Dal FOGLIO di oggi, 19/06/2007, a pag. 1 dell'inserto, le analisi di Giorgio Israel e Carlo Panella.
Giorgio Israel- I Katiuscia illuminano le rovine della politica estera italiana
Soltanto pochi giorni fa il comandante della missione Unifil, generale Claudio Graziano, ha rilasciato un’intervista al Jerusalem Post in cui asseriva che la missione persegue il suo compito con crescente successo che non esiste presenza di gruppi di guerriglia al sud del Litani. In pieno contrasto con le dichiarazioni dell’ex ministro della Difesa israeliano, Shaul Mofaz, secondo cui Hezbollah si è completamente riarmato e particolarmente nelle aree urbane e nelle riserve forestali del Libano del sud, egli ha negato totalmente che sia in corso qualsiasi riarmo: “Pattugliamo ogni angolo del Libano del sud e avremmo trovato qualcosa”. Ha anche aggiunto che Unifil è pronta a dare la vita per difendere Israele. Si può immaginare il tenore dei numerosissimi commenti che sono giunti da ogni parte del mondo sul sito web del giornale. più cortesi riconoscono che il generale ha detto il vero perché Hezbollah non si sta riarmando: l’ha già fatto. I più scortesi hanno tirato in ballo il solito cliché degli italiani inaffidabili e chiacchieroni, stile mandolino-pastasciutta. Peraltro anche chi non possieda competenza militare non può non sorridere all’idea che una missione priva di copertura aerea e blindata in modo assai più leggero dei carri armati Merkava (che hanno sofferto di fronte ai mezzi anticarro di Hezbollah) possa difendere Israele. Ed ora, per somma derisione, una salva di katiusha parte proprio dall’interno della zona controllata da Unifil e si abbatte su Kyriat Shmona… Tuttavia, come ha scritto un lettore italiano del JP, non bisogna prendersela col generale,generale, bensì con la politica del governo Prodi del ministro D’Alema. Anzi, quel che occorre denunziare è la condizione triste e umiliante in cui vengono ridotte le professionalità serissime e la dedizione coraggiosa delle nostre forze armate, in un intrico ditrattative, quasi che i nostri soldati fossero soltanto cocchi da proteggere. All’indomani della fine della guerra in Libano avevamo analizzato su questo giornale assai negativamente le prospettive della missione Unifil. Ma allora erano discorsi difficili, perché era il momento di gloria del multilateralismo dalemiano, del “bye bye Condi” e dell’immagine di un’Italia protagonista sulla scena mondiale. E’ bastato aspettare poco perché questa bolla propagandistica si sgonfiasse. Oggi Unifil appare sempre più come una missione impotente e incapace di realizzare uno solo dei suoi scopi istituzionali: non diciamo di disarmare Hezbollah (che scappa da ridere), non di riottenere i soldati rapiticui nessuno parla più, perché evidentemente la vita degli israeliani vale niente), ma neppure di evitare che si spari dalle zone da essa “controllate”. Lo scenario che rischia di prodursi è prevedibile: se i tiri continuano, Israele potrebbe arrivare al punto di non poter evitare di reagire (si ha bel dire “non cadremo nella trappola”) e allora – dato che Hezbollah nega ogni responsabilità e li addebita a qualche oscuro gruppo palestinese e Unifil non trova nulla – partirebbe il coro della condanna internazionale, dominato dall’acuto dalemiano della “reazione sproporzionata” e sostenuto dal consueto coro dell’intellettualità deprecante e boicottante sinistra. Viene da dire: promettete fin d’ora di astenervi da simili sceneggiate. Pensate piuttosto al panorama drammaticamente deteriorato in cui si svolge la missione Unifil. Da un lato un governo libanese dissestato e assediato da Hezbollah, da gruppi palestinesi qaidisti e filoiraniani e dalla Siria; una Siria che appare sempre più in mano