lunedi` 25 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






La Stampa Rassegna Stampa
17.06.2007 Guido Ceronetti e la guerra dei sei giorni
ai poeti si perdona tutto, anche le scempiaggini

Testata: La Stampa
Data: 17 giugno 2007
Pagina: 35
Autore: Guido Ceronetti
Titolo: «Sei giorni che incendiarono il mondo»

Anche il titolo, " Sei giorni che incendiarono il mondo", fa il paio con il testo. Quei sei giorni, persino alla Stampa dovrebbero saperlo se andassero a riverdersi gli articoli pubblicati allora, non incendiarono affatto il mondo, ma salvarono Israele dall'attacco concentrico degli stati arabi. Sul  testo di Ceronetti c'è poco da dire, è un poeta, e ai poeti, così presi dalla Poesia, è lecito dare i numeri. Solo che  poeta, però, Ceronetti non è, si documenta, legge persino l'Economist. Allora, noi che gli vogliamo bene, gli diciamo, con affetto, caro Guido, lascia stare la poesia quando affronti la prosa, massime quando scrivi di storia. Ecco il suo articolo sulla STAMPA di oggi, 17/06/2007 a pag.35.

Fogli ingialliti di quarant’anni fa, li avevo strappati da L’Express, la carta sembra essersi fatta, nel tempo, ancora più sottile nelle mie carte d’archivio, uno degli ultimi, credo (privati, personali) rimasti fedeli alla propria realtà cartacea: bruciateci, non virtualizzateci - le carte dicono.
La piccola storia racconta la grande. L’inviato del periodico si trovava nel Neghev al seguito di Moshé Dayan, da poco fatto ministro della Difesa nel Gabinetto di Guerra a Tel Aviv. Si era nel bar di un albergo, la Qôl Israel trasmetteva le notizie, ultimi di maggio 1967. Con lui alcuni piloti di Mystère e di Mirage bevevano succhi di frutta insieme a tre cantanti allora molto popolari che si preparavano a fare le cornamuse scozzesi con una canzone adatta ad animare le truppe. Il generale della benda nera mangiò un panino e andò a letto, lasciando le scarpe da lucidare fuori della porta. Veniva gente ansiosa e quelli del bar rispondevano: -Non sarà per stanotte, le scarpe di Moshé sono davanti alla porta!- La notte sul venerdì 2 giugno le scarpe, insieme alla benda nera, erano sparite.
L’ordine di attaccare, all’aviazione israeliana, fu per il lunedì 5: alle nove di quel giorno la battaglia aerea era già terminata. Fu la guerra dei Sei Giorni, una guerra lampo da fare invidia a Erwin Rommel. Le scarpe di Moshé erano arrivate sul Golan siriano, a Suez e al Muro del Pianto, in un battere di ore. Nessuno immaginava che quella feroce guerra, databile già da Lawrence d’Arabia, non avrebbe più avuto fine. Del resto, una vittoria così totale e folgorante su tanti nemici armati non poteva che essere punita dall’ambiguità del Destino. Si crede di «fare la storia»: in realtà ubbidiamo a oscuri decreti.
Israele non è un popolo ma un destino
Quanti libri da allora, quante analisi, quante frustrazioni e autocritiche, e quali enormi voragini riempite d’odio! Quella fu l’ultima guerra classica, comprensibile: oggi è inutilmente stupido essere pacifisti, le paci e le guerre appartengono al passato, mi arrischio a dire: al passato meno fuori regola dell’umanità - oggi il mondo e i tempi sono stati presi in consegna, per una dominazione incalcolabile, dalla violenza. In quei giorni stavo terminando la mia prima versione integrale del libro dei Salmi, per Einaudi, che in seguito ho ripudiato e nella successiva, edita da Adelphi, non ne sono rimaste tracce. Lavoravo fino a tardi e dopo cena andavo in via Veneto a fare il pieno di giornali sulla guerra d’Israele, che pareva palpabile già da Porta Pia e pendeva dalle edicole mettendo in ombra perfino il porno. Fu vita vera, accidenti, di passioni dell’anima che cerca, che della parola finalmente raggiunta si ubriaca!
E ricordo bene l’onda emotiva di partecipazione all’evento negli ambienti romani che frequentavo. Perfino Umberto Terracini si tolse il bavaglio imposto dal partito e scrisse a nome suo e della moglie Laura una lettera di completa e sciolta solidarietà ai suoi amici d’Israele, quando le scarpe di Dayan erano ancora davanti alla porta. Si può dire che in un punto, uno solo, il farneticare di Ahmadinejad è sfiorato dalla lucidità: quando ripete che Israele è un problema, essenzialmente, di coscienza europeo - lo è di midollo d’anima popolare, i governi valgono quel che valgono, ma se ancora qui ci fosse stato Santorre di Santarosa sarebbe corso a morire, in quei Sei Giorni, per gli sconosciuti in armi tra Galilea e Aqaba su cui pendeva l’annientamento. C’era al Cairo una cantante, famosa come una Piaf, Umklasùm, che nei locali e alla radio martellava questo angelico refrain degno di Radio Ruanda: Ìdhbach! («Sgozza!», «Massacra!») e da Gaza il capo palestinese Ahmed Shukeiri assicurava che non avrebbe in Israele lasciato vivo nessuno.
