggi, agli schieramenti anch’essi identici e alla loro ferocia, ancora superiore. Guardi infine ai morti di allora, quattro volte quelli di oggi: mille i palestinesi uccisi da palestinesi dal 2004 a oggi, quattromilacinquecento tra il 1936 e il 1939. Guardi e si interroghi. Forse quelle valutazioni antisioniste non sono, come ha denunciato il presidente Giorgio Napolitano, ispirate dall’antisemitismo. Forse lo sono. Comunque sono assolutamente antistoriche. La guerra civile palestinese 1936-1939 mette infatti indiscutibilmente davanti agli occhi una verità storicamente inoppugnabile: la ferocia palestinese e la logica della guerra civile palestinese non sono nate nel 1967, non sono state prodotte dai campi profughi o dalle colonie israeliane o dalla violenza dell’esercito israeliano. Sono tutte dentro la storia palestinese e sono già esplose, con maggiore violenza, ben settanta anni fa, quando i sionisti erano poche centinaia di migliaia, disarmati o con poche armi, osteggiati dalla comunità internazionale e – in particolare – dalla potenza mandataria, l’Inghilterra. La rivolta palestinese cominciò casualmente il 15 aprile 1936, quando due ebrei furono uccisi da briganti palestinesi che rapinavano passanti sulla strada per Tulkarem; i sionisti reagirono con rappresaglie e nel giro di pochi giorni la situazione diventò incandescente. Il Gran Mufti di Gerusalemme leader del partito antenato di Hamas in apparenza fece opera di mediazione, ma in realtà lavorò per trasformare i tumulti in un Jihad: formò un “Comando Generale del Jihad”, proclamò uno sciopero generale che durò 175 giorni (a suon di violenze sui tantissimi crumiri, soprattutto commercianti), trovò subito un suo obbiettivo non soltanto nei sionisti e nelle truppe britanniche, ma anche e soprattutto nei palestinesi “collaborazionisti”. Arrivarono anche volontari arabi dalla Siria e dall’Iraq, circa 200 feddayn al comando di Fawzi al Qawuqji, un ufficiale ottomano di origine irachena, che sarà nel decennio successivo il più brillante comandante militare dei palestinesi (poi responsabile della radio nazista in arabo da Berlino). Una volta rientrato lo sciopero generale, i disordini continuarono fino a tutto il 1939, con una ferma reazione inglese, il confronto militare con le unità dell’Hagana, la milizia sionista che sviluppò una intensa strategia militare di “difesa aggressiva”, le prime rappresaglie terroriste dell’Irgùn di Jabotinsky, purtroppo anche contro civili arabi, le esecuzioni e i taglieggiamenti di migliaia di palestinesi a opera di palestinesi. Se si leggono le cronache di allora (naturalmente, non quelle sioniste, ma quelle insospettabili e attendibili di parte palestinese) e le si paragona a quanto è successo a Gaza – ma anche in Algeria, in Libano, in Iraq, in tutte le nazioni arabe collassate su se stesse – il risultato è sconcertante. Questo il rapporto scritto nel maggio del 1939 al proprio “Comando centrale del Jihad”, autoesiliatosi a Damasco, il comandante della rivolta di Nablus Mohammed Hasan, detto Abu Bakr: “Il comportamento dei combattenti nei confronti degli abitanti dei villaggi è quantomeno dispotico, talvolta disgustoso: pure e semplici razzie, esecuzioni senza indagini preventive, violenze disordinate e senza motivo o, al contrario, inerzia assoluta. Gli abitanti dei villaggi chiedono aiuto ad Allah contro simili comportamenti. La gente di campagna è profondamente esasperata. Nelle città c’è profonda sfiducia. Ci sono spie ovunque e chi è ancora leale alla rivolta non sa come regolarsi”. Il movimento jihadista del Gran Mufti, aveva una motivazione essenzialmente religiosa, ideologica, fondamentalista, radicata nel suo clan famigliare, ma soprattutto in plebi urbane marginali e allo sbando. Ebbe da subito relazioni intense con il fondamentalismo wahabita dei sauditi (come si vide nella triangolazione di armi richiesta a Mussolini dal Gran Mufti attraverso i sauditi nel 1936) e che soffrì, però, ancora di un relativo isolamento nel mondo arabo e musulmano, nonostante i reiterati appelli alla umma mondiale lanciati dal Gran Mufti. Un isolamento controbilanciato dall’alleanza già consolidata col nazifascismo: Galeazzo Ciano testimonierà nel suo Diario nel 1940 di “milioni” versati al Gran Mufti e solidi aiuti gli arrivarono anche tramite Fritz Grobba, eminenza grigia di Hitler in medio oriente. Dall’altra parte, il movimento palestinese moderato che faceva capo al clan dei Nashashibi raccoglieva il consenso dei grandi proprietari terrieri, di buona parte del Bazar di Gerusalemme (quindi dei commercianti e del minuscolo mondo, ancora arretrato, della finanza), e soprattutto aveva – e avrà ancora per decenni – una forte sponda moderata araba sul piano internazionale. Sia re Abdullah al Hashemi di Transgiordania, che suo fratello re Feisal dell’Iraq e dopo di lui Nuri al Said, intervennero infatti pesantemente negli anni Trenta, soprattutto tra il 1936 e il 1939, nella crisi palestinese, per contrastare il jihadismo del Gran Mufti (che infatti tenterà di detronizzarli nel 1941), per mediare con i sionisti e con gli inglesi, per rafforzare i Nashashibi e infine per fare approvare il piano inglese che prevedeva la nascita di due stati, uno palestinese e uno ebraico, al termine del mandato britannico. Dopo la prima fase della rivolta, preso atto che la convivenza tra le due comunità non era praticabile, le autorità britanniche inviarono l’undici novembre 1936 a Gerusalemme una commissione di inchiesta presieduta da Lord William Robert Peel – non a caso ex responsabile dell’India Office – che convocò palestinesi e sionisti. Naturalmente il Gran Mufti e il “Comitato centrale per il Jihad” rifiutarono la convocazione perché pretesero – il particolare è tipico della loro mentalità – che fosse accettata una precondizione che non era tale, ma avrebbe segnato la loro vittoria completa: il blocco totale dell’immigrazione ebraica. Una concezione della trattativa come pura e semplice attestazione delle loro ragioni, senza spazi di mediazione, senza politica che di nuovo ricorda l’impolitico rifiuto di Hamas a riconoscere Israele. Impressionante, soprattutto, perché il suo estremismo ideologico e metodologico non si rapporta mai a una valutazione reale delle proprie forze e di quelle dell’avversario, ma è soltanto conseguenza di una presupposta “superiorità” delle proprie ragioni derivata dalla “superiorità” della propria religione, dell’islam. Le autorità britanniche, in segno di apertura, ridussero comunque l’ammissione di profughi ebrei da 4.500 unità a sole 1.800 l’anno, ma non bastò. Il 7 luglio 1937 la Commissione Peel pubblicò il suo rapporto, che fu elaborato essenzialmente mediando tra le posizioni dei sionisti, quelle dei moderati Nashashibi, del re di Transgiordania Abdallah e dell’iracheno Nuri al Said, che non mancarono di inoltrare suggerimenti. Un minuscolo stato sionista di soli 5.000 chilometri quadrati, meno di un quinto della Palestina (un quarto di Israele attuale), grande circa come il Trentino, per di più separato in due zone non comunicanti, uno stato palestinese, una zona – Gerusalemme – sotto controllo britannico e infine un dislocamento bilanciato di sionisti e palestinesi per rendere omogenee le rispettive zone. Il dibattito all’interno del movimento sionista fu intensissimo: Jabotinsky e la sua Irgùn rifiutarono nettamente l’accordo che consideravano rinunciatario rispetto alle aspirazioni alla Eretz Israel, la Grande Israele biblica. Jabotinsky non era isolato nel movimento sionista, ma il piano di bipartizione fu infine accettato dal ventesimo Congresso Sionista di Zurigo nell’agosto del 1937 con 299 voti a favore e 160 contrari, la posizione realpolitiker di Ben Gurion riuscì dunque a prevalere, non senza forti contrasti. Dunque, il movimento sionista, nel 1937, accettò non solo il principio, ma la proposta concreta, assolutamente sfavorevole e impraticabile, di un Israele minuscola e per di più formata da due enclavi circondate dallo stato arabo e non comunicanti. Un precedente che va ricordato, perché nel 2007, chissà perché, Massimo D’Alema non è il solo a dare mostra di non saperlo, o di non volerlo sapere. Ma la accettazione sionista doveva naturalmente essere confortata da quella palestinese e, in una prima fase, sembrò che vi fossero delle possibilità positive. Re Abdallah di Transgiordania era assolutamente favorevole e così Nuri al Said in Iraq, come assolutamente favorevole era Fakhri Nashashibi e i notabili del suo clan, che avevano partecipato alla prima fase della rivolta, ma poi se ne erano distaccati, avevano preso contatto con i sionisti, organizzato addirittura delle “squadre della pace”, forti di migliaia di palestinesi per sedare gli animi e i tumulti. In molti villaggi e anche a Gerusalemme vi furono iniziative comuni. In particolare si distinsero in questo senso i palestinesi cristiani, che non avevano partecipato alla rivolta e che pagarono il loro atteggiamento con molte persecuzioni – compresi molti stupri – da parte dei jihadisti. Il partito jihadista del Gran Mufti aveva però un mezzo semplice per far saltare l’accordo e lo mise in atto: l’inasprimento della guerra civile interpalestinese e la ripresa degli attacchi ai sionisti. Il Gran Mufti, che era scappato da Gerusalemme e si era rifugiato a Damasco, centrò dunque in pieno il suo obbiettivo e incardinò un principio che sarà poi seguito dalle due leadership palestinesi successive, quella nasseriana e quella di Yasser Arafat e di Hamas: rifiutare ogni soluzione politica. Alcuni notabili palestinesi, come Khalil Taha, latifondista di agrumeti a Haifa, contrario alla ripresa della rivolta, furono assassinati dai sicari del Gran Mufti, altri ebbero la stessa sorte, alcuni furono buttati in pozzi pieni di serpenti e scorpioni, mentre furono incendiati i seimila ulivi di un latifondista che aveva buoni rapporti con i sionisti. Elias Sasson, dell’Agenzia ebraica, scrisse: “Ora una striscia di sangue separa le due fazioni palestinesi”. Lo stesso Raghib Nashashibi, a triste conferma della sua previsione di una infinita stagione interpalestinese di vendette, fu in seguito ucciso da un sicario del Gran Mufti a Baghdad nel 1941, in piena faida interaraba. Basta guardare al bilancio delle vittime di quel triennio, per comprendere che quella “rivolta araba” fu qualcosa di ben più complesso di un tentativo di eliminare la presenza sionista in Palestina, come molti storici scrivono in Europa: non meno di 6.000 (circa l’un per cento della popolazione) i palestinesi uccisi, dei quali non meno di 4.500 per mano palestinese e 100 impiccati dagli inglesi (un solo ebreo subì la stessa sorte); circa 30.000 palestinesi (circa il cinque per cento della popolazione), in buona parte le élite cittadine, rifugiati all’estero per timore di essere massacrate da palestinesi (oltre che dal terrorismo ebraico dell’Irgùn), circa duemila le case palestinesi rase al suolo dall’esercito britannico. Un migliaio i ribelli palestinesi, nel 1936 diventarono 7.500, più 15.000 non impegnati stabilmente, nel 1939. Per contro, le vittime ebraiche ammontarono a poche centinaia (cento nel solo 1936). Particolare non secondario: 200.000 furono gli alberi “ebrei” abbattuti o bruciati dai palestinesi. Dopo il Piano Peel, i palestinesi rifiutarono, prima del 1967, per altre due volte il loro stato, la prima nel 1939, quando Chamberlain offrì tutto il territorio della Palestina e la fine del sogno sionista (la rifiutarono perché contrari all’immigrazione di 75.000 ebrei alla vigilia di Auschwitz), la seconda nel 1947, quando l’Onu decretò la bipartizione della Palestina.
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