alle manovre iraniane e che qualche buontempone, come l’ex direttore dell’Economist, Bill Emmott, vorrebbe calmare invitando Israele a renderle subito il Golan. Dal lato opposto, una Gaza trasformata in Hamastan. E in mezzo un’Autorità nazionale palestinese che rappresenta poco più della municipalità di Ramallah e che è poco credibile per quanto è debole. Anche qui non possiamo che richiamare quanto scritto su questo giornale: occorre prendere atto della crisi, anzi della morte della questione palestinese, e sostenere con forza l’unica alternativa possibile, e cioè unadiscesa in campo di paesi come l’Egitto e la Giordania che non possono non considerare con allarme un deterioramento crescente della situazione ai loro confini con una crescente destabilizzazione di origine iraniana. Altrimenti si andrà incontro a una guerra regionale devastante e di proporzioni difficilmente prevedibili. Potrà Israele lasciare che si completi la sua completa esposizione ai tiri missilistici? In questa situazione angosciosa, il nostro governo, che tante responsabilità si è assunte nella zona, non riesce neppure a criticare presa del potere di Hamas a Gaza, collocandosi persino “a sinistra” della Spagna di Zapatero. E, non volendo neppure rompere con Hamas, finisce oggettivamente con lo schierarsi sulla formula “due popoli, tre stati”… La nostra politica estera, incapace di rabberciare una qualsiasi proposta degna di questo nome, tenta di salvare il salvabile facendo l’occhietto a tutti coloro da cui potrebbe venire un rischio per la missione italiana, fino ad attaccarsi al salvagente di una missione del segretario dei Comunisti italiani a Damasco. Si fa tanto parlare della crisi della politica in Italia. Ma non si dice che uno dei motivi principali di tale crisi è legato al fatto che mai nessuno paga per i propri insuccessi e lo scenario è sempre occupato dai medesimi attori. Lo sfacelo della politica estera italiana dovrebbe essere registrato come tale e condurre alle logiche conclusioni. Assistiamo invece a uno stupefacente rovesciamento, per cui gli insuccessi vengono presentati come trionfi, senza rispetto per l’evidenza e per la ragione.
Carlo Panella- La lunga serie di errori di Abu Mazen fino al Jihad e al controgolpe
Il sostegno internazionale ad Abu Mazen e al governo di Salam Fayyad è oggi tanto forte (a eccezione del mutismo del governo italiano), quanto scontato, ma potrà produrre risultati apprezzabili solo a partire da una seria valutazione di quanto è avvenuto. Deve cioè essere chiaro che Abu Mazen ha forzato la Carta costituzionale, ha sciolto il Parlamento palestinese, ha avocato a sé tutti i poteri e ha proclamato uno stato di emergenza che sospende garanzie e procedure democratiche. Qualcosa di non molto dissimile dall’infausto precedente del Fnl in Algeria del 1991 a fronte della vittoria del Fis (partito “cugino” di Hamas). Primo provvedimento dello stato di emergenza, oltre lo scioglimento – non accettato del governo Haniye, è stato il decreto di scioglimento delle “Brigate Ezzedin al Qassam” e della “Forza esecutiva”, le forze di sicurezza che agiscono a nome del governo Haniye. Decreto che verrà applicato nei prossimi giorni in Cisgiordania dalle forze fedeli ad Abu Mazen e produrrà probabilmente nuovi scontri sanguinosi. Al Fatah non può infatti permettere che Hamas disponga – come dispone – di consistenti milizie in Cisgiordania, mentre Hamas, peraltro, non può assolutamente permettere che questa sua forza – che ha un forte retroterra politico anche nella West Bank e a Gerusalemme est – venga smantellata. Un quadro preoccupante, sommato alla situazione di una Gaza ormai fuori controllo, che si è formato solo grazie a una serie di tragici errori commessi da Abu Mazen negliultimi 18 mesi, con i pessimi consigli dell’Unione europea e della stessa Italia. Il primo errore si concretizzò nell’autunno del 2005, quando Ariel Sharon sondò il presidente dell’Anp per rinviare le elezioni legislative, nel timore che le vincesse Hamas. Abu Mazen ne parlò con gli alleati (Egitto, Arabia Saudita e Ue) e trovò subito conforto nella propria mancanza di decisione. Gli Stati Uniti decisero, in quell’occasione di essere multilateralisti”, diedero credito alla posizione legalitaria europea e non appoggiarono Sharon. Per l’ennesima volta, il multilateralismo si rivelò un formidabile strumento di trionfo dell’inerzia, tomba di decisioni sagge e coraggiose e apportatore di fallimenti sanguinosi. Hamas ebbe via libera, per il suo trionfo elettorale in quel Parlamento che oggi viene sciolto nel sangue, per la stessa ragione per cui non doveva essere votato una situazione di estremo favore per Abu Mazen quale era quella del 2005. Passato un anno, nell’autunno del 2006, a fronte di 3-400 morti in conflitti interpalestinesi (sono 800, circa, a oggi, più che in 18 mesi di intifada delle stragi) Abu Mazen elaborò con Condoleezza Rice, il Cairo, Amman Riad un coraggioso programma che prendeva atto dell’errore commesso non rinviando il voto del 2006: elezioni politiche anticipate nel giugno 2007 per il Parlamento e per presidente dell’Anp e referendum sulla bozza Barghouti” per la trattativa con Israele. La destituzione di Haniye veniva pareggiata con la messa a disposizione della carica presidenziale, mentre il referendum permettevapermetteva ai palestinesi di decidere sul tema della trattativa con Israele, e quindi del suo riconoscimento. Hamas reagì incrementando la guerra civile: tra novembre e febbraio morti aumentarono sino a 600. Abu Mazen, per l’ennesima volta, consultò i paesi arabi l’Europa. Da parte sua, George W. Bush, costretto dall’esito delle elezioni di mid-term a una revisione strategica, si spostò sempre più su posizioni multilaterali e quindi di rifiuto di soluzioni di forza, quali quelle prospettate dal piano di Abu Mazen contro Hamas. Uno spostamento che aprì anche un contenzioso tra Washington e Gerusalemme,Condoleezza Rice che continuava a dare crescente credito ad Abu Mazen ed Ehud Olmert che lo considerava sempre più ininfluente (“Non è in grado neanche di restituire una bicicletta rubata a Gaza!”, le urlò) e optava per una trattativa diretta sullo stato palestinese non con l’Anp, ma con la Lega araba. Preso atto infatti dei continui successi dell’asse Teheran-Damasco, Hosni Mubarak, re Abdallah II di Giordania e re Abdullah dell’Arabia Saudita avevano formato una “alleanza sunnita” che intendeva imporsi in medio oriente, proprio a partire dalla Palestina, offrendo a Israele una trattativa seria, che infatti è stata accettata. Intanto, Abu Mazen verificava sul terreno che suoi uomini a Gaza erano sulla difensiva e subivano l’iniziativa di Hamas, più che imporsi. Nacquero così gli “accordi di Riad” 9 febbraio 2007 che portarono a un governo palestinese di unità nazionale, che fu salutato con entusiasmo in Italia e in Europa perché avrebbe “evitato la guerra civile”. realtà, come la convocazione di elezioni premature, anche l’accordo di Riad è servito esclusivamente ad Hamas per rafforzarsi sotto il profilo politico e militare, tanto che giro di soli quattro mesi gli uomini di al Fatah a Gaza si sono dovuti arrendere o sono stati massacrati, mentre Abu Mazen dava ordini inefficaci e contraddittori. La guerra civile palestinese che il multilateralismo voleva evitare è stata dunque minuziosamente costruita proprio da quella logica di trattativa che del multilateralismo è l’essenza.
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