Proprio allora i salmi su cui lavoravo erano quelli dei pellegrinaggi (detti graduali, ‘al-ma‘alòt) e scoprivo la straordinaria applicabilità di quei versetti incrostati di millenni alla guerra che si annunciava e si andava svolgendo. Se un giorno, per caso, accadrà che un giovane filologo confronti le due versioni, gli posso fornire un filo conduttore per i graduali (da 120 a 134): nella Einaudi 1967 il tono, l’insieme delle parole riflettono la partecipazione del cuore (da coscienza europea?) all’evento storico dell’anno - nell’adelfiana del 1985 (uscita riveduta e accresciuta di note nel 2006) la febbrosità emotiva, che come un fall out ricadeva allora dagli spari vittoriosi direttamente sulle sensibilità dei non-indifferenti, si è dileguata: il testo è più nitido, più fermo, il ritmo più musicale... ma la guerra dei Sei Giorni era come di un secolo prima, per l’invecchiato pilota delle parole.
Lo sforzo di dare un senso all’insensatezza riporta all’intangibilità degli oracoli dimenticati. L’oracolo su Gog, in Ezechiele 38,14 fino al termine e poi in 39, da 1 a 16 è una folgore che impressiona. Dò il v. 14 nell’essenziale (Gog è il simbolo della Forza Nemica coalizzata per sterminare): «In quel giorno, quando il mio popolo Israele abiterà in sicurezza, tu ti metterai in movimento». Di libri che raccontano e analizzano storia contemporanea ne ho parecchie centinaia, ma questo oracolo contiene, estrapolandolo intrepidamente, molta più luce, se è questa che cerchiamo, e vedi passare 1940, e poi 1948, 1967, 1973 e la guerra terroristica fino ad oggi e a domani. Gog divora la pace appena ne spunti il germoglio. (Il testo dà conoscerai, che è privo di senso; la correzione, in cui è la forza dell’oracolo, è di Edouard Dhorme). Si sbarca sfiniti dall’Exodus e si va verso le bombe dei suicidi di Hamas.
Appena cinque anni dopo la vittoria che avrà messo in pace, senza nessuno sforzo, la «coscienza europea», l’Europa si ritrae, alle Olimpiadi di Monaco, dall’abbraccio, presagito mortale, del nuovo Israele. Una intera squadra di pacifici atleti con maglietta davidica viene sbranata viva da un’azione terroristica e il Comitato olimpico decide, davvero olimpicamente, che un minuto di silenzio può bastare a medicare l’orrendo sfregio; mentre partono per Tel Aviv dei resti carbonizzati i bei Giochi vengono fatti continuare, come fossero i tempi, ancora, di Nerone e Domiziano. Dio mio, sono passati trentacinque anni da quella eurovergogna ma a ripensarci la riprovo più forte ancora. E viene questo sospetto: se le vittime fossero state di un’altra nazione, i Giochi sarebbero stati fatti continuare ugualmente?
«Sei giorni di guerra seguiti da quarant’anni di miserie. Come mettere la parola fine?». Così l’Economist nel suo numero di fine maggio dedicato alla vittoria sprecata (guastata, wasted) di Israele. La risposta è nell’oracolo di Gog e Magog, un risvegliarsi incessante e irrefrenabile di motivi di distruzione iscritti dove la ragione è muta, il ragionare impossibile. La guerra dei Sei Giorni non fu sprecata, ha riconfermato un destino. Da un conflitto fino ad allora politico e nazionale (o identitario, secondo Daniel Sibony) è sgusciato fuori, subitamente enorme, il drago di una guerra religiosa, che oggi constatiamo mondiale. In Israele, dove la determinazione comune fu dagli inizi delle migrazioni di dare valium e nembutal all’ebraicità inerme in eccesso sacrificata, la vittoria provoca un immediato risveglio d’idea messianica, e tra i palestinesi occupati o in sempiterno profughi la cantilena coranica servirà da ora in poi ad eccitare rituali di stragi dopo stragi. E noi qui, coi nostri profondi giudizi politici, non perveniamo al fondo di niente.
Oggi in Europa c’è antisemitismo più di quanto ce ne fosse al tempo di Herzl e di Mauras, e in Israele è fallito il progetto sionista di una nazione come le altre, socialista alla Bebel-Kautsky, ultralaica, che rivendicasse e insieme dimenticasse (neutralizzandola religiosamente) Gerusalemme. Ne è venuto fuori un popolo che in realtà non è tale perché è un destino. Gli storici per non essere orbi dovrebbero considerare questa forma dell’Essere ripudiata.

Per scrivere alla Stampa il proprio parere, cliccare sulla e-mail sottostante.


lettere@lastampa.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT