Tra le molte pagine dedicate da REPUBBLICA, oggi 19/06/2007, al conflitto mediorientale, dopo Sandro Viola come Liala (sia detto con mille scuse alla memoria della grande scrittice rosa), nella pagina successiva una analisi di Mark Heller, dell'Università di Tel Aviv, interessante per lo scenario che propone. Segue nella pagina accanto un pezzo di Renzo Guolo, che pubblichiamo in questa pagina. Un'ultima osservazione sulla bibliografia pubblicata nelle stesse pagine: tutti i titoli elencati, tranne tre, sono di taglio anti-Israele. eccoli:
Mustafà Barghouthi, Eric Hazan -Restare sulla montagna Nottetempo 2007 Shlomo Ben-Ami Palestina, la storia incompiuta Corbaccio 2007 -Giovanni Codovini :Storia del conflitto arabo israeliano palestinese Bruno Mondadori 2007 Jean Daniel ,La guerra e la pace Baldini Castoldi Dalai 2006 -Khaled Hroub Hamas ,Bruno Mondadori 2006 -Giancarlo Lannutti Storia della Palestina Datanews 2006 -Fiamma Nirenstein ,La sabbia di Gaza Rubbettino 2006 -Joe Sacco ,Palestina. Una nazione occupata Mondadori 2006 -Suad Amiry ,Se questa è vita ,Feltrinelli 2005 -David Grossman ,La guerra che non si può vincere- Mondadori 2005 -Anne Brunswic ,Benvenuti in Palestina. Cronache da Ramallah Le Lettere 2005 -Benny Morris ,1948. Israele e Palestina tra guerra e pace ,BUR 2005 -Esilio. Israele e l'esodo palestinese 1947-49 Rizzoli 2005- Ilan Pappe ,Storia della Palestina moderna Einaudi 2005 -Alain Gresh Israele, Palestina. La verità su un conflitto ,Einaudi 2004 -Freya Stark ,Effendi ,Guanda 2004 -Edward W. Said ,La questione palestinese Gamberetti 2004 -Xavier Baron I palestinesi. Genesi di una nazione ,Baldini Castoldi Dalai 2003- Rashid Khalidi ,Identità palestinese Bollati Boringhieri 2003- Noam Chomsky ,Terrore infinito ,Dedalo 2002- Gilles Deleuze ,Grandezza di Yasser Arafat Cronopio 2002 -Jean Genet ,Palestinesi Nuovi Equilibri 2002-
Ecco l'articolo di Mark Heller:
In alcuni ambienti di Israele, la violenta conquista della Striscia di Gaza da parte di Hamas ha scatenato un´ondata di isteria. I giornali a grande diffusione hanno introdotto i loro articoli con titoli di questo tenore: "Benvenuti all´inferno". I politici di destra – non soltanto all´opposizione – hanno lanciato allarmanti moniti sulle conseguenze di un mini-Stato terrorista o di un avamposto iraniano alle porte di Israele ed esigono che Israele faccia tutto ciò che è in suo potere per determinare il collasso di quello che è chiamato "Hamastan", la terra di Hamas. Il tono delle loro parole è pari soltanto a quello dei politici di sinistra, che si sono battuti il petto contriti per le presunte colpe di Israele che avrebbe indebolito a tal punto la leadership di Fatah da farla diventare facile preda dell´assalto furibondo di Hamas.
Al centro dello spettro politico, tuttavia, e specialmente nel governo e negli ambienti dei militari di professione e di chi si occupa di politica estera, le reazioni sono state di gran lunga più misurate. Israele si è astenuto dall´interferire nei combattimenti di Gaza, e non ha preso iniziativa alcuna da quando Hamas ha portato a termine la sua conquista, tranne facilitare la fuga in Cisgiordania di centinaia di abitanti di Gaza che temevano per le proprie vite. Ha altresì annunciato di non avere nessuna intenzione di trasformare il profondo disagio economico di Gaza in un disastro umanitario assoluto tagliando l´acqua, l´elettricità o altri beni e servizi di prima necessità al solo scopo di esercitare maggiori pressioni su Hamas. In realtà, il Primo ministro Ehud Olmert è arrivato a dichiarare di intravedere nei recenti sviluppi un´"opportunità genuina" per mettere le relazioni israelo-palestinesi su una strada migliore. Su che cosa si basa questa prospettiva più misurata e da un certo punto di vista perfino ottimista?
La conseguenza immediata più importante della caduta di Gaza nelle mani di Hamas è che invece di un unico governo di Autorità Palestinese di disunità nazionale, paralizzato da conflitti interni e incapace di governare validamente da nessuna parte, ci sono adesso due governi dell´Autorità Palestinese, guidati da movimenti rivali ma in teoria maggiormente in grado di governare più efficacemente in due aree geografiche distinte. Hamas adesso ha il controllo esclusivo – nonché la responsabilità esclusiva – di Gaza, con i suoi 1,2 milioni di abitanti, e dovrà rispondere del proprio operato come pure di quello altrui. Ciò permette di prospettare un dialogo più coerente di deterrenza con Israele, che fino a questo momento è stato troppo sporadico per poter fermare i razzi Qassam scagliati senza sosta su Sderot e altre cittadine e villaggi del Negev occidentale. Il desiderio di Hamas di consolidare il proprio potere a Gaza suggerisce maggiore moderazione nei confronti di Israele. La sua aspirazione a estendere il proprio potere in Cisgiordania suggerisce moderazione al fine di rassicurare i palestinesi terrorizzati dalle scene di brutalità di Gaza e di dimostrare di essere in grado di garantire un governo più onesto ed efficiente rispetto a Fatah. Se queste aspettative dovessero andare disattese e non materializzarsi, Israele da parte sua si sentirà a sua volta libero di rispondere con minor moderazione rispetto al passato. Se invece le aspettative saranno appagate, Israele potrà lavorare a relazioni di basso profilo con i funzionari di Hamas.
Ciò ci porta all´Olp/Fatah, alla Cisgiordania e all´opportunità alla quale ha fatto riferimento Olmert. La diffusa tendenza a descrivere Fatah e Hamas in termini di "moderati" e di "radicali", o anche di "buoni" e "cattivi" è una grave e superficiale semplificazione della realtà. La storia di Fatah è anch´essa costellata di immagini e influenze islamiche (si pensi alle Brigate dei Martiri di al-Aqsa). I governi controllati da Fatah e i media hanno anch´essi incoraggiato l´istigazione all´odio, e Fatah stessa, o i gruppi a essa affiliati, si sono anch´essi dedicati al terrorismo. In realtà, hanno fornito oltre la metà degli attentatori suicidi della seconda Intifada. Ciò nonostante, una differenza sostanziale esiste: Fatah – il cui trattato costitutivo dichiarava anch´esso espressamente il fine di "eliminare l´entità sionista" – adesso ha formalmente riconosciuto il diritto a esistere di Israele e appoggia ufficialmente la soluzione negoziata dei due Stati per risolvere il conflitto israelo-palestinese (quantunque in termini che fino a questo momento hanno impedito alle due controparti di raggiungere un´intesa a largo raggio). Hamas invece si tiene ben stretta la propria visione ispirata dalla religione, e si ripromette di distruggere Israele e liberare con la violenza tutta la Palestina, dal fiume Giordano al mare Mediterraneo.
Non meno importante è il fatto che Abu Mazen si ritenga genuinamente impegnato a raggiungere un risultato pacifico e non sia dedito al doppio gioco che ha caratterizzato il suo predecessore, Yasser Arafat. Il problema finora è che egli si è dimostrato troppo riluttante ad attuare quelle riforme interne necessarie a riabilitare il suo movimento e porre fine alla pessima reputazione di corruzione e incompetenza del suo governo, e tanto meno ad affermare la sua visione di "un´unica autorità, un´unica legge, un´unica pistola" in tutti i territori palestinesi. E finché il caos e l´illegalità vi hanno avuto la meglio, nessun governo israeliano è stato in grado o ha voluto correre i rischi per la sicurezza (o la politica interna) impliciti nelle concessioni. Gli sviluppi di Gaza e il timore che possano espandersi e interessare anche la Cisgiordania hanno dato adesso ad Abu Mazen l´incentivo e al contempo l´opportunità di avviare questi cambiamenti.
Nel perseguire questa agenda, Abu Mazen sarà appoggiato da Stati Uniti e Unione Europea (che hanno già annunciato una ripresa dell´assistenza diretta al governo) e dalla Lega araba, e specialmente dai Paesi arabi maggiormente coinvolti, Egitto e Giordania, che condividono tutti uno stesso desiderio di promuovere la stabilità e il bisogno particolare di screditare Hamas e compromettere definitivamente la sfida islamista a tutto campo nella regione.
Anche Israele condivide questi stessi interessi. Le iniziative israeliane che erano impossibili da attuare prima che il trionfo di Hamas a Gaza facesse riflettere tutti, sono adesso grandemente probabili. Prima di tutto, ciò significa assistenza per la sicurezza, provvedimenti economici (per esempio distribuire le entrate fiscali trattenute dai governi controllati da Hamas) e iniziative politiche (per esempio alleggerire le restrizioni imposte sugli spostamenti) per aiutare Abu Mazen e il suo governo a consolidare la propria posizione in Cisgiordania e a legittimare la loro politica. Tutti questi interventi potrebbero essere seguiti da una ripresa dei negoziati e da un maggior impegno per arrivare, se non proprio a realizzare la soluzione dei due Stati, se non altro (quanto meno provvisoriamente) a una soluzione a tre Stati del conflitto.
Si tratta, bisogna ammetterlo, di uno scenario ottimistico e in esso non vi è nulla di scontato e inevitabile. In poche parole, insomma, un titolo sui giornali sintetizzabile in "Benvenuti in paradiso" non sarebbe maggiormente credibile di quello che dice "Benvenuti all´inferno". Ma se non altro una chance c´è: che la nuvola della vittoria di Hamas a Gaza presenti questo lato positivo. Se poi tale chance si trasformerà o meno in realtà dipende solo dall´uso che se ne farà.
Ecco l'articolo di Renzo Guolo, a pag.47, dal titolo: " Il vicolo cieco della guerra civile", caratterizzato dai soliti luoghi comuni, come "Gaza è una società di profughi, caratterizzata da una situazione di estrema povertà." oppure "La sopravvivenza della popolazione di quell´enorme campo profughi, dilatatosi orizzontalmente tra colate di cemento e ferro e fogne a cielo aperto, che è la Striscia dipende, infatti, dagli israeliani. " In sostanza tutta la retorica che ha impedito ai lettori di REPBBLICA di farsi una opinione oggettiva di quello che accade a Gaza. E ci fermiamo qui, lasciando ai lettori il compito di leggere l'intero articolo.
Un popolo, due stati? Hamas e Olp rigettano l´ipotesi di una spartizione e ribadiscono la propria aspirazione unitaria; delegittimando l´avversario divenuto Nemico come usurpatore e golpista. Ma che ne sarà ora di, queste sì, due "entità" governate dagli islamisti e da quel che resta di Fatah, oscillante tra la vecchia guardia "tunisina" legata al fantasma del padre-padrone Arafat, e i nuovi ma poco carismatici capi della generazione più giovane? Cosa accadrà in questo lembo di terra ardentemente desiderata, ricca di memoria e drammi personali, simboleggiati dall´attaccamento alle chiavi di casa dei profughi, e già divenuta, nel disincantato immaginario mediatico, Hamastan e Fatahland?
La violenta crisi di questi giorni ha fatto crollare un mondo prima ancora che un assetto di potere. Fratelli che sparano sui fratelli, come in ogni guerra civile; ma qui tutto è amplificato dall´assenza di una patria per cui molti hanno sacrificato esistenze. Un vicolo cieco, quello imboccato dai palestinesi. Reso ancora più buio dal fatto che nessuno dei due contendenti vuole cedere ma non ha troppe chance a disposizione per indurre l´altro a piegarsi; e che la spaccatura politica tra i due territori è anche una frattura sociale. Gaza è una società di profughi, caratterizzata da una situazione di estrema povertà. La Cisgiordania è una società differenziata, che ruota attorno a città e villaggi in cui alcuni ceti sociali dispongono di patrimonio e status.
