Ad Hamas piacciono le trattative tra una carneficina e l'altra
Testata: La Repubblica Data: 21 giugno 2007 Pagina: 25 Autore: Alberto Stabile Titolo: «Tra i leader integralisti di Gaza»
Gli strani golpisti di Hamas non vogliono il potere, ma la trattativa. Mentre Gaza viene ripulita della presenza di Al Fatah, mentre uno dei capi del gruppo islamista, Mahmud Al Zahar, minaccia una presa del potere anche in Cisgiordania, mentre il presidente dell'Autorità palestinese parla di un complotto per ucciderlo, Alberto Stabile sulla REPUBBLICA da la massima visibilità al volto "conciliante" di Hamas. Al quale qualsiasi persona informata sui fatti dovrebbe trovare, come minimo, molte difficoltà a credere. Ma deve trattarsi di un riflesso condizionato. Così si è fatto a proposito dei rapporti tra Hamas e Israele. Molti dirigenti, in primis Zahal, ripetevano quello che è scritto a chiare lettere nello statuto: Israele deve essere distrutta. Ma l'attenzione di REPUBBLICA era tutta per gli inganni della propaganda rivolta al pubblico occidentale. Così è anche ora che lo scontro (momentaneamente) è tra Hamas e Fatah.
Ecco il testo:
GAZA - Che strani golpisti, gli uomini di Hamas. Un putsch, di solito, lo si fa per conquistare il potere e mantenerlo. I dirigenti islamici che incontriamo in una Gaza più rassegnata che pacificata non fanno, invece, che dirsi «pronti a «discutere con al Fatah», a «trovare un compromesso». Portano ancora rispetto ad Abu Mazen, il quale, però, ha respinto ogni approccio («non parlerò con questi terroristi, assassini e golpisti») e, con le dovute distinzioni, molti degli avversari che hanno scelto la fuga, sarebbero adesso «benvenuti». E´ come se, smaltita l´ubriacatura della vittoria, i capi del movimento integralista abbiano realizzato che da soli non possono andare da nessuna parte. Ma non è che non sia successo niente. A molti militanti, i semplici, i poveri motivati da un forte senso di rivalsa di «condividere il potere con al Fatah» non importa più nulla. Quello che è fatto è fatto e indietro non si torna. In un silenzio quasi religioso officiato dagli uomini in divisa nera e mitra alla mano della Forza esecutiva, di guardia agli uffici del primo ministro, aspettiamo l´arrivo di Ismail Haniyeh che primo ministro di tutti i palestinesi ritiene di essere ancora. All´improvviso, un coro dissonante di sirene. Il convoglio di Haniyeh si ferma davanti al portone. Dall´alto osserviamo la gran quantità di macchine blindate. Quando mai Haniyeh ha avuto una scorta così folta di auto lampeggianti. «Vede quelle due jeep - dice un usciere strepitante di felicità - sono quelle della scorta di Abu Mazen». Forse dovreste restituirle, azzardiamo. «Ma no lui è ricco, può comprarne altre». Sarà difficile tornare indietro dopo l´occupazione dei ministeri e delle caserme, la confisca degli arsenali, i sequestri degli autoparchi, la razzia delle case dei notabili che ancora continua. Basta andare a vedere cosa succede nella villa a due piani e tre verande che Mohammed Dahalan, il nemico numero uno di Hamas a Gaza, s´era fatto costruire al centro della città. Dopo averla svuotata, un esercito di minorenni sotto gli occhi vigili di alcuni adulti la sta letteralmente demolendo. Ma per Ghazi Hamad, il giovane consigliere di Haniyeh per l´informazione, indietro non solo si può, ma si deve tornare. «Hamas non è interessato alla separazione della Palestina in due ali, né puntiamo a costruire uno stato, o un impero di Hamas. Siamo un solo popolo e una sola patria. Per questo cercheremo di trovare un compromesso, anche attraverso una terza parte, che ci porti fuori da questa situazione assurda di due governi e due primi ministri». Per esser chiari, «il movimento islamico non può gestire Gaza senza la cooperazione di al Fatah, così come al Fatah non può gestire la West Bank senza la cooperazione del movimento». Idem, se si parla del presidente. «Abu Mazen è in una trappola. Non può esercitare la sua autorità senza Gaza, ma anche Hamas non può accettare questa situazione. Prima o poi dovremo sederci insieme e discutere. L´importante è non perdere la direzione, anche se quello che è successo è stato molto doloroso. Ma non avevamo scelta». Aspettando un segnale da Ramallah, Ismail Haniyeh, primo ministro doppione di un governo fantasma sembra calato in una parte da teatro dell´assurdo. Ieri riceveva i dirigenti di due organizzazioni per i diritti umani quando, in una pausa dell´incontro, ha lasciato che i giornalisti gli chiedessero notizie di Alan Johnston, il corrispondente della Bbc da 100 giorni ostaggio di una banda di rapitori, connessi al clan Dogmush. Per Haniyeh, quello che è successo a Gaza è un tributo necessario pagato alla sicurezza. Per cui, detto che «continuano i contatti con i rapitori di Johnston» e che «la speranza è che venga rilasciato quanto prima», Haniyeh chiede candidamente ai giornalisti: «E voi, adesso, vi sentite più sicuri?». Se c´è un uomo nel vertice di Hamas le cui parole meritano di essere soppesate, questo è Mahmud Zahar, uno degli ultimi sopravvissuti del gruppo dei fondatori del movimento, esponente dell´ala intransigente, ex ministro degli Esteri. Par di capire che anche il duro Zahar partecipi all´offensiva diplomatica lanciata da Hamas dopo la conquista di Gaza, altrimenti non sarebbe stato facile incontrarlo nella sua casa di Sabra, un quartiere modesto, ma anche una delle zone sotto il controllo dei Dogmush (clan vastissimo e, sembra, internamente diviso). Per Zahar, acerrimo nemico di Dahalan, anche nel sequestro di Alan Johnston, neanche a dirlo, c´è lo zampino dell´ex proconsole di Abu Mazen. «E´ stato lui - accusa Zahar - a dare armi e danaro a chi ha sequestrato il giornalista, e l´ha fatto per minare la credibilità del governo. Un episodio che fa parte di quel caos costruttivo di cui ha parlato Condoleezza Rice». Cosa che Dahalan nega risolutamente. «Dogmush? Mai conosciuto, mai incontrato, mai avuto alcun rapporto», fa sapere l´ex "uomo forte di Gaza". Il quale, secondo Zahar non dovrà più rimettere piede nella Striscia, «lui e il suo gruppo non sono welcome», dice nel suo inglese colorito. Mentre con altre personalità di al Fatah (Zahar cita Jibril Rajub e Marwan Barghuti) persino con Abu Mazen, «che resta il presidente dell´Autorità palestinese», anche il re dei "falchi" di Hamas, al pari della "colomba" Haniyeh, è convinto si debba trattare. Ma come può fare appello al dialogo uno, come Zahar, accusato di aver remato contro il governo di unità nazionale? «Dimentica - risponde - che sono stato alla Mecca, tra i firmatari dell´accordo. E proprio in questa stanza ho negoziato per 5 settimane con tutti i gruppi di al Fatah, ma loro dicevano sempre no. La verità è che pensavano che avremmo perso, invece abbiamo vinto».