Libero dai condizionamenti degli uomini di Abu Mazen, ormai assunto al ruolo di primo "traditore e collaborazionista" per aver defenestrato il governo presieduto da Haniyeh, Hamas potrebbe tentare di tenere alto il consenso invocando la nascita di uno stato nei confini dell´intera Palestina. Un obiettivo politicamente e militarmente poco realistico, che implica la scomparsa di Israele; ma che il movimento islamista potrebbe sottoporre a un referendum destinato a sconfessare un´eventuale intesa negoziale tra l´Olp e lo stesso Israele. Se l´esito fosse opposto, la consultazione darebbe comunque legittimazione a una diversa scelta di Hamas. La sopravvivenza della popolazione di quell´enorme campo profughi, dilatatosi orizzontalmente tra colate di cemento e ferro e fogne a cielo aperto, che è la Striscia dipende, infatti, dagli israeliani. Acqua, carburante, energia elettrica, scorte alimentari, tutto dipende dalla loro volontà di stringere o meno la presa. Se Hamastan significasse l´interruzione della tregua unilaterale (hudna) nei confronti di quella che gli islamisti continuano a definire "l´entità sionista"; se riprendessero gli attacchi suicidi, anche giustificati come forma di rappresaglia nei confronti delle cosiddette "eliminazioni mirate" di Tsahal, il ministato islamico palestinese in riva al Mediterraneo sarebbe messo a ferro e fuoco dal potente vicino. Senza alcuna remora.
Un´opzione assai probabile se la destra di Netanyahu tornasse al potere ma che il governo di Olmert e Barak, preferirebbe non attivare: puntando invece a un collasso interno del gruppo dirigente islamista, impossibilitato a far fronte alle esigenze elementari della popolazione. Esito che Hamas potrebbe tentare di scongiurare facendo leva sulla la carta della solidarietà islamica che verrà dalle potenti ong di paesi ufficialmente filoccidentali, dagli aiuti alla causa raccolti tra i fedeli, e dall´antisionismo di Siria e Iran, stati sponsor decisi a mantenere alta la tensione ai confini di Israele. Solidarietà, però, sin qui rivelatasi insufficiente. Una strategia, quella del depauperamento economico di Gaza, che avrebbe come corrispettivo la riapertura del rubinetto dei flussi di finanziamenti internazionali per il governo "ufficiale", quello della Cisgiordania. Anche se la crescita economica non basterebbe all´Olp per riacquistare credibilità. Non solo a Gaza, dove vivono quasi un milione e mezzo di palestinesi che non possono essere ignorati, ma anche a Ramallah o Nablus.
L´operazione di ricostruzione dell´immagine delle forze laiche non passa solo attraverso la monetizzazione dello scontento. Troppe sono le ferite dei palestinesi, perché possano essere lenite da un fiume di dollari. E l´appoggio americano e israeliano a Abu Mazen rischia di essere percepito come un fattore di divisione tra palestinesi se la prospettiva di uno stato degno di questo nome, e non una sorta di "bantustan" solcato da muri, colonie e bypass road, restasse per loro una chimera. Una volta che il gruppo dirigente dell´Olp abbia eliminato, nei fatti, la residua ambiguità sul diritto di Israele di esistere in pace e sicurezza, ordinando lo stop agli attacchi delle Brigate al Aqsa, gli Stati Uniti dovranno imporre un negoziato.
L´immobilismo dell´amministrazione Bush non è estraneo alle vicende degli ultimi tempi. Ma attendere l´esito delle prossima corsa alla Casa Bianca nella speranza che muti qualcosa, sarebbe deleterio. Se alla tragedia dei due ministati governati da leadership ostili non seguisse presto un´iniziativa politica capace di produrre tangibili risultati, non si rafforzerebbe solo, o tanto, l´islamonazionalista Hamas. Ma sulle dune di Gaza e nei vicoli dei villaggi vicini al Giordano si staglierebbe presto l´ombra dello jihadismo qaedista e di attori statali interessati alla destabilizzazione della regione. Un rischio che nessuno può permettersi.
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